martedì 31 dicembre 2013

Schumacher, dove comincia la vera "pietas"



"Prima di chiamare felice qualcuno, aspetta l'ultimo giorno della sua vita". Così recitava un adagio degli antichi Greci, e mai come nel caso di Schumacher è sembrato tanto appropriato. Un uomo che dalla vita ha avuto praticamente tutto, un vincitore nato, un campione osannato da tutto il mondo, ricco, famoso e amico di molti potenti, in pochi istanti si è ritrovato a lottare per la vita col cranio frantumato, e anche se riuscisse a sopravvivere (cosa che gli auguriamo di cuore) non tornerà mai più a essere quello di prima e quasi certamente trascorrerà il resto dei suoi giorni con menomazioni gravissime.

I Greci forse avrebbero visto in questo incidente (che Schumacher avrebbe potuto benissimo evitare, va detto) una manifestazione dell'invidia degli dei che non permetto all'uomo di essere troppo felice, o lo puniscono per la sua hybris quando crede di bastare a se stesso.

Fin qui forse si sarebbe fermata la loro saggezza, e sarebbe diventata contemplazione rassegnata del male altrui. Ma nel caso di Schumacher sta accadendo qualcosa di diverso. Tutto il mondo gli si sta stringendo intorno, segue i bollettini medici, tantissimi stanno pregando per lui. Schumacher ci appartiene come ci appartengono i vincenti perché in loro vediamo il riscatto delle tante sconfitte, delle tante umiliazioni, delle tante mediocrità di cui è fatto il nostro anonimo quotidiano. Sarà stato anche un pilota “freddo” e “antipatico” (cosa che non ho mai personalmente avvertito) però era un combattente leale, un uomo di coraggio, un asso di prim'ordine, il cui valore si è imposto a tutti gli sportivi e anche a quelli che non s'intendevano di automobilismo. Era così famoso da essere diventato una parte della nostra vita, per questo sentiamo così acutamente lo shock della sua improvvisa disgrazia.

Ma la simpatia e la solidarietà verso Schumacher hanno anche un risvolto più profondo, intriso di pietas cristiana forse inconsapevole ma irreversibile. Ci sentiamo partecipi del suo destino in quanto esseri umani, ma la sua sorte non è solo il pretesto per un ammonimento di saggezza. Gli auguri di “vincere anche questa gara”, per quanto un po' ingenui, sono espressione sincera del desiderio che la vita umana sia fatta per un destino di felicità e non semplicemente il bersaglio di un fato invidioso.

Nell'ondata di simpatia e di solidarietà verso Schumacher si è avvertito il sussulto di un'umanità non ancora perduta, una solidarietà autenticamente umana simile a quella che è insorta contro la barbarie degli animalisti che hanno augurato la morte a Caterina Simonsen. Ma proprio qui comincia la vera pietas, di cui forse nessuno ha ancora parlato. La vera pietas sarà accogliere, curare, accudire uno Schumacher del tutto diverso dall'uomo forte e vincitore che era. Accoglierlo e volergli bene nella sua debolezza, nella sua impotenza, nella sua incapacità di rispondere ai familiari e agli amici. Accoglierlo nelle sue piccole vittorie contro il coma, se ci saranno (come ci auguriamo che ci siano), e anche se non ci saranno, per anni e anni. Guardarlo e rispettarlo come un essere umano fino all'ultimo giorno della sua vita, non come un “caso pietoso” da togliere di mezzo. Sarà questa una pietas ben diversa dalla commozione momentanea che si prova per pochi giorni, fino a quando la notizia è dimenticata. Solo così potremo dire di avere voluto veramente bene a Michael Schumacher, e di averlo aiutato a vincere la sua ultima corsa.

Giovanni Romano