martedì 30 gennaio 2007

"Mi vuole insegnare?..."

E' la risposta del presuntuoso castellano spagnolo nei "Promessi Sposi". Ma è banale ridurre questa risposta alla spocchia di un provinciale. Quanti di noi avranno sentito un moto di ribellione quando si sono sentiti riprendere su qualcosa d'importante che non sapevano, e che invece avrebbero dovuto sapere? E ancora più, dalla mia esperienza d'insegnante: i ragazzi oggi sono disposti ad apprendere qualcosa?

Bisogna distinguere nettamente due tipi d'insegnamento, quello scolastico e quello universitario. Con buona pace di tante pedagogie centrate sul ragazzo, nella scuola si dà l'istruzione a chi non sa, nell'università invece si perfezionano le conoscenze di chi è disposto a imparare e già possiede delle nozioni per assimilare autonomamente quanto va apprendendo. Il caratere facoltativo e liberale dell'università esenta il docente da un problema che ogni inseganante sente invece tormentosamente: la riottosità dei propri alunni. Nella scuola non potrà mai passare un discorso autenticamente "culturale", perché i discenti (tranne forse quelli delle ultime classi, e in ogni caso i più dotati) non hanno ancora gli strumenti per comprenderlo.

Paradossalmente, in certi casi questo è un bene. Un Toni Negri insegnante sarebbe stato un frustrato tra tanti, perché le sue pretese intellettuali avrebbero dovuto arrendersi di fronte all'istintività cieca di ragazzi che quando aprono bocca lo fanno solo per ascoltare se stessi o imporsi da bulli agli altri. I ragazzi sono immuni dalle sofisticherie intellettuali perché sono al di sotto della cultura. Da questo punto di vista gli studenti universitari sono più vulnerabili. Solo il docente universitario, a pensarci bene, ha il privilegio di essere tradito dai propri allievi.

Questo non significa, però, che gli studenti di scuola superiore siano immuni dalle ideologie. Se è vero che, nonostante gli sforzi di insegnanti ben intenzionati, le copie destinate alla scuola della Repubblica e del Corriere della Sera giacciono in enormi pile non lette, il trucco sta nel presentare idee aberranti in un linguaggio comprensibile all'istintività: i suoni, le immagini, i video, la pubblicità, i film. Mi ha fatto veramnte paura quando i miei alunni di quarta mi hanno chiesto se volevo vedere il video dell'impiccagione di Saddam Hussein che avevano scaricato sui loro cellulari. Gli ho risposto che stiamo diventando barbari quanto i romani che andavano a veder morire la gente nei circhi (secondo me, quando una civiltà arriva a questo raggiunge il punto di non ritorno). Non so se mi hanno dato retta, sinceramente non credo. Nel mio rifiuto avranno letto la paura, ma probabilmente non avranno intuito che ho paura dell'imbarbarimento, non della violenza in sé.

E' probabile che abbiano pensato semplicemente che provassi la paura di chi non ha "stomaco" per guardare certe immagini (eppure una volta, da giudice popolare, mi è toccato vedere le immagini di una bambina assassinata e poi la sua autopsia). In ogni caso mi avranno visto come una voce esterna, che non s'imponeva alla loro coscienza.

"Mi vuole insegnare", appunto?... Ma, scrivendo questo, non dimostro forse di essere lontano io anni luce dai miei alunni?

Giovanni Romano

Abbiamo perso il senso della nascita

Ci scandalizziamo per le beffe al Presepe e per la sua scomparsa. Queste cose, in realtà, derivano dalla perdita di qualcosa di più profondo: il senso della nascita. E' il primo Natale senza Bambino. Ma questo se non altro ci dinostra che il Natale non si basa sui buoni sentimenti. Cristo è venuto tra gente rozza e per gente rozza. E' una festa dell'Avvenimento, cui nessuna Festa del Libro può nemmeno lontanamente avvicinarsi.

Giovanni Romano

Cattolici a somma zero

Il mondo cattolico sembra colpito da uno strano, paralizzante dualismo. Non di rado i cattolici “pro life” si vedono rinfacciare da quelli “progressisti” il loro disinteresse per i poveri; i “progressisti” a loro volta si vedono rinfacciare la loro indifferenza verso i temi legati alla famiglia, alla procreazione, alle manipolazioni genetiche e all’aborto.

Sembra che ci si possa occupare di una sola causa per volta, e sembra che ognuna di queste “cause” debba per forza escludere le altre. E’ un gioco a somma zero, tanto lacerante quanto sterile, di cui i mass media e i partiti atei approfittano largamente.

Il punto è che i cattolici non hanno “cause”. I cattolici hanno Cristo e basta, che si tratti di servirLo nel non nato o che si tratti di servirLo nel povero. In nessun caso si tratta di “impegni” alternativi, ma della sola e medesima carità.

Tuttavia le due posizioni non sono sullo stesso piano, e quella “progressista”, secondo me, ha il difetto di essere più ristretta e “perbenista” dell’altra, e di dipendere troppo dalle categorie di giudizio di una cultura non cristiana.

Più di una volta mi è capitato di leggere, nelle prese di posizione “cattoprogressiste” che “l’importante non è tanto far nascere i bambini a ogni costo, quanto metterli in grado di vivere bene”. E che altro fanno i centri di aiuto alla vita? Che altro fa chi, come il Forum delle Associazioni Familiari, ha chiesto inutilmente ai vari governi di introdurre il quoziente familiare per alleggerire l’esorbitante carico fiscale di chi deve mantenere i propri figli? Che altro fa chi cerca metodi di cura con le staminali adulte?

Se non si prende in considerazione e non si tutela la vita quando davvero è più indifesa, i poveri e gli “ultimi” possono addirittura diventare un alibi per non affrontare alla radice la crisi culturale che vive la nostra società (se ancora si può chiamare tale, piuttosto che mucchio amorfo di individui come è ora).

Una volta vidi la foto di alcuni volontari che a Zurigo offrivano piatti di minestra calda a una fila di tossicodipendenti “legali”, che avevano il permesso di bucarsi in un parco cittadino riservato a questo scopo. Credo che l’esperimento sia fallito, ma il punto è un altro. Quei giovani drogati facevano paura a vedersi: spettri emaciati, gli occhi nel vuoto, i vestiti quasi a brandelli. In questo caso, può bastare scaricarsi la coscienza offrendo un piatto di minestra? O non è necessario, piuttosto, cercare di essere fino i fondo fratello di quei ragazzi, combattendo alla radice la mentalità che li ha portati fino a quel punto? Non è quella, forse, la vera opera di misericordia, piuttosto che fare docilmente i barellieri della storia? Cosa viene prima, la minestra o la persona?

L’ideologia comincia quando si tratta la realtà come un insieme di “cause” per cui battersi, e tra le quali saremmo liberi di scegliere, non come un insieme di segni cui dobbiamo obbedire, perché mandati da un Altro. Fuor di metafora: c’erano famiglie con dieci figli che ne sapevano accogliere altri non loro per carità cristiana, e persino pensare ai più poveri di loro, senza aspettare che fossero pronte tutte le condizioni per una gestione ottimale della prole. Senza dibattiti, convegni, articoli, manuali d’istruzioni. Armati solo della fiducia nella Provvidenza. E’ la coscienza della presenza di Cristo in tutto quello che viviamo che ci permette di non essere “cattolici a somma zero”, e quindi ci salva da diventare uno zero di fronte al mondo.

Un esempio di cattolico non diviso fu Mons. Tonino Bello, il vescovo di Molfetta. Alcune sue prese di posizione politiche furono discutibili, non tutto del suo insegnamento e del suo linguaggio iperbolico è condivisibile, ma una cosa emerge evidente dalla sua sofferta avventura umana: in nessun momento la cura per gli “ultimi” andò a scapito dalla cura e dalla protezione per la vita nascente. Coloro che, a sinistra, cercano d’impadronirsi della sua immagine mistificano e censurano deliberatamente quest’aspetto fondamentale della sua azione pastorale.

In un certo senso Mons. Bello si “salvò” perché, specialmente nei suoi ultimi anni, visse una unità sempre più profonda e cordiale con il Papa. Mai si atteggiò a “cattolico adulto” o a prelato-barman. Mai disse al mondo solo quel che il mondo si aspettava di sentirsi dire. Con semplicità e coraggio, dimostrò quanto sia falso il dilemma tra la difesa della vita e la solidarietà con i poveri. Una strada che noi “cattolici a somma zero” faremmo bene a seguire.


Giovanni Romano

lunedì 29 gennaio 2007

Olocausto a rischio banalizzazione


Quest'anno la mia preside mi ha incaricato di tenere la commemorazione della Shoah. E' stato un onore, ma anche una grande responsabilità, perché ogni anniversario porta in sé il rischio della retorica.

Per fortuna due cose mi hanno aiutato: l'amicizia con una signora ebrea, i cui genitori sono sopravvissuti alla strage, che mi ha fatto toccare con mano, dal vivo, l'orrore di quanto è accaduto (è molto peggio pensare a 60.000 persone uccise in un remoto circondario della Polonia piuttosto che a 6 milioni: 60.000 è un numero che si vede, 6 milioni non si riescono ad afferrare con la mente), e l'idea di citare qualche passo dello straordinario commento di Vasilij Grossman al quadro di Raffaello La Madonna sistina.

Vasilij Grossman (vedi foto) era uno scrittore ebreo sovietico degli anni '50-'60, da non confondere con il più noto David Grossman. Ufficiale dell'Armata Rossa, combatté a Stalingrado e giunse al liberare il campo di sterminio di Treblinka. Uomo profondamente amante della libertà, intuì il parallelo tra il totalitarismo nazista e quello comunista. Nel suo romanzo principale, Vita e Destino (pubblicato dalla Jaca Book) è espresso tutto il dramma del popolo russo a Stalingrado, che dovette battersi contro il nazismo mentre era prigioniero di un'ideologia altrettanto disumana come il comunismo. Fu anche l'autore, assieme a Ilija Ehremburg, di un documentatissimo studio sullo sterminio degli ebrei in URSS e nei paesi dell'Europa orientale a opera dei nazisti. Sia il romanzo che lo studio furono proibiti dale autorità comuniste per le complicità che denunciavano. Grossman morì di crepacuore per le censure e le minacce nei suoi confronti.

Che cosa ha di particolare la riflessione di Grossman, e perché l'ho scelta? Perché, a differenza di molti altri autori, Grossman non ridusse la sua denuncia ai soli lager nazisti, ma attraverso la storia del quadro di Raffaello mostra che i lager comunisti avevano ben poco da invidiare a quelli nazisti. In secondo luogo, proprio attraverso le sofferenze degli ebrei Grossman arriva a comprendere la sofferenza dell'uomo come tale, quando è oppresso da regimi violenti che usano la menzogna come prima arma per anestetizzare la coscienza.

Non mi facevo molte illusioni, a dire il vero, che questo discorso sarebbe passato con ragazzi di 15-16 anni, e purtroppo avevo ragione. Le classi sono state introdotte nella sala di proiezione quasi come in una catena di montaggio, una classe dopo l'altra e via. I ragazzi e le ragazze ridacchiavano quasi fosse uno spettacolo, un benvenuto diversivo dopo la noia delle lezioni.

Ancora peggio è stato quando si è proiettato un cortometraggio realizzato dagli stessi alunni sull'Olocausto. L'idea era ottima in sé, molto buona la ricerca di filmati d'archivio e il collegamento con alcune scene di Schindler's List, grande è stato l'impegno dei ragazzi che hanno recitato. Ma la conseguenza imprevista e non voluta è stata che gli spettatori, più che fare attenzione al contenuto, si additavano l'un l'altro questo o quel ragazzo/a che conoscevano, e giù commenti, sghignazzate, grida. Quando poi si è visto un ragazzo che tutto curvo cercava d'interpretare una vecchia ebrea sono scoppiate risate sgangherate e inopportune. Che impressione potevano fare quelle scene artigianali a chi ha scaricato sul suo cellulare l'impiccagione di Saddam Hussein o il taglio della gola di un ostaggio a Baghdad?

Meno male che uno dei ragazzi protagonisti (veramente bravo nell'interpretare un povero ritardato mentale, l'ultima sequenza era insopportabile per il dolore infinito che esprimeva il suo volto) è saltato su e ha rimproverato gli altri dicendo che da quando aveva interpretato quella parte aveva capito cos'era il bullismo, aveva capito cosa significava prendersela con uno solo perché era più debole, solo, "diverso", e se ne vergognava. Su una sola cosa non ero d'accordo con lui: ha accusato i ricchi, i potenti, chi sta in alto di aver fomentato la violenza e il razzismo. Questo è certamente vero. Ma non possiamo dimenticare che il nazismo, o qualsiasi forma di tirannia, è fatto anche di persone "normali", che è troppo "politicamente corretto" scaricare le colpe sempre sugli altri. Ce lo hanno ricordato Hannah Arendt con La banalità del male, Daniel Goldhagen con I volenterosi carnefici di Hitler, e per l'Italia Mimmo Franzinelli con il suo scomodo, bruciante Delatori.

Qual'è stata poi la reazione quando sono tornati in classe? Simile a quella di George Orwell nel racconto A Hanging: una voglia di gridare, scherzare, parlare ad alta voce, darsi a una scomposta allegria per reazione all'uomo impiccato a meno di cento metri di distanza. Così ho trovato i miei ragazzi.

Forse qualcuno avrà riflettuto, ma ho veramente paura che di questa ricorrenza sia passato ben poco, e che con l'andare del tempo si rischierà la retorica e la banalizzazione. Ho fatto, e farò, quanto è in mio potere per impedire che questo avvenga, per rispetto ai morti e soprattutto per rispetto alla mia amica ebrea. Ma Eduardo De Filippo purtroppo si sbagliava, in Napoli milionaria!: non ci sono guerre che rendono gli uomini più buoni, e dalla storia non impariamo niente.

Giovanni Romano

Il cardinale-barman


Nel 1985, Adriano Celentano produsse e girò in proprio un film ormai dimenticato, il kolossal "Joan Lui". Fu un flop completo, anche perché il film era un'opera magmatica, con grosse ingenuità ma con potenti intuizioni, e soprattutto perché era dichiaratamente cristiano, antiabortista, persino irriverente verso tanto mondo cattolico che era sceso a compromessi col mondo.

Una scena mi è rimasta particolarmente impressa: un ricevimento mondano tenuto nella chiesa (sconsacrata, nel film) di Sant'Agnese in Agone, in Piazza Navona (una sequenza apocalittica, quando passo per Piazza Navona me ne ricordo sempre).

Gente di spettacolo, giornalisti, intellettuali, scienziati, attori e attrici, insomma la créme del pensiero laico... tutti a cicalare vanitosamente tra loro, zelantemente serviti da un impeccabile barman in giacca, guanti bianchi e mitra in testa.

Lì per lì pensai che fosse blasfemo, un'offesa gratuita alla religione, ma poi capii (anche dal seguito) che Celentano non ce l'aveva con la Chiesa in quanto tale, ma con quella parte di chiesa che si prostituisce all'opinione pubblica, che segue le mode anziché giudicarle, che si converte al mondo censurando silenziosamente Cristo, e che per giunta si autonomina "profetica".

Ecco, il Card. Martini mi sembra il perfetto barman del pensiero laicista, pronto a servire cocktails di tranquillanti a base di "dialogo", "ascolto dell'altro", (ma l'Altro per eccellenza non viene ascoltato mai...), "tolleranza", dicendo infallibilmente quello che al mondo piace sentirsi dire, e benedicendo servizievolmente le aberrazioni e l'apostasia silenziosa di quelli che si proclamano "cattolici adulti".

Giovanni Romano

venerdì 19 gennaio 2007

Chi semina raccoglie...

E' proprio vero che nella vita si raccoglie quello che si semina. I coniugi Romano hanno seminato tanto di quell'odio contro i loro vicini da essere ora le due persone più odiate d'Italia.

Giovanni Romano

domenica 14 gennaio 2007

Ma possiamo vivere senza perdono?

Non rinnego e non ritiro quel che ho scritto nel post precedente, ma per amore di verità, e per dare spazio a uno sguardo più profondo del mio, riporto l'indirizzo di un articolo pubblicato sul sito www.culturacattolica.it

http://www.culturacattolica.it/frontend/exec.php?id_content_element=5194

Vigliaccamente, spero di non dover affrontare mai simili situazioni, perché altrimenti reagirei con il 99,99% di probabilità come Azouz, non come il Sig. Castagna. Ma forse sono i miti che erediteranno la terra... se non altro perché i malvagi provvedono a eliminarsi da sé.

Non senza aver fatto un bel numero di vittime tra i miti, però. E sinceramente mi sembra un prezzo un po' troppo salato da pagare.

Giovanni Romano

venerdì 12 gennaio 2007

Erba: un perdono concesso troppo presto?

Come tutti, sono sconvolto dall'efferata crudeltà di quanto è accaduto a Erba. I due assassini ora in carcere hanno, penso, il triste privilegio di essere i detenuti più odiati d'Italia. Verso di loro, poi, ho una ragione personale di antipatia, perché mi hanno fatto vergognare del cognome che porto.

Ma non è dei dettagli di cronaca che voglio scrivere, roba da far impallidire "Apocalypto". I giornali hanno già rimestato a sufficienza. Non voglio nemmeno addentrarmi in scontate analisi psico-sociologiche. Quello su cui vorrei riflettere è la prontezza quasi eccessiva con cui il padre di Raffaella Castagna ha concesso il perdono.

Di fronte a una strage così efferata, così premeditata, di fronte a un male così caparbiamente voluto, il perdono stona. Quali che possano essere le intenzioni e la nobiltà d'animo del Signor Castagna, un annuncio del genere, in questo momento, manda probabilmente il segnale sbagliato: rassegnazione al male, paura, quasi indifferenza verso la vita delle vittime dilaniate in un modo così atroce.

Perdonare senza nemmeno una parola né un pensiero di pentimento da parte degli assassini è una cosa che ha fatto solo Gesù Cristo. Penso che la statura morale del Sig. Castagna sia infinitamente superiore a quella di chi invoca e promette vendetta, ma io, perdonate anche me, non so che farmene della "superiorità morale" se questo significa sacrificare l'autorità della giustizia umana. Altrimenti la punizione passa per arbitrio, e il colpevole, che mai come in questo caso ha voluto il male, passa per vittima.

Capisco -direi quasi condivido- più la rabbia e la voglia di vendetta di Azouz che non l'atteggiamento troppo "angelico" del Sig. Castagna. Forse sarebbe stato meglio mantenere il silenzio, un lungo silenzio fino a quando il tempo avesse decantato l'orrore e il rancore.

Giovanni Romano

P.S: Strano che a Erba "Avvenire" abbia intervistato tutti, anche i sacerdoti, meno che Padre Livio, il fondatore di Radio Maria. Sinceramente la cosa mi è dispiaciuta. Poco male, però. Padre Livio non ha bisogno della pubblità di "Avvenire". Se mai il contrario.

Il summit di Caserta

Quando era al governo Berlusconi, trovavo assai discutibile che trattasse questioni molto importanti per la vita del Paese nelle sue residenze private, Palazzo Grazioli a Roma, o a Milano, oppure in Sardegna. Mi sembrava -e tuttora mi sembra- una scorrettezza, se non formale certo di sostanza, la prova di una scarsa sensibilità verso le istituzioni, il ritorno ai triumvirati di cesariana memoria e un implicito disprezzo delle procedure formali sì, ma necessarie, della vita democratica.

Quello che han fatto Prodi e i suoi, però, sorpassa di molto il limite della più becera indecenza. Almeno Berlusconi i vertici li teneva in casa propria, e anche se non erano gratuiti per le tasche dei cittadini (bisogna pensare alle spese per le scorte, le auto blu, ecc.) non penso che gravassero sull'erario come l'elefantiaca trasferta di Caserta.

Oltre a questo, una cosa non mi è chiara. Si è trattato di un vertice di partiti, come farebbe pensare la presenza di Marco Pannella, un non-eletto (e allora perché tanto sperpero di denaro pubblico?) oppure di un vero e proprio consiglio dei ministri? E in questo caso, perché accollare ai cittadini un caravanserraglio di impiegati, stenografi, militari, poliziotti, portaborse dei portaborse, con tutti i rischi di smarrimento o copia di documenti riservati? Vogliamo forse scimmiottare la "grandeur" dei nostri cugini d'oltralpe? Oppure (ed è l'ipotesi più caritatevole che riesco a trovare) si è voluta valorizzare la ricchezza artistica e storica del Sud?


Io però un suggerimento per Prodi & C. ce l'avrei: viste le "riforme" che avete in mente, a base di Pacs e compagnia bella, perché il summit non siete andati a farlo ad Aversa? E' a qualche chilometro soltanto, e costa molto meno. Garantito.

Giovanni Romano

giovedì 11 gennaio 2007

Scialacquatori

Tra le pene infernali alle quali immagino di essere destinato, non pensavo che potesse esserci niente di più serio della palude stigia, o al massimo del girone degli assassini. Invece proprio negli ultimi tempi mi è venuto in mente che potrei finire sbranato per l'eternità dalle cagne infernali nel cerchio dei suicidi e degli scialacquatori, a causa di scatti d'ira violentissimi che mi portano a distruggere, spaccare, calpestare tutti quegli oggetti che per un motivo o per l'altro si "rifiutano" di funzionare, o che non funzionano "come dico io". Il che, ovviamente, porta a farsi alcune domande sulla natura di un peccato così particolare, e forse così sottovalutato.

Prima di tutto, cos'ha di diverso lo scialacquatore dall'iracondo? E perché chi distrugge i propri beni è collocato peggio dell'assassino, sullo stesso piano del suicida? Non è in fondo un non-peccato, o almeno un eccesso tollerabile, fare dei propri averi quello che si vuole, senza recare alcun danno al prossimo, come fanno invece l'iracondo e l'assassino? Anche il suicida, secondo questo criterio, non dovrebbe essere punibile, dal momento che il suo gesto riguarda solo lui e su lui solo ricade e si ferma, senza coinvolgere altri.

Sarebbe scontato, e anche troppo facile, chiamare in causa la mentalità comunitaria e solidaristica del Medioevo cristiano all'epoca di Dante. Ma noi non siamo medievali, e dobbiamo rispondere con le categorie del nostro tempo alla domanda se la condanna dello scialacquatore e del suicida abbia un senso o no anche oggi.

Consideriamo prima di tutto la differenza tra l'iracondo e lo scialacquatore. Ricordiamo che per Dante questi peccati ricadono sotto due categorie diverse di gravità. L'iracondo pecca di "incontinenza", lo scialacquatore di "matta bestialità". L'incontinenza è definita come l'uso distorto di un impulso o di un istinto in sé non cattivo. L'istinto sessuale è vitale per la generazione, ed è di grande importanza per la felicità e l'intimità tra il marito e la moglie: il suo abuso è la lussuria. Per affrontare la vita una certa quantità di grinta è necessaria, così come un'aggressività ben diretta e un sano risentimento contro il male e l'ingiustizia, ma un'abitudine continua alla rissa, alla prepotenza, alla voce grossa e alle botte costituisce il peccato d'ira.

Diverso il caso della "matta bestialità": la sodomia, l'omicidio, l'usura, il suicidio e la dissipazione dei propri beni. Teniamo presente che ogni peccato grave contiene elementi dei peccati meno gravi. Così la "matta bestialità" contiene senz'altro elementi d'incontinenza, ma aggravati da un elemento di maggiore consapevolezza. Il sodomita vede l'amore dell'uomo e della donna, ma fa diversamente. L'assassino non si limita alla prepotenza ma distrugge fino in fondo l'oggetto della sua ira. L'usuraio non è solo un avaro, ma un distruttore consapevole del lavoro e della ricchezza altrui. Il suicida e lo scialacquatore distruggono entrambi le cose che conoscono di più, alle quali dovrebbero essere più attaccati e di cui sono responsabili: il proprio corpo e i propri beni.

Distruggere sé o i propri beni è il grado estremo di straniamento dalla realtà come Dio l'ha voluta. Ed è riflettendo su questo che ho capito quanto fosse grave il mio peccato. Da dove nasce, infatti, la mia rabbia così grande contro un oggetto che non funziona, o che semplicemente cade? Una volta ho rotto a pugni e scaraventato per terra una stampante che si era "piantata" in maniera apparentemente inspiegabile. Un'altra volta ho gettato nell'immondizia dei libri nuovi che erano caduti tanto rovinosamente da ammaccare o deformare la copertina. E l'ultima volta, la settimana scorsa, ho calpestato e gettato per terra, più e più volte, una batteria di palmare che mi era scivolata inavvertitamente per terra, e non mi sono fermato fino a che non l'ho vista andare in pezzi.

In tutti questi casi, ovviamente, la colpa era mia. Incompetenza, o disattenzione, non qualche "virtù" malvagia delle cose. Ma proprio questo è il pensiero che mi viene quando una cosa mi fallisce. Un senso di vergogna lancinante per l'ennesima conferma della mia incapacità e della mia inadeguatezza, e al tempo stesso un rancore altrettanto bruciante contro la forza senza volto che mi colpisce attraverso l'ottusità inanimata delle cose. Da qui un folle desiderio di vendicarmi di quella forza, distruggendo l'oggetto attraverso il quale essa agisce.

Allora questa non è semplice ira, né semplice prodigalità: è rabbia e odio per quello che è, risentimento contro la realtà così come avviene. Per questo risentimento una caduta può diventare un trauma cosmico, una contesa autodistruttiva tra me e la realtà.

Ed è questa scontentezza di fondo, questo rancore verso ciò che esiste, a rendere lo scialacquatore degno di una pena molto più grave dell'iracondo e persino dell'omicida. Questi può avere qualche ragione contro la sua vittima, lo scialacquatore e il suicida entrano in contesa contro Dio stesso. Il loro comportamento, poi, non è affatto una questione puramente individuale. E' statisticamente certo che i suicidi vanno a ondate: il disamore per la vita di alcuni (come Welby ai giorni nostri) fa perdere di coraggio molti altri. Anche per lo scialacquatore è così. Chi tratta le proprie cose con tanto selvaggio egoismo, se non rispondono alle proprie aspettative, potrà trattare le persone diversamente che da semplici oggetti?

Giovanni Romano

venerdì 5 gennaio 2007

Sognano la perfezione, si ritrovano gli incubi

"Essi cercano continuamente di evadere
dal buio esterno e interiore
sognando sistemi sociali talmente perfetti
che rendano inutile all'uomo essere buono
(T.S. Eliot, cori da
"La Rocca")

Ieri, a Prato, è stato trovato un bambino cinese di circa un anno dentro un cestino della spazzatura. Uno di quei cestini che l'amministrazione comunale fa premurosamente collocare nei giardini pubblici di una città modello come Prato (ci sono stato). Il bambino per fortuna sta bene, era ben coperto, e con ogni evidenza era stato collocato in un punto di passaggio proprio perché qualcuno lo trovasse. Chissà quale storia traumatica c'è dietro questo abbandono, ma probabilmente non lo sapremo mai, e forse non è nemmeno questo il punto. Il punto sono alcuni elementi di riflessione che mi ha fornito il servizio del TG1 delle ore 13,30 di oggi.

Prima di tutto, come specificato dallo stesso giornalista, il ritrovamento è avvenuto in una zona ormai abitata quasi esclusivamente da cinesi, chi l'ha ritrovato era un cinese, il bimbo è stato ricoverato in una stanza dell'ospedale di Prato, in compagnia di un altro neonato cinese (sarà perché piangono nella stessa lingua?). Viene da chiedersi che fine abbiano fatto gli italiani! Andatelo a chiedere a una regione spopolata e vecchia senza rimedio come la Toscana, dove la Regione istituisce alacremente i "registri delle unioni civili" ma, guarda caso, tra gli italiani non nasce quasi più nessuno perché nessuno è incoraggiato a formare una famiglia vera!

Dov'erano gli italiani? C'erano, state tranquilli, e sono stati intervistati. Era il solerte medico che ha soccorso il banbino e fortunatamente l'ha trovato in buona salute. Era l'altrettanto solerte assessore ai servizi sociali, che come il medico non riusciva a capacitarsi come potessero avvenire queste cose in una città "dove esiste ormai una rete perfettamente attrezzata di servizi sociali".

Proprio questo stupore, che nasce da una fiducia cieca nelle strutture, mi ha colpito. E mi ha fatto capire che l'umano arretra tanto più quanto più si delega tutto ai servizi. Mi è tornato in mente con particolare chiarezza un brano dell'enciclica di Papa Benedetto XVI "Deus Caritas Est":

L'amore — caritas — sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo. Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente — ogni uomo — ha bisogno: l'amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto.


Nulla di quanto il Papa ha scritto, ovviamente, avrebbe evitato di per sé l'abbandono del piccolo. Ma quantomeno avrebbe aperto gli occhi a quelli che, come il medico e l'assessore, si illudono che "le strutture" possano risparmiarci il mistero della libertà e della responsabilità umana, che vengono probabilmente disincentivate, non rafforzate, proprio da servizi sociali tanto "perfetti".

Giovanni Romano

lunedì 1 gennaio 2007

Piccole amnesie di inizio d'anno...


E' solo un caso che quest'anno, alla RAI almeno, nessun annunciatore ha menzionato "la notte di S. Silvestro", ma solo "Capodanno" o "L'ultimo dell'anno"?

Ccerto non può essere per caso che la moglie di Aroldo Tieri sia stata caparbiamente definita la sua "compagna". (Evidentemente si vuol far passare a tutti i costi l'idea che il matrimonio sia l'eccezione, non la regola).

Tutto fuorché casuale, infine, mi sembra la rimozione della targa commemorativa di Giuseppe Saragat dopo i lavori di ristrutturazione a Palazzo Barberini (vedi articolo di "Avvenire" qui a lato).

E' in atto un processo di manipolazione della memoria storia, religiosa e sociale italiana tanto silenzioso quanto subdolo. E la sinistra ha anche l'impudenza di definire "revisionisti" solo quelli che non la pensano come lei...
Giovanni Romano