sabato 26 gennaio 2008

Le mie scuse al Papa e alla Chiesa

Lo ammetto, mi sono sbagliato di grosso e di brutto. Avevo del tutto sottovalutato - proprio come i 67 sapientoni - cosa significa sfidare una forza spirituale come la Chiesa. Ho ragionato esattamente come i suoi nemici, misurando tutto in termini di successo, d'insuccesso e d'immagine. In questo modo ho peccato di disfattismo, anche se dovrò chiarire quel che intendo dire esattamente con questo termine.

Ma il Cardinale Ruini, con il suo appello semplice e diretto ai fedeli, ha fatto saltare in aria tutti gli schemi e tutti i calcoli. Ha mostrato che esiste un popolo cattolico che, per quanto piuttosto interte, confuso e addormentato da decenni di postconcilio, si sta finalmente svegliando alla consapevolezza di quello che sta avvenendo. Mi dispiace davvero di non averlo notato. Non ho avuto fede.

Questo non significa assolutamente che ai cattolici o ai cristiani sarà garantito il successo. Il disfattismo del cristiano non sta nell'aspettarsi la sconfitta. Sta nel disperare della verità, rinunciare a battersi per essa, comunque vada a finire. Perché la difesa della verità, fosse fatta anche da dieci persone soltanto, non è mai uguale a zero, e a volte porta a risultati insperati.

E da questo punto di vista ci sono due specie di disfattismo: il mio, che misura tutto sull'esito e subisce la soggezione intellettuale degli antireligiosi, e quello ancora più sottile di un Mons. Plotti, arcivescovo di Pisa, che rimprovera non i contestatori del Papa, ma chi lo difende, di alzare striscioni e "di non saper stare tra la gente come gli altri" (cioè grigi come gli altri, addormentati come gli altri, con la testa nella sabbia come gli altri). Insomma, tacere per non attirare rappresaglie. Un rivoltante appello all'anonimato e al conformismo, condito col solito appello ambiguo e melenso a "non alzare steccati", e tanto più grave perché viene da un vescovo di primo piano, che dovrebbe guidare i fedeli che gli sono affidati e non sviarli.

Giovanni Romano

mercoledì 16 gennaio 2008

La Débâcle della Chiesa


E' difficile giudicare la ritirata di Papa Benedetto XVI. Dico subito che non mi colloco tra coloro che lo hanno lodato, né tantomeno tra quelli che sostengono come la sua rinuncia sia stata una "vittoria" contro il fanatismo e l'intolleranza che gli hanno impedito di parlare. Le condanne -tutte tardive- non modificano di una linea il fatto crudo che in una università statale, quindi pagata anche coi soldi dei cattolici, i fanatici antireligiosi hanno riportato una vittoria completa. Non solo dal punto di vista dell'ordine pubblico bensì, molto più a fondo, anche da quello culturale e dell'immagine.

Ma la mia, lo ammetto, può essere un'accusa più che temeraria. Cercherò allora di spiegarmi il più a fondo e il più obiettivamente possibile.

Direi che la virulenza della contestazione di un gruppo anche numericamente insignificante ma molto agguerrito, sia di docenti che di studenti, ha spiazzato tutti. E soprattutto ha dimostrato quanto sia radicato e paralizzante il complesso d'inferiorità dei cattolici nei confronti della pseudo-cultura laicista.

Che gli anticristiani e gli atei abbiano cercato d'impedire al Papa di parlare non fa meraviglia. E' il loro sporco mestiere. Quello che fa meraviglia però è la passività assoluta, la mancanza totale di reazione tempestiva ed efficace da parte dei tanti gruppi cattolici pur presenti in Università.

E' vero però che, mentre gli autonomi, i collettivi, i disobbedienti e compagnia bella sono militarmente organizzati in proporzione inversa alla diffusione e alla popolarità delle loro idee, i cattolici, almeno sinora, si sono sempre sentiti maggioranza, e non hanno mai sentito il bisogno di darsi un'organizzazione quasi paramilitare. Per questo, anche la forza cattolica più attivamente presente in Università -Comunione e Liberazione- è stata probabilmente colta di sorpresa e non è riuscita a organizzare una contro-mobilitazione che però avrebbe portato certamente allo scontro fisico (cosa che il Papa avrà voluto evitare).

Questo però non toglie nulla alla gravità del sopruso che hanno subito tanto il Papa quanto tutti i cattolici. Al momento della sua elezione. Papa Benedetto XVI, con grande umiltà, aveva invitato i fedeli a pregare perché non si lasciasse prendere dalla paura e non fuggisse davanti ai lupi. Purtroppo è successo precisamente questo. Il pastore è fuggito.

Possiamo fargliene una colpa? No e si. No, perché Cristo stesso più di una volta fuggì di fronte ai suoi nemici, quando però non era ancora giunta la sua ora, e nessuno, credo, pretenderebbe da un vecchio ultraottantenne il coraggio spaccone da Braccio di Ferro. O di San Pietro, per restare in argomento.

Sì, invece, se si guardano le conseguenze più ampie del suo ritiro. A ragione o torto, il Papa ha dato l'idea non solo di essere fisicamente vulnerabile, ma soprattutto di non saper opporre la sua testimonianza e i suoi argomenti di fronte all'odio e all'intolleranza cieca. Di fatto, è come aver nuovamente accettato la separazione tra fede e ragione contro la quale il Papa si è tanto tenacemente battuto. E se qualcuno pensa che alla politica o ai media verrà un soprassalto di dignità e comprensione, si sbagliano di grosso. Al contrario: interpreteranno la rinuncia all'invito come un segno di debolezza non solo del Papa in quanto individuo, ma dello stesso pensiero cattolico, che corre a rinchiudersi in Piazza San Pietro e in sacrestia perché ha paura del confronto con il mondo esterno. Al mondo piace chi vince, purtroppo, anche se Cristo stesso non ebbe paura di fare la figura del perdente.

Ma quei quattro scalzacani che si gloriano di aver fermato il Papa si limiteranno forse a questo? No, gli attacchi alla Chiesa e al cristianesimo diventeranno sempre più pesanti, dato che la Chiesa manca del coraggio di reagire. Già in queste ore il Parlamento porta avanti caparbiamente l'ideologia del "gender". E se il Papa non ha il coraggio di sostenere pubblicamente la propria posizione, con quale autorità la Chiesa potrà dire no a questa manipolazione idologica, come pure ai matrimoni gay, all'eugenetica, all'aborto? E come potrà il Papa chiedere rinunce e sacrifici dai cristiani in un mondo tanto ostile, se lui per primo si è eclissato?

I commentatori dicano quello che vogliono e cerchino di girare la frittata quanto gli pare. All'Università di Roma ha vinto una cultura che ormai scopertamente vuole sbarazzarsi di Dio e di Cristo. Ha vinto la cultura dell'uomo autosufficiente, che esclude dal suo orizzonte Dio e chiunque fa riferimento a Dio. A questa cultura andava data una risposta fermissima e personale, una testimonianza pubblica che purtroppo non c'è stata. Ora i credenti si sentiranno più soli, anche moralmente più in balia del politicamente corretto e di un sentimento sempre più paralizzante d'inferiorità verso chi li sta relegando con disprezzo nelle sacrestie.

Giovanni Romano

martedì 15 gennaio 2008

Università l'Insipienza


Dopo la rinunzia del Papa, mi aspetto come prossima mossa il rogo dei libri di autori cattolici sulle scalinate dell'Università l'Insipienza.

Riporto integralmente, qui sotto, il comunicato stampa di Comunione e Liberazione, ma mi chiedo: nei giorni scorsi loro dov'erano? E' vero o no che hanno avuto la maggioranza nei consigli di facoltà? E allora perché non si sono fatti sentire? Perché non si sono fatti sentire le altre migliaia di docenti della Sapienza? O è stata l'informazione di regime ad aver dato spazio esclusivamente ai contestatori?

Comunque una cosa è certa: dalle ore 17 di oggi, in quanto cattolico, sono diventato ufficialmente un cittadino di serie B.
Giovanni Romano

Comunicato stampa

Comunione e Liberazione: Sapienza, un’altra vergogna per l’Italia


I Papi hanno potuto parlare ovunque nel mondo (Cuba, Nicaragua, Turchia, etc.). L’unico posto dove il Papa non può parlare è La Sapienza, un’università fondata, tra l’altro, proprio da un pontefice.

Questo mette in evidenza due fatti gravissimi:

1) l’incapacità del governo italiano a garantire la possibilità di espressione sul territorio italiano di un Capo di Stato estero, nonché Vescovo di Roma e guida spirituale di un miliardo di persone. Piccoli gruppi trovano, di fatto, protezioni anche autorevoli nell’impedire ciò che la stragrande maggioranza della gente attende e desidera;

2) la fatiscenza culturale dell’università italiana, per cui un ateneo come La Sapienza rischia di trasformarsi in una “discarica” ideologica.

Come cittadini e come cattolici siamo indignati per quanto avvenuto e siamo addolorati per Benedetto XVI, a cui ci sentiamo ancora più legati, riconoscendo in lui il difensore – in forza della sua fede – della ragione e della libertà.

Milano, 15 gennaio 2008.




Il "Pecora Day" dell'Università La Sapienza



Gli accademici, quanto più sono paludati, tanto più sembrano portati a comportamenti gregari, irriflessi e aberranti. E' il caso del famoso "manifesto dei 67" contro la visita del Papa all'Università "La Sapienza" (che dopo questa scomposta gazzarra rischia di essere ribattezzata "Università l'Insipienza"). E' il caso del manifesto firmato contro Magdi Allam qualche mese fa. Fu il caso dell'infame manifesto (una vera condanna a morte) firmato da oltre 800 intelletuali à la page, qualcuno lautamente stipendiato ancor oggi (vedi Eco e Moravia), contro il Commissario Calabresi.

In entrambe le eventualità, una parte almeno della nostra cultura accademica (non quella realmente di primo piano, per fortuna) ha dato la prova di un provincialismo, di una grettezza e di un dogmatismo penosi e sconcertanti. Quelli che si sono da sempre impancati a maestri di "tolleranza" si sono rivelati i più intolleranti, settari e ignoranti.

Vorrei
però sapere dove sono i cattolici in questo momento. I semplici cattolici dell'Università, intendo, non i loro rappresentanti ufficiali. Può darsi che la stampa e i media di regime li abbiano censurati, ma se così non fosse stanno dimostrando una passività, un'apatia e una remissività non meno grave del conformismo dei loro avversari. Non capiscono che se imbavagliano il Papa, più nessun cattolico potrà parlare? Il manifesto dei 67 è oggi l'equivalente morale del "Manifesto della Razza" del 1938. Stessa faziosità, stessa pseudo-cultura, stessa ignoranza paludata di paroloni. E soprattutto stesso razzismo intellettuale.

Qual è però il destino di tanti "manifesti"? Certamente fanno danno, e molto anche, ma nella storia ben pochi, o nessuno, ha lasciato un segno. Oltre ai manifesti citati sopra, ricordo il caso di un manifesto firmato da cento professori universitari di fisica tedeschi sotto Hitler, che denunciavano la teoria della relatività come "un'impostura ebraica" (!). La storia ha provveduto a consegnare quelle cento persone e le loro idee all'oblio e al disprezzo che meritavano.

Così auguriamo ai pecoroni firmatari di questo manifesto, e a chi li sostiene.

Giovanni Romano

lunedì 14 gennaio 2008

TG2: smancerie ai delfini, eutanasia ai bambini.


Da molti mesi, ormai, il TG2 delle 13 (non so quello della sera) dedica uno spazio fisso a storie di animali. Vanno forte le balene, gli orsi, i caprioli, i cani, i gatti e ovviamente i delfini. C’è un chiaro intento ideologico in tutta questa insistenza sulle storie di animali: “dimostrare” che sono uguali a noi, e che devono avere “diritti” uguali ai nostri.
Idea più che mai mistificatoria, in realtà. Da quello che ho visto in più di una occasione, direi che in troppi casi ”l’amore per gli animali” è un’ottima scusa per disprezzare gli esseri umani, o quanto meno per non prendersi cura di loro. Penso a quell’allevatore di gazze che le aveva così bene ammaestrate da aver divorziato dalla moglie e rotto coi figli. Penso a quel gorillino appena nato in Germania, ricoverato d’urgenza nel reparto terapia intensiva dei bambini, amorosamente coccolato e assistito con ogni cura, mentre il giornalista commentava tutto tronfio “sembra proprio un bambino”. Ma se per curare un animale i medici avessero tolto il posto-letto a un bambino che ne aveva bisogno, cosa sarebbe stato se non un OMICIDIO?
Infine l’ultimo caso, non ricordo nemmeno quando. In Olanda, un delfino ferito viene sollecitamente raccolto da alcuni volontari, trasportato “con un mezzo speciale” fino a un “apposito centro per la cura dei delfini feriti” (proprio così!) dove gli viene messa a disposizione “un’apposita casetta dentro una vasca tutta per lui”. Commovente davvero! Peccato che l’Olanda sia anche il primo paese al mondo ad avere autorizzato l’eutanasia sui bambini. Per i quali, presumibilmente, scarseggiano i volontari, i mezzi appositi e le casette fabbricate a bella posta.
“L’amore per gli animali” dà il grande vantaggio di scaricarsi la coscienza con il sentimentalismo. Ma “amarli” in quel modo finisce per togliere cure e rispetto all’uomo. Per questo trovo ambigue e tristi vicende come queste, e meritevoli non di lode, ma di biasimo e disprezzo.
Giovanni Romano

venerdì 11 gennaio 2008

Eva Braun: quando il candore non è innocenza


Complice un'influenza, sono rimasto chiuso in casa per qualche giorno, e ho avuto modo di guardarmi dei DVD arretrati. Tra questi c'era un cofanetto doppio, con i filmini girati da Eva Braun nei suoi momenti privati e familiari, sia con Hitler che con altre personalità del Terzo Reich.

Confesso di essere rimasto assolutamente sconcertato. Questi filmati stanno al Terzo Reich come l'aneddotica alla storia. Non rivelano assolutamente niente, non spiegano niente, non dicono niente. Chi volesse capire qualcosa del nazismo farebbe meglio a guardare persino i cinegiornali del regime.

Quello che sconcerta in questi filmati è appunto la loro banalità. Nonostante Eva Braun avesse ambizioni di attrice e regista, ha un occhio curioso ma non profondo. Leni Reifenstahl seppe fare molto meglio. Se non fosse che nelle sue riprese al Berghof compaiono Hitler e un sacco di personaggi che hanno lasciato un (cattivo) segno nella storia, i suoi filmini sarebbero quelli, tutto sommato banali e ripetitivi, di qualsiasi famiglia della media borghesia: festicciole, bambini, scampagnate, crociere e gite in montagna. Le inquadrature veramente pacchiane sono per fortuna molto rare, ma lo sono anche quelle che si potrebbero definire "poetiche". Nella maggior parte dei casi, domina la convenzione, la scontatezza, della scena si coglie il particolare più appariscente e non quello più significativo, oppure compaiono dei dettagli irrilevanti che sciupano l'insieme.

Mi ha colpito in particolare la mancanza di due cose: non si vede mai nessuno con un libro in mano, e nei suoi viaggi Eva non riprese mai nessuna chiesa. Tutta borghesia benestante e appagata, completamente laica: le gite, i cani e i conigli, le piccole buffonerie tra amici davanti alla macchina da presa. Il culto della fisicità e del salutismo, anche. L'obiettivo di Eva indugia un po' troppo sui bambini nudi (è significativo che in Italia a quell'epoca non se ne vedevano), sulle gambe nude e sui corpi seminudi delle amiche, e lei stessa non sottrae all'obiettivo il suo notevole fisico. Non è propaganda nazista, in un certo senso è peggio: è la dimostrazione di quanto il nazismo fosse ormai diventato mentalità corrente.

La storia in pantofole, si dirà. Ma quella, appunto, non è storia. Anzi rischia di essere una forma nemmeno mascherata di apologia. "Hitler in pantofole" diventa un comodo paravento per attutire l'orrore dei suoi delitti. A questo proposito, un mio amico mi ha fatto osservare molto acutamente che un tiranno veramente diabolico deve avere necessariamente qualche lato simpatico e umano, altrimenti nessuno lo seguirebbe. E' un'osservazione profondamente giusta. Se è vero che "piccoli difetti fanno dimenticare grandi virtù", è purtroppo vero anche l'inverso: grandi difetti, o addirittura tendenze criminali come in questo caso, vengono messi in ombra da piccole insulse virtù.

Un altro aspetto degno di considerazione è l'effetto che la vicinanza col potere fece su tutta la famiglia Braun. La madre, fervente cattolica (e dispiace dirlo) fin dall'inizio fu conquistata e aderì senza riserve al nazismo. Il padre, maestro elementare, aveva avuto addirittura dei trascorsi di antinazista, ma la sua conversione fu addirittura più impressionante di quella della moglie. Si trovò ben presto a suo agio nei privilegi e nell'agiatezza economica che gli dava una simile vicinanza all'uomo più potente d'Europa. Non dimentichiamo che nella Germania degli anni '20-'30 i viaggi, specialmente quelli in aereo, le crociere, le boutiques di alta moda, erano appannaggio esclusivo di una cerchia molto ristretta dell'alta borghesia. I Braun se ne servirono largamente e senza alcun imbarazzo, e per tutta la durata della guerra, tanto che alla fine si resta nauseati, oltreché annoiati, dalle continue immagini di festicciole e gite mentre intorno la Germania finiva in cenere sotto i bombardamenti. Una parabola esemplare sulla corruzione che il potere è capace di produrre.

E poi il paradosso dei bambini. I nazisti avevano un vero culto delle nascite, del numero (previo screening eugenetico, ovviamente). Ma nessuna cultura, nessuna civiltà è buona solo perché è prolifica. Fa male vedere quelle creature in mezzo ai gerarchi; sconcertano i padri in feldgrau che scherzano coi loro piccoli -tutti biondi, per carità!- vestiti di bianco. Mi è venuto in mente il Vangelo, che a questo proposito è il massimo del realismo: anche gli uomini cattivi sanno dare cose buone ai loro figli. Gesù cercava di prendere gli uomini sulle cose che loro stessi potevano capire.

Fa male pensare ai bambini atrocemente sacrificati della famiglia Goebbels, o al peso di coscienza che più d'un figlio di gerarchi ha dovuto portare dopo la guerra.

Sconcerta ancora di più che in fondo la stessa Eva fosse una bambina, quanto accettasse l'ambiente senza domande e senza discussioni. La sua però era, mi si passi il paradosso, un'ingenuità non innocente. Il DVD non riporta le opinioni di Eva a proposito degli ebrei o della politica hitleriana: probabilmente accettava con la massima naturalezza quello che diceva la propaganda. Traudl Junge, segretaria privata di Hitler, più fortunata e forse più assennata della Braun, racconta che per molto tempo dopo la guerra si giustificò pensando che a quell'epoca era giovane, che era rimasta abbagliata dal potere e dal prestigio di Hitler... Finché un giorno non passò davanti a un monumento in memoria di Sophie Scholl e scoprì che avevano la stessa età. "Da allora in poi non ho avuto più scuse", scrisse. "Lei era giovane come me, ma aveva visto. Io non avevo voluto vedere".

Così anche Eva Braun. Era talmente candida da non essere innocente. I suoi filmati non solo non danno alcun contributo a spiegare il mistero Hitler, ma lo rendono, se mai, ancora più fitto.


Giovanni Romano