mercoledì 20 luglio 2022

La Chiesa e "l'effetto Mullah"


Un'antica favola persiana, probabilmente di fonte sufi, narra che una volta su un villaggio cadde una strana pioggia. Tutti gli uomini che bevvero di quell'acqua impazzirono, si mettevano a ridere sguaiatamente e senza motivo, facevano boccacce, urla e capriole, nessuno più badava a lavorare. L'unico che non l'aveva bevuta era il mullah, che cercò invano di riportare alla ragione i suoi compaesani, disperato di vederli ridotti in quello stato. Alla fine, stanchi delle sue prediche e dei suoi ammonimenti, gli uomini lo afferrarono e tra lazzi e risa sgangherate lo buttarono dentro un vecchio pozzo dicendogli che l'avrebbero tirato fuori di lì quando avesse recuperato la ragione.

Rimasto solo in fondo al pozzo, il mullah rifletté: "Qui dentro finirò per morire di fame e di sete. Chi me l'ha fatta fare a restare diverso dagli altri? Tanto vale che anch'io mi comporti come loro, forse mi tireranno fuori di qui". Vide che sul fondo del pozzo era rimasta un po' di quell'acqua e ne bevve. Subito impazzì anche lui e si mise a ridere, a fare capriole, smorfie e boccacce come tutti gli altri.

Quando videro questo, i compaesani si dissero: "Meno male, è tornato in sé", e tra lazzi e sghignazzate lo tirarono su e lo riportarono in trionfo alla moschea, dove lui riprese il suo posto. E tutti - non c'è bisogno di dirlo - vissero felici e contenti perché era venuto a mancare l'unico che potesse farli accorgere di quanto in realtà fossero alterati.

Questo apologo, a ben guardare, va oltre la scontata affermazione secondo cui in un paese di folli l'unica persona rimasta sana di mente passa per un pazzo. La sua morale è che bisogna adeguarsi alla pazzia per essere accettati dagli altri e conservare il proprio ruolo sociale. Più a fondo, il racconto sottintende che il mondo è una gabbia di matti dove le prediche di un mullah sono considerate folli quando è serio, serie quando è folle. La verità, ammesso che esista, se c'è non ha importanza ed è completamente inefficace nelle vicende umane. Meglio adeguarsi dunque, meglio seguire la corrente fino al punto di convincersi che quella sia la normalità.

Dal punto di vista cristiano, e anche da quello più generale del primato della coscienza ereditato dalla filosofia greca (il paragone con il mito della caverna di Platone è fin troppo ovvio) questa favoletta è la più completa e coerente apologia del relativismo nella quale mi sia stato dato di imbattermi. Richiamarsi alla verità non solo è folle, non solo è controproducente ma è soprattutto inutile, perché gli uomini non sono in grado né di vederla né di capirla. Qui l'apologo mostra in modo nemmeno troppo velato il suo disprezzo tanto verso la ragione quanto verso il cuore: la sua morale è il contrario esatto del martirio perché il martire (non a caso, etimologicamente, "il testimone") non solo affida completamente e irrevocabilmente il suo destino a Uno al di fuori di sé, indipendentemente dal consenso della comunità, ma con il suo gesto fa appello alla coscienza e alla ragione di chi rimane, nella speranza che qualcuno possa almeno rimanere colpito dal suo sacrificio e interrogarsi. Grazie alla resa del mullah gli uomini del villaggio restano invece prigionieri della loro "normalità", e proprio il momento della sua accettazione e del suo trionfo apparente è il momento in cui va definitivamente perso quel poco che restava di evidenza e di ragione.

Cosa c'entra tutto questo con la Chiesa? Temo che c'entri anche troppo. La Chiesa di Papa Francesco sembra trovarsi nella stessa condizione di quel povero mullah. Due o tre secoli di continue lotte contro il libertinismo, il laicismo illuminista, il marxismo e buon ultimo il relativismo hanno forse finito per sfibrarla e demoralizzarla nella misura in cui il suo sguardo è diventato più mondano. Vistasi del tutto ignorata e vilipesa, una buona fetta dei suoi membri, e non dei meno importanti, ha deciso di adeguarsi, di accontentarsi di un ruolo di "ospedale da campo", di denunciare quel che già denunciano tutti, di condannare quel che già condannano tutti, di accettare quel che già accettano tutti. Proprio il contrario di quanto aveva intuito il genio di T. S. Eliot: "La Chiesa è dura dove gli uomini la vorrebbero tenera, e tenera dove gli uomini la vorrebbero dura".

Non è un andazzo nato con questo pontificato, anche se proprio sotto Papa Francesco è stato favorito, amplificato, esasperato fino a diventare la norma. Un prete avido di denaro, un cardinale assetato di potere sono pessimi esempi di mondanizzazione, siamo d'accordo. Ma non lo sono forse altrettanto quei preti, quelle suore, quei laici che benedicono le unioni gay e peggio ancora gli uteri in affitto? Non è forse mondanizzazione pensare - in diretto contrasto col Vangelo - che l'uomo si salva o si danna secondo quel che mangia e beve, come pensano fin troppi cattolici vegani? Non è forse mondanizzazione l'indifferenza o peggio ancora il fastidio di troppi cattolici, ecclesiastici e laici, verso chi si richiama ai principi non negoziabili: vita, famiglia, libertà di educazione?

Il problema, a ben guardare, non riguarda coloro che sono fuori dalla Chiesa e che per giunta non vengono affatto richiamati ad aderire ai suoi insegnamenti ("per non turbare le coscienze", in nome del "dialogo"). Il problema si è inasprito all'interno stesso della Chiesa. Chi ha bevuto l'acqua intossicata del relativismo pensa di essere più libero, più felice, più "aperto" rispetto a chi è rimasto "rigido", "dogmatico", "fariseo" (tutti epiteti distribuiti con grande prodigalità da questa Chiesa tanto "misericordiosa"). Ma a differenza del mullah e del suo apologo, non a caso nato in una cultura che ha come valore assoluto la sottomissione, più d'uno nella Chiesa ha rifiutato di bere quell'acqua e continuerà a farlo, consapevole che la sua dignità e il suo destino non si basano sul successo o sul consenso del villaggio, matto o ragionevole che sia.

Giovanni Romano

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