martedì 6 settembre 2005

Una riflessione su Matteo 18, 19-20

Domenica 4 settembre 2005 è iniziata la XXIII settimana del Tempo ordinario. Siamo in quella sezione del Vangelo di Matteo che “La Bibbia di Gerusalemme” chiama “discorso ecclesiastico”, in cui Cristo definisce molto concretamente i rapporti che devono vigere tra i suoi. Tuttavia, come sempre nel Vangelo, una lettura puramente “etica” di questi insegnamenti non solo sarebbe inopportuna, ma è impossibile. Perdonare sempre e comunque, avere il coraggio di correggere i fratelli, mettersi all’ultimo posto non sono delle “istruzioni” che uno possa mettere in pratica solo che si applichi con la necessaria diligenza. Finirebbe tutto nell’ipocrisia o in un cinico fiasco. Vi è un altro fattore che rende possibile tutto questo, e che l’uomo non può darsi da sé. Ce lo ricorda in particolare il passaggio apparentemente incongruo dei due versetti che chiudono la lettura evangelica di oggi:

19 In verità vi dico ancora se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. 20 Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”.

Prima di tutto, quindi, l’atteggiamento da cui Cristo invita a partire i suoi non è la coerenza etica, ma una domanda continua. “Senza di me non potete far nulla”, sarà ricordato ai discepoli nell’Ultima Cena (cfr. Gv 15,5). Non è solo, e non è tanto la constatazione di un limite: bensì l’invito a fare sempre memoria del Padre, a ricordare che tutto è dono di un Altro.

Perché Gesù parla di “accordo” e di “qualunque cosa”? Non dobbiamo certo intendere quel “qualunque cosa” in senso arbitrario: non si può pregare nemmeno in diecimila per ottenere la riuscita di un attentato o di un sequestro! La chiave è la parola “voi”. Voi, i miei amici, i miei discepoli, quelli che seguite Me, che date fiducia a Me, che accettate di essere cambiati da Me. L’accordo, e la domanda, è possibile solo a condizione di seguire Cristo, di accettare la Sua amicizia e la sua guida. In questo modo, è possibile domandare “qualunque cosa”, perché chi fa memoria di Cristo non può chiedere cose cattive. Ed è necessario l’accordo, perché essere in due più a domandare fa uscire dal proprio soggettivismo, rende necessario tenere conto delle esigenze reciproche, mortifica un egoismo che assumerebbe altrimenti la maschera molto pericolosa di una devozione tanto individuale quanto interessata.

Ma c’è un’altra apparente incongruenza, un “salto logico” ancora più notevole, che forse sfugge a una lettura superficiale. Nel primo versetto Gesù parla del Padre. Nel secondo, che con il primo costituisce un blocco indissolubile, Gesù mette Se stesso in primo piano, anche qui in unione indissolubile con il Padre. E’ Lui dunque l’ “Altro fattore” che rende possibile l’esaudimento della domanda umana. Si può capire l’irritazione degli ebrei osservanti nell’udire parole come queste, perché intuivano chiaramente che in questo modo Gesù ribadiva di essere "una cosa sola" con il Padre, in ultima analisi lasciava balenare la propria natura divina (cfr. Gv 5,18 e anche Gv 10,30).

Certo, è possibile dare anche di queste profondissime parole una lettura puramente “orizzontal-solidaristica” come va di moda oggi: Cristo sarebbe soltanto un “input” in più rispetto a un gruppo che si forma per conto proprio, magari per nobili fini. Ma sarebbe travisare gravemente la lettera e lo spirito di questo passo evangelico. Quello che Gesù indica è un rapporto ontologico, non organizzativo. Non è Gesù che aggiunge qualcosa a un gruppo, è l’esistenza di una compagnia umana autentica a diventare possibile perché c’è Lui. La compagnia umana cambia forma e natura perché, invocando Lui, diventa Lui, la Sua presenza incontrabile nel mondo.

Giovanni Romano

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