giovedì 9 maggio 2024

Gianrico Carofiglio, ovvero il mentitor sottile


Dico subito di essere in profondo disaccordo politico, morale e culturale con l’Autore, e tuttavia confesso che leggere il suo libro è stato un sollievo. Finalmente un volume scritto in ottimo italiano, senza le sciatte parole ripetute, senza il linguaggio offensivo, sboccato e volgare dei social che sporca anche le discussioni sugli argomenti più seri. Finalmente uno scrittore immune dal malvezzo di mettere una virgola superflua tra soggetto e verbo (il che appesantisce fastidiosamente la lettura e crea un’inutile pausa mentale). Finalmente, infine, un libro scritto da una persona veramente colta, padrona di argomenti che sa esporre con chiarezza senza mai annoiare il lettore.

I miei apprezzamenti, però, si fermano qui, perché è l’impostazione dichiaratamente “partigiana” di Carofiglio a non avermi convinto; è il suo manicheismo sinistrorso a togliere molto valore a un’opera che pure offre più di uno spunto degno di riflessione; è la sua manomissione delle parole ad avermi spinto a coniare per lui la definizione di “mentitor sottile”.

Recensire in maniera approfondita un libro come questo richiederebbe un saggio altrettanto documentato, approfondito e di ampio respiro. È un compito alla portata di soli studiosi e giornalisti professionisti perché per discutere le tesi di Carofiglio e controbattere punto per punto alle sue affermazioni occorre un lavoro di documentazione altrettanto imponente, altrettanto scrupoloso e su molteplici piani: linguistico, giuridico, letterario e filosofico.

Il libro (in realtà, la ripresa e l’approfondimento di un libro già scritto nel 2010) è un interminabile attacco non solo a Berlusconi (la bestia nera dell’ex giudice Carofiglio e di tutte le toghe rosse) ma attraverso di lui a tutto uno schieramento politico, a tutto un orientamento culturale, a tutto un corpo elettorale che nel 1994 mandò a vuoto il progetto delle sinistre che sembrava dovesse realizzarsi da un momento all’altro: andare al potere per via giudiziaria dopo aver distrutto i partiti della prima repubblica (PCI escluso) con l’inchiesta Mani Polate… pardon, Mani Pulite.

Il resto è la storia di un conflitto senza quartiere, di inchieste a raffica, di ribaltoni e golpe di palazzo che hanno appioppato al paese governi non eletti per oltre un decennio, con esiti disastrosi per i cittadini, per il sistema produttivo, per il ruolo e la credibilità internazionale del nostro paese. È la storia della costante, sistematica, odiosa denigrazione di un uomo che pur con tutti i suoi gravi difetti aveva avuto il coraggio di giocarsi in prima persona e mostrare che il re (lo statalismo, l’oppressione fiscale, una burocrazia insensata) è nudo. Non sto qui a ripetere gli episodi più grotteschi e più offensivi (come la consegna dell’avviso di garanzia a Berlusconi il giorno stesso del summit G8 a Napoli, uno schiaffo non solo a lui ma all’Italia intera).

Il libro si articola in una approfondita analisi delle parole più significative per la convivenza di una collettività, ed è su questo piano che si comprende come agisce un “mentitor sottile”: dire delle verità incontrovertibili ma tacerne altre non meno importanti. Presentare una e una sola versione dei fatti, per quanto documentata. Rivendicare per sé la libertà di critica e la coscienza etica senza mai lasciare nessuno spazio né riconoscere valore a posizioni non allineate al pensiero unico: il suo.

È vero, ad esempio, che la democrazia articola riccamente le parole mentre la dittatura le impoverisce e le svuota (a parte l’opportuna citazione di Orwell con la Neolingua di “1984”, ho trovato molto interessante aver citato gli studi di Victor Klemperer sulla non-lingua del Terzo Reich). La lingua – come chiarisce giustamente Carofiglio – diventa uno strumento di dominio quando c’è qualcuno che si arroga il potere di definire le parole, di dare ad esse il significato che vuole lui, escludendo tutti gli altri. Per questo egli cita con approvazione i sofisti che sapevano dibattere una questione da tutti i lati, sostenendo prima una tesi e poi il suo esatto contrario, beninteso a scapito della verità e a servizio del potere che contestano solo in apparenza. È vero anche che le parole creano le cose, le portano in esistenza (anche qui una bella citazione dell’incipit al Vangelo di Giovanni).

Ma il discorso di Carofiglio troppo spesso si muove solo all’interno delle parole, e preferisce sorvolare sui fatti scomodi. Ad esempio, egli accusa gli intellettuali di destra di avere manipolato e distorto Orwell citandolo fuori contesto e facendolo passare per uno dei loro, ma non spiega il perché degli attacchi così demolitori che questo autore di sinistra indirizzò ai regimi comunisti (non al comunismo in quanto tale). In verità Orwell, che in Spagna combatté contro i fascisti, assisté inorridito alle purghe dei combattenti antifascisti non allineati al partito comunista e scampò di poco egli stesso all’arresto e alla fucilazione. Cose alle quali Carofiglio non accenna minimamente.

Oppure, sempre a proposito di Orwell, Carofiglio sostiene che il mondo di “1984” è “pauroso ma fantastico, un’utopia negativa che esiste solo nella realtà della scrittura”, mentre il Terzo Reich era un mondo “pauroso e reale”. Questa è proprio menzogna sottile, è minimizzare consapevolmente la realtà per rassicurare i lettori di sinistra di essere quelli che militano sempre e comunque dalla “parte giusta”. Chiunque abbia vissuto nell’URSS di Lenin e Stalin – e soprattutto ne sia uscito vivo! – può smentire queste affermazioni, può fare migliaia di esempi della menzogna normale e quotidiana cui si era costretti a sottostare, sulle biografie e le fotografie alterate, sui fatti falsificati in spregio alla più elementare evidenza, sulle persone scomparse e assassinate senza lasciare traccia, sulla consapevole distorsione e manipolazione del linguaggio – fatti di cui, sfortunatamente, Carofiglio non ci offre nessun esempio.

Prendiamo anche un altro esempio di posizione tendenziosa. Carofiglio reagisce con disprezzo alle parole di Berlusconi dopo l’aggressione che questi subì in piazza Duomo, quando gli venne scagliata in volto una riproduzione in porfido del Duomo di Milano, ferendolo abbastanza seriamente. Berlusconi, probabilmente per calmare gli animi, fece appello a sentimenti non politici o pre-politici: “All’odio noi rispondiamo con l’amore”. L’Autore e altri intellettuali da lui citati trovano altezzosamente da ridire su questa formula, un po’ ingenua se vogliamo, facendo freddamente notare che in politica non esiste l’amore ma solo il calcolo In altre parole, invece di fare il vittimista Barlusconi avrebbe dovuto tenersi la ferita, e zitto. È già cinico così, ma Carofliglio fa di peggio: tace completamente sulla dissennata campagna di odio, di insulti, di aperte istigazioni alla violenza e all’eversione che per settimane aveva imperversato sui giornali, nei girotondi, nelle esternazioni di tutta la compagnia di giro degli intellettuali, dei giornalisti, della gente di spettacolo che si dichiarava “nauseata” e “rivoltata” da Berlusconi e da tutto quello che lui rappresentava, non esclusi i giudici. Furono loro a mettere in mano quella pietra all’aggressore; la reazione di Berlusconi, se mai, fu fin troppo mite.

Un terzo esempio è la manomissione della parola “popolo”. Il popolo, cui tanto volentieri fanno appello le destre populiste, in realtà non esiste, è totalitarismo parlare di popolo come se tutti i cittadini condividessero gli stessi valori, appartenessero alla stessa stirpe, professassero la stessa fede e la pensassero allo stesso modo. Questo è incontrovertibilmente vero. Inoltre, i populisti giocano con le cifre quando sostengono di avere vinto le elezioni, poniamo, con il 46% dei voti quando in realtà è andato a votare solo il 30% degli aventi diritto. In pratica, il paese si troverebbe governato da una minoranza molto esigua, il 13,8% del corpo elettorale. Possiamo parlare di consenso plebiscitario, in un caso come questo? Certamente no, ma come mai il 70% non si è recato alle urne? Senza scomodare la distinzione di Giovanni Sartori tra “buona” e “cattiva” apatia (una distinzione che certamente Carofiglio conosce, del resto ha citato altrove proprio il libro “Democrazia e definizioni”) la demotivazione dovrebbe essere più un problema per l’opposizione, che non è riuscita a mobilitare gli astenuti, che non per quei partiti che bene o male hanno raccolto un consenso effettivo.

Ma la menzogna sottile non sta solo in questo, c’è ben altro. È negare l’esistenza stessa di un popolo, che non è né sarà mai un’entità monolitica – su questo Carofiglio e gli autori da lui citati hanno ragione – ma la cui esistenza non può essere negata con elaborati sofismi. Il popolo non è un’invenzione: provatevi a dire che i cinesi, o gli americani, i russi o gli inglesi sono un’invenzione. Esiste una storia comune che non può essere negata, una lingua comune (a volte non è necessaria neanche quella, pensiamo agli svizzeri) un comune modo di comportarsi, un modo di reagire comune alle circostanze che riguardano tutti, che è proprio di ciascun determinato aggregato di persone. Altrimenti si si creano non tanto le persone criticamente consapevoli auspicati da Carofiglio quanto individui soli, ancor più alla mercé di potenti meccanismi di manipolazione perché non hanno nessun punto di riferimento al di fuori di discorsi, idee che diventano fin troppo facilmente ideologie disancorate dalla realtà.

Scagliarsi contro il “populismo”, inoltre, presenta il vantaggio di consolidare il potere nelle mani di chi già lo detiene senza dover rendere conto a nessuno. Protesti per l’eccessivo carico fiscale che ti costringe a chiudere la tua attività? Sei un populista! Ti rifiuti di essere trattato come una bestia da lavoro e di dover aspettare i settanta o settantadue anni per andare in pensione? Sei un populista! Sei quanto meno perplesso dal continuo afflusso di gente che arriva senza permesso, crea problemi di ordine pubblico e drena le fin troppo scarse risorse del paese? Sei un populista! E se sei un populista, devi stare zitto!

Tra le altre ambiguità di questo libro mi hanno particolarmente urtato l'abuso e la deliberata distorsione della parola “Scelta”, che non a caso è anche il titolo di uno dei capitoli più importanti. L'Autore scrive testualmente (pagg. 88-89): “Dovremmo poter scegliere come far nascere, come vivere, e, nel caso di vite che hanno esaurito la loro parabola, come lasciar andare con rispetto. Non è questa – lasciar andare – una locuzione scelta a caso. Le ultime parole di Giovanni Paolo II, riferite nel resoconto ufficiale degli Atti della sede apostolica, sono state: 'lasciatemi andare alla casa del Padre'”.

Se non è manomissione delle parole questa! Proviamo noi, allora, a esercitare l'arte del dubbio tanto lodata da Carofiglio, e andiamo ad analizzare criticamente le sue affermazioni. Chiediamoci ad esempio: cosa significa “scegliere come far nascere”? Con l'aborto eugenetico? Con la fecondazione artificiale e l'utero in affitto, per vendere i neonati a chi per natura non può averne, come le coppie omosessuali? E chi sceglie, in questo caso, il nascituro forse? Su questo punto in particolare si assiste a una clamorosa, fraudolenta manomissione delle parole, su cui Carofliglio stranamente preferisce sorvolare: la compravendita di neonati è definita eufemisticamente dai media “gestazione per altri” oppure “maternità solidale”.

Ancora: servirsi delle parole del Papa come di un manifesto a favore dell'eutanasia è semplicemente rivoltante. Non occorre essere una persona del livello culturale di Carofiglio per capire la differenza tra il procurare attivamente la morte e il rifiuto dell'accanimento terapeutico (che non si deve confondere con l'eutanasia passiva). Oltre che citare gli Atti della sede apostolica, l'Autore avrebbe potuto dare un'occhiata agli articoli 2277 e 2278 del Catechismo della Chiesa cattolica, libro che stranamente manca nella sua sterminata bibliografia. Meno male che subito dopo cita le parole di un magnifico combattente come il poeta W. E. Henley, un inno alla vita nonostante tutto. Ma la contraddizione è solo apparente: per Carofiglio la scelta di vivere o morire è semplicemente soggettiva, un atto di volontà che non deve render conto di niente a nessuno, fondamentalmente arbitrario tanto se sceglie di vivere quanto se sceglie di morire. La scelta, e non i motivi da cui scaturisce né le conseguenze che essa provoca, è il valore fine a sé stesso.

Siamo in presenza di visioni del mondo assolutamente inconciliabili, ed è qui che scatta la mia ribellione, è qui che scatta il mio NO (o più modestamente il “preferirei di no” come il Bartleby di Melville da lui citato). Non sono e non sarò mai dalla parte di Carofiglio e di chi la pensa come lui quando si tratta di difendere la vita nascente o la morte naturale. Non sono e non sarò mai dalla sua parte quando parla di “inclusione”, “rispetto”, “tolleranza” senza mai mostrare né tolleranza né rispetto per chi la pensa diversamente da lui. Non sono e non sarò mai per una ribellione a senso unico che finisce per veicolare nuove forme di asservimento e di sottile menzogna.

Infine – mi dispiace per il dottor Carofiglio – devo segnalare un suo grossolano errore a proposito della Divina Commedia (cfr. pag. 91). I suicidi non sono puniti nel secondo cerchio dell'inferno ma nel settimo, tra i violenti e non tra i lussuriosi. (1)

Questa mia recensione, per quanto prolissa, tocca soltanto di sfuggita la ricchezza di temi, di domande, di interrogativi sollevata dal libro. Un libro con cui ogni intellettuale conservatore deve assolutamente confrontarsi sia per sollevare il tono del dibattito sia per uscire più agguerrito dal confronto con un avversario di alto livello.

Giovanni Romano

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1. Per amore di verità, va detto che Carofiglio sarà stato tratto in inganno dalla presenza della suicida Didone tre i lussuriosi, assieme ad altre anime che avavano incontrato una morte violenta come Paolo e Francesca. Ma Didone è nel secondo cerchio solo perché Dante voleva mostrare le conseguenze tragiche della lussuria, non perché quel cerchio fosse destinato ai suicidi in quanto tali.

venerdì 19 aprile 2024

L'ultimo barbaglio di vita

 


"Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera."

Nella brevissima, folgorante poesia di Quasimodo c'è un particolare che denota tutta la sua statura di poeta e la sua finezza d'animo. Si tratta dell'ultima parola che ha adoperato: «sera».

Perché, viene da domandarsi, dopo l'immagine struggente del raggio di sole il poeta non ha usato la parola «notte»? Eppure è questa la parabola più ovvia dell'essere umano, così come è stata descritta da Samuel Beckett in Aspettando Godot, con immagini solo apparentemente simili a quelle di Quasimodo: «They gave birth astride of a grave, the lights gleam an instant, then it's night once more» («Ci han fatti nascere a cavalcioni di una tomba, le luci brillano un istante, poi è notte ancora una volta»).

Il motivo di questa diversità è duplice. Dal punto di vista della tecnica poetica, la parola «notte» avrebbe fatto precipitare il verso in un brutale anticlimax: cosa c'è di più ovvio, di più inevitabile della notte? La riflessione di Beckett si salva dalla banalità solo per la potente immagine della nascita a cavalcioni di una tomba e il brillare delle luci, non per la sconsolata conclusione.

Il secondo motivo è più profondo: la sera appartiene ancora all'uomo, è il suo ultimo spazio cosciente di riflessione, il suo ultimo appiglio verso la vita che ha vissuto, la finestra aperta verso il mistero che lo attende. Basta confrontare questa poesia con altri due grandi classici sul tema: Alla sera di Ugo Foscolo e la stupenda Viene adagio la sera di Rainer Maria Rilke. La notte può essere anch'essa oggetto di grande poesia (come nello splendido Notturno di Saffo), ma è il regno di forze primigenie ormai al di fuori dell'uomo, il regno della Necessità e non più quello della Libertà.

Scrivendo Ed è subito sera, Quasimodo ha compiuto il più bel gesto di fronte al destino che un poeta agnostico potesse compiere: non ci ha consegnati alla notte, ci ha congedati con un ultimo, tenace, indimenticabile barbaglio di vita.


Giovanni Romano

giovedì 8 settembre 2022

L'assurdo viaggio delle pere argentine

 


La foto di cui sopra è stata scattata in un supermercato probabilmente di New York da un cliente più avveduto della media. Guardando con attenzione le indicazioni sulla confezione, risulta che le pere hanno fatto un viaggio che definire sconcertante è poco: prodotte in Argentina, imbarcate in Cile, spedite in Thailandia per essere trasformate in gelatina di frutta e confezionate, poi spedite negli Stati Uniti per essere vendute. Il che implica una doppia traversata dell'Oceano Pacifico oltre a un attraversamento delle Ande e un viaggio transcontinentale in ferrovia fino alla costa orientale degli Stati Uniti.

A prima vista si resta sbalorditi, ci si chiede se un viaggio così lungo, presumibilmente di settimane o mesi, abbia qualcosa a che vedere con la razionalità. Di certo ha a che vedere con il profitto. Evidentemente costa meno noleggiare delle navi, pagare carburante ed equipaggi per una distanza complessiva di oltre 40.000 km (in pratica, la circonferenza terrestre), pagare i dazi nei porti e i noli ferroviari, anziché semplicemente lavorare e confezionare le pere sul posto e spedirle direttamente negli USA, come se in Argentina non esistessero stabilimenti in grado di farlo né manodopera disposta a lavorare. E probabilmente, data la concorrenza al ribasso imposta dalla globalizzazione, di stabilimenti del genere in quel paese non ne esistono davvero. C'è da chiedersi quanto siano bassi i salari dei thailandesi, se ci si prende il disturbo di appaltare loro il confezionamento di pere provenienti da 17.000 chilometri di distanza.

Non è solo un viaggio assurdo, ma anche un viaggio dannoso per l'ambiente, dato l'inquinamento prodotto dalle navi, e anche per la salute, perché è evidente che per dei viaggi così lunghi è necessario l'uso dei conservanti.

Anche in Italia abbiamo visto esempi aberranti di globalizzazione, come quando alcuni pastori sardi fermarono e vuotarono per strada il latte di una autocisterna proveniente dalla Romania che doveva essere lavorato a poca distanza dai loro pascoli, come se i loro allevamenti non esistessero nemmeno.

Ci si chiede anche quale impresa, o quali imprese, abbiano deciso degli itinerari del genere. C'è il fondato sospetto che i cervelli - chiamiamoli così - si trovino negli USA.

Poi ci si lamenta che la filiera produttiva è troppo lunga!

Giovanni Romano

venerdì 2 settembre 2022

Gli arzilli vecchietti che smaniano per lavorare fino a cent'anni. A nostro danno


 

Che questi siano tempi durissimi per i lavoratori dipendenti è risaputo. Un anno dopo l'altro, un governo "tecnico" dopo l'altro, hanno perso praticamente tutti i diritti acquistati negli anni '70-'80, e nessuno può onestamente sostenere che gli pseudo."diritti civili" di nuovo conio servano nemmeno lontanamente a migliorare la loro condizione.

Lo stesso, mutatis mutandis, sta avvenendo oggi a proposito delle pensioni. Come se non fosse bastata la "riforma" (?) fornero a prolungare ingiustamente l'età lavorativa, ora si parla di prolungare ancora l'età pensionabile fino ai 71 anni "come in Giappone" (paese anch'esso colpito da una gravissima crisi demografica).

A parte la differenza di mentalità tra i lavoratori italiani e quelli giapponesi (fissarsi troppo sul lavoro può significare privarsi di altri interessi vitali, del resto persino in Giappone è nato un movimento contro il superlavoro), è degna di nota la campagna nemmeno troppo sottile che stanno conducendo due quotidiani filo-governativi come La Stampa e Il Corriere della Sera, che hanno presentato i casi di due arzilli vecchietti ultraottantenni che ancora lavorano indefessamente. Portarli come esempio "virtuoso" ha un ovvio doppio scopo: indurre l'opinione pubblica ad accettare di lavorare più a lungo, e colpevolizzare - come nel caso dei disoccupati - chi invece sente di avere già dato abbastanza e desidera semplicemente passare in santa pace gli anni che gli restano da vivere.

Due sono gli esempi portati alla ribalta. comparsi su questi giornali con sospetto sincronismo. Il primo risale al 29 agosto scorso sul Corriere, protagonista il pluristellato e pluripremiato pasticciere ottantenne Iginio Massari. Il titolo è già tutto un programma: "La pensione? L'inizio del declino. Non sono ancora abbastanza vecchio". Segue a ruota, il giorno dopo, su La Stampa, un articolo sull'ottantaduenne barista Albino Baraldo che è tornato a lavorare nel suo bar dopo averlo dato in gestione da quattro anni. Il messaggio, nemmeno tanto subliminale, è: "Vedete? Queste persone lavorano fino agli ottant'anni e oltre, e voi vi lamentate se vi chiediamo di lavorare fino ai settanta o settantuno? Pigri, inetti e parassiti che non siete altro!"

Non sono mancati, ovviamente, i commenti critici e diffidenti - la gente non è poi così stupida come forse pensano i redattori dei due quotidiani - e qualcuno, pur nel dovuto apprezzamento per Iginio Massari, ha ribattuto: "E chi l'ha detto che la pensione è l'inizio del declino? Per tanti, al contrario, può essere un nuovo inizio, con la possibilità di dedicarsi a nuovi interessi o a una passione che hanno dovuto trascurare in tanni anni di lavoro". Concordo pienamente con questa risposta.

Questi esempi "virtuosi" fanno pensare in realtà a una manovra architettata a tavolino, a una campagna propagandistica per imbonire i lavoratori e indurli ad accettare un ulteriore aumento dell'età pensionabile, e a scordarsi del tutto di lasciare il proprio lavoro per potersi dedicare finalmente a sé stessi. Perché questi esempi, meritevoli in sé, non fanno presa in realtà sul pubblico dei lettori?

Il Corriere della Sera e La Stampa sommano furbescamente le mele con le pere, presentando esempi che sono in realtà improponibili per i lavoratori dipendenti. Sia Igino Massari che il sig. Baraldo hanno due caratteristiche in comune che la maggior parte dei lavoratori subordinati non può e non potrà mai vantare:

  1. Sono titolari della propria attività, perché lavoratori autonomi che possono scegliere il momento di ritirarsi.
  2. Sono persone che dal proprio lavoro hanno tratto e traggono non solo un consistente ritorno economico, ma anche grandi soddisfazioni morali, tra cui premi e riconoscimenti come nel caso di Iginio Massari.
Con tutto il rispetto che è dovuto alla loro laboriosità, capacità imprenditoriale e professionalità di questi imprenditori, non ha senso proporli come modello a categorie di lavoratori che si trovano in situazioni ben diverse e molto più svantaggiate. Il solo fatto che siano comparsi articoli del genere alla vigilia di un ennesimo governo tecnocratico dovrebbe farci riflettere molto seriamente.

Prevedo che nel prossimo futuro i giornali e gli spot pubblicitari saranno pieni di arzilli vecchietti che smaniano per lavorare, lavorare, lavorare, lavorare, lavorare...

Giovanni Romano

martedì 23 agosto 2022

Come Yu Kung NON rimosse le montagne

 


Durante il congresso del Partito Comunista del giugno 1943, Mao Zedong citò un'antica favola cinese che grazie a lui divenne celebre come esempio di perseveranza e di tenacia nel perseguire uno scopo senza mai deflettere. Lasciamogli la parola:

Una antica favola cinese, intitolata Come Yu Kung rimosse le montagne, racconta di un vecchio che viveva tanto, tanto tempo fa nella Cina settentrionale ed era conosciuto come il "vecchio sciocco delle montagne del nord". La sua casa guardava a sud e davanti alla porta due grandi montagne, Taihang e Wangwu, gli sbarravano la strada. Yu Kung decise di spianare con l'aiuto dei figli, le due montagne a colpi di zappa. Un altro vecchio, conosciuto come il "vecchio savio", quando li vide all'opera scoppiò in una risata e disse: "Che sciocchezza state facendo! Non potrete mai, da soli, spianare due montagne così grandi". Yu Kung rispose: "Io morrò, ma resteranno i miei figli; morranno i miei figli, ma resteranno i nipoti, e così le generazioni si susseguiranno all'infinito. Le montagne sono alte, ma non possono diventare ancora più alte; ad ogni colpo di zappa, esse diverranno più basse. Perché non potremmo spianarle?" Dopo aver così ribattuto l'opinione sbagliata del vecchio savio, Yu Kung continuò il suo lavoro un giorno dopo l'altro, irremovibile nella sua convinzione. Ciò impietosì il Cielo, il quale inviò sulla terra due esseri immortali che portarono via le montagne sulle spalle.

Una conclusione alquanto sorprendente per un materialista dichiarato, ma Mao si affrettò a precisare:

Dobbiamo essere perseveranti e lavorare senza tregua, e noi pure commuoveremo il Cielo, e questo cielo non è altro che il popolo di tutta la Cina. Se esso si solleverà per spianare con noi le montagne, perché non potremmo riuscirci?

Una bella metafora, non c'è che dire, ma forse ce n'è un'altra più adatta a esprimere il fallimento sanguinoso di tante rivoluzioni e utopie, non solo quella cinese. È una metafora che mi era venuta in mente da molto tempo, quando improvvisamente mi era balenata l'idea di un'altra conclusione possibile per la favola, che aveva trascurato un particolare importante ma decisivo:

E così Yu Kung continuò a lavorare, un giorno dopo l'altro, un anno dopo l'altro. E dopo di lui, ammirevolmente, i suoi discendenti per novemila generazioni. Fino a quando, trasparente e chiara, sorse l'alba dell'ultimo giorno, e l'ultimo discendente dette l'ultimo colpo di zappa a quello che ormai era un piccolo, insignificante pugno di terra. Tutto quello che restava delle immense montagne. La strada era libera, e davanti a lui si apriva finalmente un panorama di sconfinata bellezza. Troppo emozionato per parlare, incredulo di aver portato a termine un lavoro così immane cominciato trecento secoli prima, l'uomo si asciugò il sudore e contemplò a lungo in silenzio il paesaggio davanti a lui. Poi si voltò per tornare a casa. E fu allora che vide...

O meglio, non vide quasi più nulla perché i detriti che lui, il suo avo Yu Kung e le novemila generazioni avevano accumulato erano alti, altissimi fino al cielo. Due montagne spaventose che chiudevano di nuovo l'orizzonte, stavolta dietro di lui. La strada di casa era scomparsa, e lui improvvisamente si sentì immensamente stanco e svuotato. Mai avrebbe avuto l'energia di riprendere quel lavoro inutile, né lui né i suoi discendenti. Si sedette sulla prima pietra che trovò, all'ombra di quelle nuove montagne, e non disse nemmeno una parola.

Giovanni Romano

lunedì 1 agosto 2022

"Silence": un fim girato dalla parte dei persecutori


Non ho visto il film di Scorsese e non penso che lo farò, perché le scene di tortura mi fanno molta impressione, e in questa pellicola certamente non mancano. Sono dunque costretto a scrivere, per così dire, di seconda mano e per sentito dire, ma mi è parso di capire che il film è stato salutato con grande entusiasmo dalla maggioranza dei commentatori anche cattolici, e accolto con scetticismo da una esigua minoranza. Per una più ampia presentazione del film e della trama, suggerisco l'articolo di Brad Miner pubblicato l'11 gennaio 2017 sul sito La Nuova Bussola Quotidiana (www.lanuovabq.it) al link http://tinyurl.com/hvdkzg4.

Credo sia necessario fare tre premesse.

In primo luogo, il film viene a colmare una secolare lacuna storica, anzi una vera e propria congiura del silenzio sulle persecuzioni e i massacri dei cattolici giapponesi nel secolo XVII, persecuzioni che furono addirittura giustificate e applaudite nientemeno che dall'Apostolo della Tolleranza, Voltaire (vedi alla voce «Giappone» nel suo «Dizionario filosofico»). Proprio su questo punto, tra parentesi, il titolo del film si rivela in tutta la sua pregnanza: le persecuzioni furono così feroci da ridurre effettivamente al silenzio la cristianità giapponese per oltre due secoli. Silenzio poi, quando non aperta connivenza (come nel caso del sopracitato Voltaire) degli intellettuali illuministi in Europa (e ne vedremo la ragione più profonda che non fu certo motivata dalla paura). Silenzio infine dalla stessa Chiesa Cattolica che forse volle nascondere lo smacco più cocente della sua attività missionaria ed esorcizzare la domanda posta dal film: è proprio vero che il cristianesimo è positivo, è un bene per tutti gli uomini, per tutte le nazioni, per tutte le culture, o è piuttosto un fattore di divisione, di turbativa delle coscienze, di ribellione all'ordine costituito e di infiacchimento dello stato? (Gibbon docet!).

Seconda premessa: siamo sicuri che il film prenda realmente le parti dei perseguitati o piuttosto giustifica indirettamente i loro persecutori attraverso il trionfo dell'apostasia? Per meglio dire: a giudicare dalla trama, il film sembra propendere a favore di coloro che abiurarono sotto la tortura o la minaccia della tortura, e tratta da fanatici irresponsabili quelli che rimasero fermi nella fede perché attirarono l'ira delle autorità sulla loro comunità ed esposero sé stessi, le loro famiglie e i loro amici a violenze di ogni genere in nome della loro "ostinazione".

Terza premessa: la misericordia. In questo film, se ne ho capito bene la trama, la misericordia e il perdono vanno non tanto ai persecutori quanto a coloro che hanno rinnegato la fede o peggio ancora tradito i loro fratelli.

Intendiamoci: qui non si tratta di giudicare nessuno, meno che mai gli uomini e le donne che dovettero affrontare quelle situazioni spaventose e i drammi di coscienza che comportavano. Si può invece, anzi si deve, prendere posizione nei confronti di chi ha girato il film, di come abbia letto quella vicenda storica e soprattutto di quale messaggio ha voluto far passare.

Cominciamo innanzitutto con il constatare che la persecuzione in Giappone fu condotta con una determinazione assolutamente spietata e con criteri quasi scientifici per l'epoca, e a differenza delle persecuzioni in Occidente, ebbe un successo quasi completo. Questo per due ragioni: in Occidente il cristianesimo riuscì a fare propria la filosofia greca che già apparteneva al mondo classico, e si trovò a operare in una struttura statuale ancora regolata dal diritto romano che temperava l'assolutismo dell'imperatore (che ad esso anzi si richiamava apertamente). Nessuno di questi due elementi esisteva in Giappone. Sotto questo aspetto Voltaire aveva ragione, a modo suo: il cristianesimo possiede effettivamente una carica di destabilizzazione sociale (sarebbe più corretto dire: di rifondazione dei rapporti umani), una carica tanto più dirompente in una società come quella giapponese in cui l'obbedienza cieca all'imperatore e alle autorità, il conformarsi all'armonia sociale mascherava il più crudo dispotismo e i rapporti sociali più iniqui. Non è un caso che al cristianesimo aderirono non solo esponenti delle classi alte ma numerosi contadini poveri e sfruttati, che per la prima volta in vita loro vedevano riconosciuta la loro dignità di esseri umani e figli di Dio.

Il cristianesimo, inoltre, desacralizzava la figura dell'imperatore (e dunque tutta la piramide sociale che ne dipendeva) trasformandolo agli occhi dei cristiani in un essere umano dotato certamente di autorità ma sottoposto anch'egli alla legge e al giudizio di Dio.

Non so se il film colga questi punti, ma a giudicare dalla trama direi che si metta piuttosto dalla parte dell'ordine costituito. Ad esempio, uno dei protagonisti del film è un ex cristiano o sacerdote che non solo ha apostatato, ma si è trasformato nel più accanito e spietato persecutore dei cattolici (il contrario di San Paolo!). Le pressioni che costui è capace di esercitare sui fedeli sono incredibili. Oltre alle più barbare torture fisiche, usa metodi di pressione più raffinati, come ad esempio la tortura psicologica contro il sacerdote che non vuole abiurare e che viene costretto ad assistere alle sevizie e all'uccisione dei suoi parrocchiani. L'inquisitore non esita a rinfacciargli la sua fede: «Perché ti ostini tanto stupidamente con il tuo orgoglio? Cosa ti costa sfiorare appena appena col piede questa immagine di Cristo?1 Fallo, e noi cesseremo le torture e lasceremo andare i tuoi amici. Se invece moriranno tra i tormenti sarà solo colpa tua!».

Un sistema degno della Gestapo e dell'NKVD, che sarebbero venute ben tre secoli dopo! Non credo che il regista, in nessun punto del film, faccia osservare che tanta crudeltà dipende dalla libera volontà dei persecutori, non certo dai perseguitati, e che non si può accettare un ricatto morale tanto grossolano. Nessuno può scaricare sugli altri la responsabilità della sofferenza che ha scientemente deciso di infliggere ai suoi simili.

Un altro argomento che probabilmente compare di frequente nel film è che il cristianesimo non sarebbe adatto alla civiltà giapponese, sarebbe anzi un corpo estraneo, un'imposizione venuta dall'esterno e teleguidata dal Vaticano. Questo naturalmente è un sofisma: se le cose stessero veramente così non sarebbe stato necessario perseguitarlo con tanta violenza, perché l'appello dei missionari non avrebbe trovato proseliti e sarebbe caduto nel vuoto come quello di San Paolo all'Aeropago. Ho già mostrato quale carica dirompente avesse il cristianesimo nei confronti di una delle società più chiuse, conformiste e repressive del mondo, una società in cui l'individuo semplicemente non esiste come persona ed è sempre spendibile nell'interesse della comunità (o meglio del potere). Qui mi interessa affermare che la vulgata del film è una piena giustificazione del relativismo e delle culture a compartimenti stagni, senza possibilità di interazione reciproca. O meglio: secondo questa vulgata sono sempre i cristiani che devono «aprirsi» alle altre culture, ma il viceversa sarebbe sempre prevaricazione e imposizione. Questo finisce per avere due conseguenze: ghettizzare il cristianesimo entro la cultura occidentale (e sappiamo quanto questa cultura sia capace di auto-denigrazione, come disse a Subiaco l'allora Card. Ratzinger nel settembre del 20052), e negare che esso sia capace di parlare all'uomo in quanto tale, sotto qualsiasi latitudine, comprendendo e abbracciando le esigenze più fondamentali del cuore umano che è il medesimo in tutti.

In ultimo la misericordia dei cristiani. Forse è questo il punto più toccante e umano del film. Uno dei protagonisti è un traditore apostata che ha fatto imprigionare e torturare un sacerdote suo amico fraterno. Continua a tradire ma torna sempre da lui a chiedere l'assoluzione perché ogni volta ammette la sua colpa, e ogni volta viene perdonato e assolto. Questo è un punto importante. La misericordia opera quando c'è almeno il riconoscimento di quello che si è e di quello che si è fatto. La misericordia invece è vana verso chi compie il male rivendicandolo come suo diritto o peggio ancora come suo merito. Se poi il film volesse insinuare che l'idea che qualunque comportamento sarà comunque perdonato, ne lascio l'eventuale responsabilità al regista e soprattutto all'autore del libro da cui il film è tratto.

Permettetemi dunque, alla fin dei conti, di non unirmi al coro di tante voci, anche cattoliche, che hanno subito gridato al capolavoro. Può esserlo quanto alla superba recitazione degli attori, ma dal punto di vista del contenuto ne sono molto meno sicuro.

Giovanni Romano

1 . Si allude al calpestamento del Crocifisso o di una immagine sacra per provare la propria rinuncia al cristianesimo.


2 . Vedi http://tinyurl.com/z4feu42


venerdì 29 luglio 2022

Il caso Meade: quando il tempo NON è galantuomo

 


La battaglia di Gettysburg (1-3 luglio 1863) non fu soltanto la più sanguinosa in assoluto della Guerra di Secessione, fu anche la battaglia che decise il corso del conflitto a favore degli stati del Nord. Avesse vinto il generale Lee, probabilmente i sudisti sarebbero stati in grado di marciare fino a Washington e imporre quanto meno un trattato di pace che avrebbe costretto gli unionisti a riconoscere la Confederazione. Le cose, come sappiamo, andarono diversamente: i sudisti furono fermati con gravissime perdite da cui l'esercito di Lee non si riprese più. Da quel momento in poi l'iniziativa passò definitivamente nelle mani dei nordisti che due anni dopo costrinsero il Sud alla resa.

Le perdite, come si è detto, furono terribili da ambo le parti, e quasi uguali: 23.055 per il Nord, 23.231 per il Sud (tra morti, feriti e dispersi), ma il Nord era più popoloso, il suo esercito era meglio equipaggiato, con una struttura industriale più sviluppata così che poté rimpiazzare le perdite e passare all'offensiva, mentre il Sud da quel momento dovette ripiegare su una difensiva oramai senza più prospettive.


La battaglia, però, fece un'altra vittima nel campo nordista: proprio il generale che l'aveva vinta, George G. Meade. Dapprima fu acclamato come un eroe, e quasi subito divenne bersaglio di una violenta campagna denigratoria che ne sminuì il ruolo e ne macchiò la reputazione ben oltre la morte. Solo in tempi molto recenti si sta finalmente rivalutando non solo la sua azione di comando a Gettysburg ma anche il suo valore come stratega.



Può sembrare strano che Meade non sia stato pubblicamente rivalutato oggi, in un'America completamente in preda alla cancel culture, in cui si stanno rimuovendo sistematicamente le statue dei generali sudisti e ogni documento di parte confederata. Come mai allora, ci si chiede, non celebrare proprio il generale che vinse gli schiavisti del Sud? (Ironia della sorte: tanto Lee quanto "Stonewall" Jackson erano personalmente contrari alla schiavitù).

La storia è raccontata in un lungo articolo di Historynet.com, che mi ha dato da pensare per via del terribile potere che può avere una stampa irresponsabile e faziosa nel falsare deliberatamente la verità e peggio ancora farla passare nei libri di storia.


Ma procediamo con ordine. Com'è noto, l'episodio culminante della battaglia di Gettysburg fu l'inutile carica dei virginiani del generale Pickett contro le linee nordiste, che si risolse in un massacro e costrinse i sudisti a ripiegare. Ma la battaglia era stata in bilico nei due giorni precedenti, con scontri estremamente sanguinosi che avevano visto vacillare i nordisti più di una volta. Un comandante nordista, in particolare, il generale Daniel Sickles, contravvenne agli ordini di Meade e fece avanzare isolatamente il suo corpo d'armata, creando un pericoloso vuoto nella linea del fronte ed esponendo le sue truppe agli attacchi dei sudisti da ogni direzione. L'intero esercito nordista si trovò in pericolo di accerchiamento, e fu solo la prontezza di Meade nell'afferrare la situazione e inviare immediatamente rinforzi nel punto critico a impedire lo sfondamento dei sudisti. In questo scontro particolarmente cruento Sickles perse una gamba per un colpo di cannone.

Ma la cosa era destinata ad avere uno strascico ben più amaro. Dopo la battaglia, passato l'entusiasmo iniziale, Meade venne criticato per non avere immediatamente incalzato i sudisti ormai quasi in rotta. In verità anche le sue truppe, per quanto vittoriose, erano decimate e sfibrate, non certo in grado di condurre un inseguimento. Fu forse per questo motivo che il presidente Lincoln, particolarmente severo coi suoi generali, nominò comandante supremo quello che sarebbe stato il vincitore della guerra, Ulysses S. Grant, che con la sua energica azione mise rapidamente in ombra Meade, il quale, tuttavia, anche da subordinato collaborò sempre lealmente con lui.

Ma la vera battaglia di Meade, da quel momento in poi, si svolse sui giornali e negli uffici del Ministero della Difesa. A guidare il fronte dei diffamatori fu proprio Sickles (ex membro del Congresso prima della guerra, con importanti appoggi politici), che una volta rimessosi dall'amputazione cominciò ad attaccare il suo ex-superiore con articoli e lettere, rivendicando meriti inesistenti. Grant fece ben poco per difendere Meade, ache se più di una volta lo assicurò - ma sempre in privato - della sua stima e della sua amicizia, e se non altro fece in modo che Lincoln lo promuovesse di grado, sia pure inconcepibilmente in ritardo rispetto ad altri comandanti meno meritevoli di lui.

Triste a dirsi, le voci di discredito seminate da Sickles trovarono ampia eco nella stampa, Meade divenne da un giorno all'altro un inetto, un vigliacco, un incapace che si era lasciato sfuggire la vittoria definitiva, e peggio ancora che aveva messo in pericolo lui, Sickles, lasciandolo solo a combattere eroicamente contro l'intero esercito sudista.

Meade, da persona riservata e seria qual era, non replicò mai a questi attacchi sulla stessa scala di Sickles, salvo sfogarsi privatamente con la moglie e protestare in via amministrativa con il Ministero della Guerra, e fu costretto addirittura a difendersi di fronte a una commissione d'inchiesta che se non altro appurò qualcuna delle menzogne di Sickles. Il generale concluse la guerra sempre al fianco di Grant, che non invitò né lui né il suo stato maggiore alla cerimonia della resa di Appomattox il 9 aprile 1865. Meade morì quasi dimenticato il 6 novembre 1872; Sickles, che fino all'ultimo lo coprì di fango, morì ultanovantenne nel 1914.

Il lato più deprimente di questa vicenda è che per molto tempo le calunnie di Sickles passarono dai giornali ai manuali di storia, tanto da aver sminuito il ruolo e la figura di Meade fino ai giorni nostri. Per questo l'articolo mi ha colpito: è fin troppo evidente come una stampa completamente asservita e irresponsabile può accodarsi a una versione distorta dei fatti, assassinare una personalità, falsificare la storia e far diventare verità le menzogne più grossolane. E non esistevano ancora i social!

I paralleli con la recente storia italiana sono fin troppo ovvi. Quante personalità, da Craxi ad Andreotti fino a Berlusconi, sono state ignobilmente mostrificate dai media? Quanti studiosi sono stati accusati di "putinismo" solo per aver portato alla luce fatti scomodi? Meade ha dovuto aspettare più di un secolo e mezzo perché almeno si iniziasse a riabilitare la sua memoria, ma una attesa così lunga smentisce l'idea che il tempo è galantuomo, perché intere generazioni di americani si sono succedute nella convinzione che egli fosse quasi il responsabile di una sconfitta anziché il generale della vittoria.

E noi, quanto dovremo aspettare per un giudizio più sereno e obiettivo sulla nostra storia?

Giovanni Romano