Conosco abbastanza bene Barletta e ci sono stato molte volte. È una città dinamica, strozzata da un traffico caotico senza rimedio, disordinata ma pulsante di vita e di attività anche culturale. Di recente è stata promossa allo status di capoluogo assieme ad Andria e Trani (una provincia tricipite che in realtà non è mai riuscita a decollare), ma il crollo del laboratorio ha brutalmente rivelato una realtà da troppo tempo sottovalutata.
Fino a qualche anno fa, grossomodo fino agli inizi degli anni 2000, Barletta era una città industriale in piena espansione, con molte attività produttive tra cui spiccavano i calzaturifici e i mobilifici, che lavoravano in massima parte per l'esportazione. Molti di questi, a dire il vero, erano imprese improvvisate senza preparazione né vero e proprio spirito imprenditoriale, e specialmente dopo l'introduzione dell'Euro venne a mancare il cambio favorevole della moneta. Una spietata selezione “naturale” condusse a molte chiusure, le ditte più forti e meglio organizzate delocalizzarono in gran parte, e Barletta entrò in declino.
Questa tragedia colpisce tanto più amaramente perché ha rivelato che in questi anni si è tornati enormemente indietro. Dai capannoni agli scantinati. Dai calzaturifici ai tanto deprecati “mutandifici”. Dagli operai, per quanto pagati spesso in nero, al precariato più brutale, con salari degni del Terzo Mondo a danno soprattutto della manodopera femminile. Inutile gettare la croce addosso solo al proprietario e alla “sete del guadagno basso e feroce”. C'è stata una convergenza di fattori sia pubblici che privati: le banche che non concedono crediti, le istituzioni che non hanno vigilato, gli interventi di messa in sicurezza arrivati troppo tardi. La cosa peggiore è che non è nemmeno la prima volta. Molti anni fa, non ricordo se a Barletta o a Margherita di Savoia, crollò un palazzo anch'esso di tufo, costruito sconsideramente su molti piani. Da allora nulla sembra essere cambiato, ci sono solo false partenze in questo mio Sud che con il suo accettare le disgrazie si condanna ogni volta a essere ricacciato indietro.
Giovanni Romano
Fino a qualche anno fa, grossomodo fino agli inizi degli anni 2000, Barletta era una città industriale in piena espansione, con molte attività produttive tra cui spiccavano i calzaturifici e i mobilifici, che lavoravano in massima parte per l'esportazione. Molti di questi, a dire il vero, erano imprese improvvisate senza preparazione né vero e proprio spirito imprenditoriale, e specialmente dopo l'introduzione dell'Euro venne a mancare il cambio favorevole della moneta. Una spietata selezione “naturale” condusse a molte chiusure, le ditte più forti e meglio organizzate delocalizzarono in gran parte, e Barletta entrò in declino.
Questa tragedia colpisce tanto più amaramente perché ha rivelato che in questi anni si è tornati enormemente indietro. Dai capannoni agli scantinati. Dai calzaturifici ai tanto deprecati “mutandifici”. Dagli operai, per quanto pagati spesso in nero, al precariato più brutale, con salari degni del Terzo Mondo a danno soprattutto della manodopera femminile. Inutile gettare la croce addosso solo al proprietario e alla “sete del guadagno basso e feroce”. C'è stata una convergenza di fattori sia pubblici che privati: le banche che non concedono crediti, le istituzioni che non hanno vigilato, gli interventi di messa in sicurezza arrivati troppo tardi. La cosa peggiore è che non è nemmeno la prima volta. Molti anni fa, non ricordo se a Barletta o a Margherita di Savoia, crollò un palazzo anch'esso di tufo, costruito sconsideramente su molti piani. Da allora nulla sembra essere cambiato, ci sono solo false partenze in questo mio Sud che con il suo accettare le disgrazie si condanna ogni volta a essere ricacciato indietro.
Giovanni Romano
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