La voce dal vicolo
Questo non è un blog trasgressivo. E' contro i trasgressivi a buon mercato. Questo non è un blog onesto o politicamente corretto. E' contro gli onesti e i politicamente corretti di professione. Questo non è un blog fuori dal coro, perché al suo autore piace la musica corale e l'unità tra le persone che essa crea.
giovedì 9 maggio 2024
Gianrico Carofiglio, ovvero il mentitor sottile
venerdì 19 aprile 2024
L'ultimo barbaglio di vita
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera."
Nella brevissima, folgorante poesia di Quasimodo c'è un particolare che denota tutta la sua statura di poeta e la sua finezza d'animo. Si tratta dell'ultima parola che ha adoperato: «sera».
Perché, viene da domandarsi, dopo l'immagine struggente del raggio di sole il poeta non ha usato la parola «notte»? Eppure è questa la parabola più ovvia dell'essere umano, così come è stata descritta da Samuel Beckett in Aspettando Godot, con immagini solo apparentemente simili a quelle di Quasimodo: «They gave birth astride of a grave, the lights gleam an instant, then it's night once more» («Ci han fatti nascere a cavalcioni di una tomba, le luci brillano un istante, poi è notte ancora una volta»).
Il motivo di questa diversità è duplice. Dal punto di vista della tecnica poetica, la parola «notte» avrebbe fatto precipitare il verso in un brutale anticlimax: cosa c'è di più ovvio, di più inevitabile della notte? La riflessione di Beckett si salva dalla banalità solo per la potente immagine della nascita a cavalcioni di una tomba e il brillare delle luci, non per la sconsolata conclusione.
Il secondo motivo è più profondo: la sera appartiene ancora all'uomo, è il suo ultimo spazio cosciente di riflessione, il suo ultimo appiglio verso la vita che ha vissuto, la finestra aperta verso il mistero che lo attende. Basta confrontare questa poesia con altri due grandi classici sul tema: Alla sera di Ugo Foscolo e la stupenda Viene adagio la sera di Rainer Maria Rilke. La notte può essere anch'essa oggetto di grande poesia (come nello splendido Notturno di Saffo), ma è il regno di forze primigenie ormai al di fuori dell'uomo, il regno della Necessità e non più quello della Libertà.
Scrivendo Ed è subito sera, Quasimodo ha compiuto il più bel gesto di fronte al destino che un poeta agnostico potesse compiere: non ci ha consegnati alla notte, ci ha congedati con un ultimo, tenace, indimenticabile barbaglio di vita.
Giovanni Romano
giovedì 8 settembre 2022
L'assurdo viaggio delle pere argentine
venerdì 2 settembre 2022
Gli arzilli vecchietti che smaniano per lavorare fino a cent'anni. A nostro danno
Che questi siano tempi durissimi per i lavoratori dipendenti è risaputo. Un anno dopo l'altro, un governo "tecnico" dopo l'altro, hanno perso praticamente tutti i diritti acquistati negli anni '70-'80, e nessuno può onestamente sostenere che gli pseudo."diritti civili" di nuovo conio servano nemmeno lontanamente a migliorare la loro condizione.
Lo stesso, mutatis mutandis, sta avvenendo oggi a proposito delle pensioni. Come se non fosse bastata la "riforma" (?) fornero a prolungare ingiustamente l'età lavorativa, ora si parla di prolungare ancora l'età pensionabile fino ai 71 anni "come in Giappone" (paese anch'esso colpito da una gravissima crisi demografica).
A parte la differenza di mentalità tra i lavoratori italiani e quelli giapponesi (fissarsi troppo sul lavoro può significare privarsi di altri interessi vitali, del resto persino in Giappone è nato un movimento contro il superlavoro), è degna di nota la campagna nemmeno troppo sottile che stanno conducendo due quotidiani filo-governativi come La Stampa e Il Corriere della Sera, che hanno presentato i casi di due arzilli vecchietti ultraottantenni che ancora lavorano indefessamente. Portarli come esempio "virtuoso" ha un ovvio doppio scopo: indurre l'opinione pubblica ad accettare di lavorare più a lungo, e colpevolizzare - come nel caso dei disoccupati - chi invece sente di avere già dato abbastanza e desidera semplicemente passare in santa pace gli anni che gli restano da vivere.
Due sono gli esempi portati alla ribalta. comparsi su questi giornali con sospetto sincronismo. Il primo risale al 29 agosto scorso sul Corriere, protagonista il pluristellato e pluripremiato pasticciere ottantenne Iginio Massari. Il titolo è già tutto un programma: "La pensione? L'inizio del declino. Non sono ancora abbastanza vecchio". Segue a ruota, il giorno dopo, su La Stampa, un articolo sull'ottantaduenne barista Albino Baraldo che è tornato a lavorare nel suo bar dopo averlo dato in gestione da quattro anni. Il messaggio, nemmeno tanto subliminale, è: "Vedete? Queste persone lavorano fino agli ottant'anni e oltre, e voi vi lamentate se vi chiediamo di lavorare fino ai settanta o settantuno? Pigri, inetti e parassiti che non siete altro!"
Non sono mancati, ovviamente, i commenti critici e diffidenti - la gente non è poi così stupida come forse pensano i redattori dei due quotidiani - e qualcuno, pur nel dovuto apprezzamento per Iginio Massari, ha ribattuto: "E chi l'ha detto che la pensione è l'inizio del declino? Per tanti, al contrario, può essere un nuovo inizio, con la possibilità di dedicarsi a nuovi interessi o a una passione che hanno dovuto trascurare in tanni anni di lavoro". Concordo pienamente con questa risposta.
Questi esempi "virtuosi" fanno pensare in realtà a una manovra architettata a tavolino, a una campagna propagandistica per imbonire i lavoratori e indurli ad accettare un ulteriore aumento dell'età pensionabile, e a scordarsi del tutto di lasciare il proprio lavoro per potersi dedicare finalmente a sé stessi. Perché questi esempi, meritevoli in sé, non fanno presa in realtà sul pubblico dei lettori?
Il Corriere della Sera e La Stampa sommano furbescamente le mele con le pere, presentando esempi che sono in realtà improponibili per i lavoratori dipendenti. Sia Igino Massari che il sig. Baraldo hanno due caratteristiche in comune che la maggior parte dei lavoratori subordinati non può e non potrà mai vantare:
- Sono titolari della propria attività, perché lavoratori autonomi che possono scegliere il momento di ritirarsi.
- Sono persone che dal proprio lavoro hanno tratto e traggono non solo un consistente ritorno economico, ma anche grandi soddisfazioni morali, tra cui premi e riconoscimenti come nel caso di Iginio Massari.
martedì 23 agosto 2022
Come Yu Kung NON rimosse le montagne
Una antica favola cinese, intitolata Come Yu Kung rimosse le montagne, racconta di un vecchio che viveva tanto, tanto tempo fa nella Cina settentrionale ed era conosciuto come il "vecchio sciocco delle montagne del nord". La sua casa guardava a sud e davanti alla porta due grandi montagne, Taihang e Wangwu, gli sbarravano la strada. Yu Kung decise di spianare con l'aiuto dei figli, le due montagne a colpi di zappa. Un altro vecchio, conosciuto come il "vecchio savio", quando li vide all'opera scoppiò in una risata e disse: "Che sciocchezza state facendo! Non potrete mai, da soli, spianare due montagne così grandi". Yu Kung rispose: "Io morrò, ma resteranno i miei figli; morranno i miei figli, ma resteranno i nipoti, e così le generazioni si susseguiranno all'infinito. Le montagne sono alte, ma non possono diventare ancora più alte; ad ogni colpo di zappa, esse diverranno più basse. Perché non potremmo spianarle?" Dopo aver così ribattuto l'opinione sbagliata del vecchio savio, Yu Kung continuò il suo lavoro un giorno dopo l'altro, irremovibile nella sua convinzione. Ciò impietosì il Cielo, il quale inviò sulla terra due esseri immortali che portarono via le montagne sulle spalle.
lunedì 1 agosto 2022
"Silence": un fim girato dalla parte dei persecutori
Non ho visto il film di Scorsese e non penso che lo farò, perché le scene di tortura mi fanno molta impressione, e in questa pellicola certamente non mancano. Sono dunque costretto a scrivere, per così dire, di seconda mano e per sentito dire, ma mi è parso di capire che il film è stato salutato con grande entusiasmo dalla maggioranza dei commentatori anche cattolici, e accolto con scetticismo da una esigua minoranza. Per una più ampia presentazione del film e della trama, suggerisco l'articolo di Brad Miner pubblicato l'11 gennaio 2017 sul sito La Nuova Bussola Quotidiana (www.lanuovabq.it) al link http://tinyurl.com/hvdkzg4.
Credo sia necessario fare tre premesse.
In primo luogo, il film viene a colmare una secolare lacuna storica, anzi una vera e propria congiura del silenzio sulle persecuzioni e i massacri dei cattolici giapponesi nel secolo XVII, persecuzioni che furono addirittura giustificate e applaudite nientemeno che dall'Apostolo della Tolleranza, Voltaire (vedi alla voce «Giappone» nel suo «Dizionario filosofico»). Proprio su questo punto, tra parentesi, il titolo del film si rivela in tutta la sua pregnanza: le persecuzioni furono così feroci da ridurre effettivamente al silenzio la cristianità giapponese per oltre due secoli. Silenzio poi, quando non aperta connivenza (come nel caso del sopracitato Voltaire) degli intellettuali illuministi in Europa (e ne vedremo la ragione più profonda che non fu certo motivata dalla paura). Silenzio infine dalla stessa Chiesa Cattolica che forse volle nascondere lo smacco più cocente della sua attività missionaria ed esorcizzare la domanda posta dal film: è proprio vero che il cristianesimo è positivo, è un bene per tutti gli uomini, per tutte le nazioni, per tutte le culture, o è piuttosto un fattore di divisione, di turbativa delle coscienze, di ribellione all'ordine costituito e di infiacchimento dello stato? (Gibbon docet!).
Seconda premessa: siamo sicuri che il film prenda realmente le parti dei perseguitati o piuttosto giustifica indirettamente i loro persecutori attraverso il trionfo dell'apostasia? Per meglio dire: a giudicare dalla trama, il film sembra propendere a favore di coloro che abiurarono sotto la tortura o la minaccia della tortura, e tratta da fanatici irresponsabili quelli che rimasero fermi nella fede perché attirarono l'ira delle autorità sulla loro comunità ed esposero sé stessi, le loro famiglie e i loro amici a violenze di ogni genere in nome della loro "ostinazione".
Terza premessa: la misericordia. In questo film, se ne ho capito bene la trama, la misericordia e il perdono vanno non tanto ai persecutori quanto a coloro che hanno rinnegato la fede o peggio ancora tradito i loro fratelli.
Intendiamoci: qui non si tratta di giudicare nessuno, meno che mai gli uomini e le donne che dovettero affrontare quelle situazioni spaventose e i drammi di coscienza che comportavano. Si può invece, anzi si deve, prendere posizione nei confronti di chi ha girato il film, di come abbia letto quella vicenda storica e soprattutto di quale messaggio ha voluto far passare.
Cominciamo innanzitutto con il constatare che la persecuzione in Giappone fu condotta con una determinazione assolutamente spietata e con criteri quasi scientifici per l'epoca, e a differenza delle persecuzioni in Occidente, ebbe un successo quasi completo. Questo per due ragioni: in Occidente il cristianesimo riuscì a fare propria la filosofia greca che già apparteneva al mondo classico, e si trovò a operare in una struttura statuale ancora regolata dal diritto romano che temperava l'assolutismo dell'imperatore (che ad esso anzi si richiamava apertamente). Nessuno di questi due elementi esisteva in Giappone. Sotto questo aspetto Voltaire aveva ragione, a modo suo: il cristianesimo possiede effettivamente una carica di destabilizzazione sociale (sarebbe più corretto dire: di rifondazione dei rapporti umani), una carica tanto più dirompente in una società come quella giapponese in cui l'obbedienza cieca all'imperatore e alle autorità, il conformarsi all'armonia sociale mascherava il più crudo dispotismo e i rapporti sociali più iniqui. Non è un caso che al cristianesimo aderirono non solo esponenti delle classi alte ma numerosi contadini poveri e sfruttati, che per la prima volta in vita loro vedevano riconosciuta la loro dignità di esseri umani e figli di Dio.
Il cristianesimo, inoltre, desacralizzava la figura dell'imperatore (e dunque tutta la piramide sociale che ne dipendeva) trasformandolo agli occhi dei cristiani in un essere umano dotato certamente di autorità ma sottoposto anch'egli alla legge e al giudizio di Dio.
Non so se il film colga questi punti, ma a giudicare dalla trama direi che si metta piuttosto dalla parte dell'ordine costituito. Ad esempio, uno dei protagonisti del film è un ex cristiano o sacerdote che non solo ha apostatato, ma si è trasformato nel più accanito e spietato persecutore dei cattolici (il contrario di San Paolo!). Le pressioni che costui è capace di esercitare sui fedeli sono incredibili. Oltre alle più barbare torture fisiche, usa metodi di pressione più raffinati, come ad esempio la tortura psicologica contro il sacerdote che non vuole abiurare e che viene costretto ad assistere alle sevizie e all'uccisione dei suoi parrocchiani. L'inquisitore non esita a rinfacciargli la sua fede: «Perché ti ostini tanto stupidamente con il tuo orgoglio? Cosa ti costa sfiorare appena appena col piede questa immagine di Cristo?1 Fallo, e noi cesseremo le torture e lasceremo andare i tuoi amici. Se invece moriranno tra i tormenti sarà solo colpa tua!».
Un sistema degno della Gestapo e dell'NKVD, che sarebbero venute ben tre secoli dopo! Non credo che il regista, in nessun punto del film, faccia osservare che tanta crudeltà dipende dalla libera volontà dei persecutori, non certo dai perseguitati, e che non si può accettare un ricatto morale tanto grossolano. Nessuno può scaricare sugli altri la responsabilità della sofferenza che ha scientemente deciso di infliggere ai suoi simili.
Un altro argomento che probabilmente compare di frequente nel film è che il cristianesimo non sarebbe adatto alla civiltà giapponese, sarebbe anzi un corpo estraneo, un'imposizione venuta dall'esterno e teleguidata dal Vaticano. Questo naturalmente è un sofisma: se le cose stessero veramente così non sarebbe stato necessario perseguitarlo con tanta violenza, perché l'appello dei missionari non avrebbe trovato proseliti e sarebbe caduto nel vuoto come quello di San Paolo all'Aeropago. Ho già mostrato quale carica dirompente avesse il cristianesimo nei confronti di una delle società più chiuse, conformiste e repressive del mondo, una società in cui l'individuo semplicemente non esiste come persona ed è sempre spendibile nell'interesse della comunità (o meglio del potere). Qui mi interessa affermare che la vulgata del film è una piena giustificazione del relativismo e delle culture a compartimenti stagni, senza possibilità di interazione reciproca. O meglio: secondo questa vulgata sono sempre i cristiani che devono «aprirsi» alle altre culture, ma il viceversa sarebbe sempre prevaricazione e imposizione. Questo finisce per avere due conseguenze: ghettizzare il cristianesimo entro la cultura occidentale (e sappiamo quanto questa cultura sia capace di auto-denigrazione, come disse a Subiaco l'allora Card. Ratzinger nel settembre del 20052), e negare che esso sia capace di parlare all'uomo in quanto tale, sotto qualsiasi latitudine, comprendendo e abbracciando le esigenze più fondamentali del cuore umano che è il medesimo in tutti.
In ultimo la misericordia dei cristiani. Forse è questo il punto più toccante e umano del film. Uno dei protagonisti è un traditore apostata che ha fatto imprigionare e torturare un sacerdote suo amico fraterno. Continua a tradire ma torna sempre da lui a chiedere l'assoluzione perché ogni volta ammette la sua colpa, e ogni volta viene perdonato e assolto. Questo è un punto importante. La misericordia opera quando c'è almeno il riconoscimento di quello che si è e di quello che si è fatto. La misericordia invece è vana verso chi compie il male rivendicandolo come suo diritto o peggio ancora come suo merito. Se poi il film volesse insinuare che l'idea che qualunque comportamento sarà comunque perdonato, ne lascio l'eventuale responsabilità al regista e soprattutto all'autore del libro da cui il film è tratto.
Permettetemi dunque, alla fin dei conti, di non unirmi al coro di tante voci, anche cattoliche, che hanno subito gridato al capolavoro. Può esserlo quanto alla superba recitazione degli attori, ma dal punto di vista del contenuto ne sono molto meno sicuro.
Giovanni Romano
1 . Si allude al calpestamento del Crocifisso o di una immagine sacra per provare la propria rinuncia al cristianesimo.
2 . Vedi http://tinyurl.com/z4feu42
venerdì 29 luglio 2022
Il caso Meade: quando il tempo NON è galantuomo
La battaglia, però, fece un'altra vittima nel campo nordista: proprio il generale che l'aveva vinta, George G. Meade. Dapprima fu acclamato come un eroe, e quasi subito divenne bersaglio di una violenta campagna denigratoria che ne sminuì il ruolo e ne macchiò la reputazione ben oltre la morte. Solo in tempi molto recenti si sta finalmente rivalutando non solo la sua azione di comando a Gettysburg ma anche il suo valore come stratega.
Ma procediamo con ordine. Com'è noto, l'episodio culminante della battaglia di Gettysburg fu l'inutile carica dei virginiani del generale Pickett contro le linee nordiste, che si risolse in un massacro e costrinse i sudisti a ripiegare. Ma la battaglia era stata in bilico nei due giorni precedenti, con scontri estremamente sanguinosi che avevano visto vacillare i nordisti più di una volta. Un comandante nordista, in particolare, il generale Daniel Sickles, contravvenne agli ordini di Meade e fece avanzare isolatamente il suo corpo d'armata, creando un pericoloso vuoto nella linea del fronte ed esponendo le sue truppe agli attacchi dei sudisti da ogni direzione. L'intero esercito nordista si trovò in pericolo di accerchiamento, e fu solo la prontezza di Meade nell'afferrare la situazione e inviare immediatamente rinforzi nel punto critico a impedire lo sfondamento dei sudisti. In questo scontro particolarmente cruento Sickles perse una gamba per un colpo di cannone.