venerdì 28 settembre 2007

Il Comandante Grull... ehm, Grillo



Lo so, lo so, è una bestemmia accostare il nome di Grillo a quello di Gabriele D'Annunzio. Ne convengo: è un peccato capitale contro l'arte e anche contro il semplice decoro. Tra i due non c'è partita. Eppure ci sono tratti soggettivi e oggettivi che li accomunano, e la rassomiglianza, a pensarci bene, è inquietante.

Il primo è la teatralità, la voglia di apparire a tutti i costi. Entrambi sono stati capaci di compiere dei veri e propri tours de force mediatici. Direi anzi che il più bravo è stato Grillo, perché sfruttando le potenzialità della Rete è riuscito a riemergere dall'oblio mediatico cui lo aveva condannato la RAI (anche perché aveva lasciato un segno troppo forte, con la sua famosa, sferzante battuta contro Craxi).

Il seondo è l'innegabile carisma. Nonostante le divise e le decorazioni con cui si paludava, Gabriele D'Annunzio non era un uomo fisicamente imponente, né aveva una voce metallica (molti anni fa ebbi la fortuna di parlare con uno degli ultimi che lo conobbero di persona, un vecchietto ormai ultranovantenne). Eppure riuscì a trascinarsi dietro centinaia di "legionari", occupare una città intera, tenere gli occhi di tutta l'Europa puntati su di sé. E Grillo? Vi sembra un uomo fisicamente prestante? La sua voce vi arriva al cuore per l'armonia dei suoi toni? Eppure anche lui sta riempiendo ancora più piazze di D'Annunzio, grazie alla telematica.

Il terzo elemento che hanno in comune sono le circostanze critiche che li hanno fatti emergere. Sia l'uno che l'altro sono diventati temporanei leaders in momenti di particolare tensione , in cui la classe politica si trova a essere totalmente delegittimata e il Paese è in condizioni di particolare debolezza. Entrambi si presentano con ricette facili e pronte all'uso.

Il populismo e il disprezzo per la democrazia parlamentare è la quarta, più sinistra caratteristica che li accomuna. Da questo punto di vista Grillo si è spinto ben più oltre di Bossi. Devo dire che, pur non essendo certo di sinistra, preferisco il peggior parlamento alla migliore dittatura. E non conosco tirannia peggiore di quella delle buone intenzioni.

Nessuno dei due ha la stoffa di essere davvero un leader. Ma come D'Annunzio spianò la strada a Mussolini, così temo che possa fare quel Grull... ehm, Grillo, nei confronti dell'opportunista di turno.



Giovanni Romano

mercoledì 26 settembre 2007

Un'imprevista, meravigliosa lezione di vita


Lunedì 24 settembre sono andato a Bari per rinnovare la mia patente d'invalido. Nel gruppo c’era una giovane donna sui trenta-trentacinque anni. Carina, ben curata, spigliata e vivace nei movimenti. Mentre aspettavamo, canticchiava tra sé e sé accompagnandosi col piede. Mi chiedevo che handicap avesse, perché sembrava perfettamente “normale”. Dal momento che l’attesa si prolungava, abbiamo fatto un po’ di conversazione, e le ho chiesto del suo handicap. “Sono focomelica”, mi ha risposto con semplicità, senza imbarazzo.

Solo allora, con un sussulto, ho notato la protesi rigida che aveva al posto del braccio sinistro. Col suo buonumore era riuscita a farlo completamente dimenticare. Da invalido, posso dire che buonumore e allegria non “vengono facili” a chi porta in permanenza una limitazione o una mutilazione nel suo corpo. Ci vogliono volontà, grinta, fiducia, e probabilmente tante lacrime piante di nascosto. Ma so anche che non basta voler essere fiduciosi e grintosi. Per essere così sereni, così positivi, bisogna essere stati accettati e amati da una famiglia che non ha avuto paura del “figlio imperfetto”.

Mi sono chiesto cosa sarebbe di questa donna se dovesse nascere ora. Quasi certamente verrebbe scartata, con l’aiuto di medici e di magistrati “pietosi” ai quali auguro vergogna eterna per le vite che aiutano a distruggere, e di cui non sanno nulla.

Giovanni Romano

sabato 22 settembre 2007

Modesta proposta contro il sovraffollamento carcerario



Ispirato dalle polemiche che imperversano in questi giorni sull'indulto e sul sovraffollamento delle carceri, mi è venuta un'idea.

Dal momento che il numero dei delinquenti aumenta in continuazione, e la costruzione di nuove carceri non potrà mai tenere il passo con la loro crescita esponenziale, suggerirei di mettere in libertà tutti i detenuti e di trasferire in carcere gli incensurati e le loro famiglie.

In questo modo cesserebbero sia le polemiche sull'indulto che quelle sul sovraffollamento. Ogni carcere, poi, si trasformerebbe automaticamente, e a costo zero, in una fortezza mirabilmente adatta a proteggere la vita e i beni dei pochi onesti ancora in circolazione.

Giovanni Romano

venerdì 21 settembre 2007

Rutelli e il DNA: sorvegliare e (non) punire


Da qualche giorno si parla della nuova legge sul prelievo obbligatorio del DNA ai pregiudicati, con la prospettiva futura di estenderlo a tutti. Come molti altri, anche Marina Corradi, su "Avvenire" del 13 settembre scorso, aveva espresso forti preoccupazioni per un controllo sempre più invadente, capillare e carico di potenziali minacce, per il potere che mette nelle mani dello stato e dei pochi privilegiati che potranno accedere a quel che di più intimo ci appartiene.

Dall'altra parte ci sono le parole rassicuranti di Rutelli, che la Corradi definisce ironicamente "voce assolutamente moderata e democratica", il quale assicura che con questo screening sarà molto più facile identificare e arrestare i criminali, citando a esempio il caso dell'Inghilterra, in cui, a quanto pare, "l'arresto dei colpevoli è quasi raddoppiato".

Tuttavia, a me sembra che l'esempio di Rutelli non stia in piedi per due ragioni. Nemmeno in Inghilterra una sorveglianza sempre più ossessiva riesce a venire a capo della vera propria necrosi sociale che si manifesta nello sfascio delle famiglie, nella solitudine alcoolica e nella violenza gratuita delle bande giovanili (per non parlare delle minacce terroristiche).

In secondo luogo, non serve a niente moltiplicare all'infinito gli screening, le telecamere, lo spionaggio, se poi il massimo della pena che si applica ai colpevoli, pur esattamente individuati, è solo qualche mese o al massimo qualche anno di carcere, con il solito abbondante contorno di indulti, sconti di pena, uscite anticipate, licenze premio e buona condotta.

Se le premesse restano queste, l'unico effetto pratico del provvedimento sarà analago a quello delle famose "gride" di manzoniana menoria: aumentare ingiustificatamente l'oppressione nei confronti dei cittadini "pacifici e senza difesa", senza disturbare la criminalità
più di tanto.

Secondo me il gioco non vale affatto la candela.

Giovanni Romano

mercoledì 19 settembre 2007

Latino si, latino no, latino forse...

Il motu proprio di Papa Benedetto XVI sulla liberalizzazione della Messa tridentina ha suscitato reazioni anche troppo vivaci all’interno del mondo cattolico. I “progressisti” hanno gridato allo scandalo, al leso Concilio, a un indebito cedimento ai lefevriani, al ritorno all’oscurantismo e alle chiusure controriformiste, spesso con accenti stizziti e scomposti. Dalla parte dei “tradizionalisti”, ovviamente si è esultato, anche qui altrettanto spesso e altrettanto scompostamente, con accenti di vera e propria rivalsa, quasi fosse una resa dei conti attesa da tanto tempo.

I media laici, da parte loro, hanno seguito con un certo interesse la vicenda, e alcuni hanno intorbidato le acque a bella posta, facendo credere che il motu proprio reintroducesse, nella Messa tridentina, anche la formula sui “perfidi giudei”, eliminata invece da Giovanni XXIII. In quest’opera di disonesta diffamazione anticattolica si è particolarmente distinta, come al solito, la stampa britannica.

Ma quali effetti, in concreto, produrrà il motu proprio? Posso dire che tutto sommato saranno contenuti. Nonostante il battage che circola su Internet, in molte chiese e diocesi penso che cambierà ben poco. E non per qualche tenebrosa cospirazione dei “cattoprogressisti”. Semplicemente perché alla grande maggioranza dei fedeli il rito postconciliare va bene così com’è. Nella mia parrocchia non è successo proprio niente, e probabilmente non accadrà niente anche in futuro. Questo non perché sia una parrocchia di “progressisti”, e nemmeno perché il parroco sia pregiudizialmente ostile alla Messa in latino. Semplicemente non ci sono richieste.

Vediamo di spiegare perché. Pur facendo parte di un movimento cattolico definito “tradizionalista” e “integralista”, non ho mai sentito come prioritaria la questione della messa in latino. Né tale questione si è posta all'interno del Movimento. Non è e non sarà il latino a riempire ipso facto le chiese finora deserte, quali che siano le illusioni dei tradizionalisti e i timori ventilati dai “progressisti” di una “messa identitaria” (come se avere un’identità cristiana fosse peccato!). Piccoli gruppi di fedeli potranno riempire una chiesa o due, ma delle altre che sarà?

Si dice che il latino, oltre a essere lingua “sacra” (su questo argomento ritornerò alla fine) è anche un potente veicolo di unione tra fedeli, che in qualunque parte del mondo sentono celebrare la stessa Messa nella stessa lingua. Può darsi, ma a me è capitato più di una volta di partecipare a messe in lingua straniera, e non mi sono mai, dico mai sentito spaesato o estraneo.

La prima volta fu a Oxford nel 1980. Ricordo ancora bene come i fedeli, vedendo una faccia nuova (in Inghilterra i cattolici sono minoranza, quindi più o meno si conoscono tutti) si mostrarono sinceramente premurosi e accoglienti. Il mio vicino di banco mi passò anche il messale perché potessi seguire la celebrazione.

A Lourdes, in pellegrinaggio, la Messa era in francese, ma nessuno del mio gruppo si sentì a disagio, come pure qualche giorno prima, a Madrid, avevamo assistito a una messa in spagnolo. Anche qui, ben poco imbarazzo, anzi molta contentezza.

A Roma poi mi trovai a partecipare a una messa in francese con un folto gruppo di pellegrini haitiani. Bellissima! Canti e danze, ma non le insulsaggini giustamente criticate da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro nel loro recente libro Io speriamo che resto cattolico. Era proprio una danza di gioia, di contentezza. E non contentezza di sé: contentezza che c’era Dio. Infine, in via Monserrato mi capitò di essere l’unico partecipante alla messa di un sacerdote spagnolo, che celebrava nella sua lingua. La seguii rispondendo in italiano, con tutta la partecipazione che potevo. Poco ci mancò che la servissi.

Quindi, secondo me il problema non è tanto la lingua, ma la serietà e il coinvolgimento con cui si celebra il rito.

Questa, però, è solo la prima parte del problema, c’è in gioco ben altro. E da questo punto di vista i sostenitori del latino potrebbero anche aver più di una ragione.

Sgombriamo preventivamente il campo da un equivoco. Gli avversari della Messa in latino sostengono l’argomento banale che in realtà questa Messa ce l’abbiamo già: il latino è la lingua ufficiale della Chiesa, così basterebbe celebrare in latino anche la Messa postconciliare. Ma loro per primi sanno che di ben altro si tratta.

Tanto per cominciare, quel che si “rimprovera” alla Messa postconciliare è aver dato eccessiva enfasi alla dimensione orizzontale della “comunità” (quasi fosse una congregazione bastante a se stessa), più che a quella trascendente del rapporto con Dio. Per avere termini di riferimento più precisi, da questo punto in poi vorrei prendere in esame l’instant book scritto da un noto liturgista, Don Manlio Sodi: Il messale di Pio V: perché la messa in latino nel III millennio?

A dire il vero, mi aspettavo un libro che aiutasse a spiegasse la scelta del Papa. Invece il tono è decisamente sfavorevole, se non ostile. Non siamo all’acredine di altri testi cui ho dato solo una scorsa, ma l’insofferenza si legge tra le righe. C’è poco da meravigliarsi, Don Sodi ha avuto una parte non di secondo piano nell’elaborazione dei messali e del rito che ha soppiantato la Messa di San Pio V. Tra le righe si può dunque leggere il disappunto dell’”addetto ai lavori” che si vede mettere in discussione il frutto di fatiche che pensava fosse ormai definitivamente messo agli atti.

E' interessante notare il suo argomento d’attacco: la vera “tradizione” non è quella tridentina, ma quella del Vaticano II, che ha ripreso molti antichi testi che il Concilio di Trento aveva "censurato". Inoltre il Vaticano II ha messo a disposizione dei fedeli una lettura molto più completa dei testi biblici. Non so cosa pensare della nota teoria delle "due mense" da lui citata, la Parola e l'Eucarestia. Non mi pare però che don Sodi dia eccessiva importanza o risalto a quest'ultima. Ma Cristo non è venuto a portare solo una Parola, ci ha dato Se stesso e il Suo Corpo (come già faceva notare Sant'Agostino contro i donatisti). Inoltre, in tutto il libro si parla molto della Messa come Eucaristia (il che è corretto) ma quasi per nulla della Messa come sacrificio, come se prevalesse una concezione "ottimistica" e assembleare della Messa, che mette in ombra la Croce.

Avrei anche una domanda maliziosa –e ingiusta, alla luce delle considerazioni che ho fatto poco fa- che girerei a Don Sodi: come mai dopo il Vaticano II la liturgia e i libri si sono riempiti, ma le Chiese si sono vuotate? A che vale compilare i libri più perfetti del mondo, se poi sono venuti a mancare i fedeli? Con questo non voglio dire che l'antico rito latino fosse un toccasana. Ma forse comunicava un senso del sacro che l'attuale rito esclude.

C'è un'altra questione a cui don Sodi non fa minimamente cenno, che invece è stata approfondita -e da tempo- da Lorenzo Bianchi (non confonderlo col più gettonato Enzo Bianchi) nel suo libro Liturgia: memoria o istruzioni per l'uso?. Il progressivo allontanamento di tante formule liturgiche dallo spirito cristiano. Dalla domanda a Dio alla presunzione del proprio fare. Questa è una critica che tocca direttamente le traduzioni della stessa Messa postconciliare. Il linguaggio esplicito e vigoroso del latino è stato tradotto in formule sempre più generiche, sfumate, vaghe, buone per tutti gli usi, che hanno relegato sempre più in secondo piano la Grazia, il peccato, la richiesta di perdono, per sostituirle con un volontarismo soddisfatto di sé.

Più fondata mi sembra la critica di Don Sodi secondo cui con i due lezionari si perde l'unitarietà del cammino spirituale della Chiesa. Secondo me, però, qui si equivoca gravemente. Il Papa si è limitato a permettere il rito tridentino -mai abrogato, del resto- ma non l'ha imposto e non vuole imporlo a nessuno.

Un appunto più fondato che si potrebbe fare alla reintroduzione del rito tridentino è il costo del Messale. Quello dei fedeli costa 35 € (!) e quello per la celebrazione ben 200. Niente male per una messa "di popolo" quale si vorrebbe che fosse! Anche per queste ragioni il libro di Sodi mi sembra in alcuni punti una tempesta in un bicchier d'acqua. Con queste premesse, un movimento di massa per il ritorno al latino proprio non lo vedo.

La materia del contendere, come afferma giustamente don Sodi, è il Concilio stesso. Si può intendere il Concilio come rottura totale con quello che è venuto prima, come se tanta storia della Chiesa, tante preghiere, tante sofferenze, tanti eroismi fossero soltanto spazzatura? Il Concilio è stata rottura, come fa comodo pensare a qualcuno, o va visto in continuità con quel che è accaduto prima? La battaglia di Ratzinger non è per recuperare i tradizionalisti, come insinua Sodi, ma per sottrarre la Chiesa a quelli che il Card. Biffi definiva “i cronolatri”, quelli che si piegano allo “spirito dei tempi” senza giudicarli alla luce del Vangelo, senza chiedersi se la “modernità” sia buona di per sé oppure se non vada ciecamente e presuntuosamente incontro alla propria distruzione.

Piuttosto, non sono d’accordo su chi eleva il latino allo status di una lingua “sacra”, quasi fosse il contraltare dell’arabo per il Corano. Se il latino si è storicamente affermato anche nella Chiesa, è stato per ragioni contingenti molto concrete, non per particolari misticismi. E’ vero che il latino si presta a esprimere concetti “forti” con efficace brevità, ma Gesù non parlò in quella lingua. Se mai parlava l’aramaico, lingua meno “nobile” del greco e del latino, lingua di soldati e di scambi commerciali, lingua di popolo. Ma quel che Lui disse lo espresse con tale densità, con tale sovrana potenza da poter essere tradotto in qualsiasi altra lingua senza perdere di efficacia, tanto da mutare definitivamente il mondo e la storia. Furono le parole a rendere sacra la lingua, non la lingua a rendere sacre le parole.

Qui siamo al punto. Quando pronunciò le Beatitudini, Gesù non volse le spalle alla gente. Anzi li guardò in faccia, uno per uno. Come guardava i ciechi, gli zoppi, i dubbiosi, gli infelici. Pur incarnando vertiginosamente un Mistero che a volte lasciava sgomenti (pensiamo alla tempesta sedata, a Pietro spaventato dalla pesca miracolosa, alla risurrezione di Lazzaro, alle apparizioni ai discepoli) era un uomo che si poteva incontrare, anzi l’Uomo-Dio, il più grande incontro che si potesse fare nella vita! Se pure è giusto tenere presente il senso del sacro, sarebbe meglio non imbalsamarlo in una eccessiva ieraticità.

In un certo senso, la Messa postconciliare è quella più "difficile" per il sacerdote e per i fedeli. C’è effettivamente il pericolo dell’autoreferenzialità, molto più che nella messa tridentina. Sta al sacerdote guardare i suoi parrocchiani cercando d’imitare lo sguardo di Cristo, e ai parrocchiani guardare a lui con la stessa umile disponibilità con cui i discepoli guardavano a Cristo. Un divino che passa attraverso l'umano. E’ proprio questo il primo avvenimento da chiedere ogni volta che si celebra una Messa.

Giovanni Romano

Ora legale: un sacrificio non necessario?

Da avversario convinto dell'ora legale (vedi il mio primo post) ho letto con vero piacere questa lettera che riporto di seguito, e che condivido in pieno.

Giovanni Romano

"Una riflessione sul risparmio energetico: l'ora legale è nata per guadagnare un'ora di luce e risparmiare energia elettrica. Ora però paradossalmente allunga il tempo della calura e del consumo dell'energia con i condizionatori. Non sarebbe meglio eliminarla? Vorrei conoscere il parere di lettori ed esperti".

Luciana Russo, "OGGI" 15 Agosto 2007

Avanti Cristo o Associazione Calcistica?



Nella scuola è tempo di test d'ingresso. Come da routine, ne ho somministrato uno ai ragazzi di una prima professionale sulle abilità linguistiche. Una batteria di domande consisteva nell'identificare il significato di alcune sigle: "UE", "TV", "ONU", e tra le altre anche "a.C.".

Questa volta, però, i risultati mi hanno colpito, perché negli anni precedenti mai si era verificata un'ignoranza tanto diffusa sul significato della sigla "a.C.". Come si vede dal grafico, solo il 40% degli alunni ha individuato esattamente il termine. Un altro 40% non ha dato alcuna risposta, e un non trascurabile 20% ha pensato che si trattasse... di un'associazione calcistica! Ben il 60% degli alunni, quindi, ignora qualunque riferimento cristiano al metodo di datazione.

Ne ho parlato con la mia collega di Religione, e lei mi ha fatto giustamente osservare che il problema è a monte. E' alle elementari e alle medie, dove ormai gl insegnanti non fanno più alcun riferimento a Cristo. E questo -aggiungo io- in una regione come la Puglia, dove ancora non siamo arrivati agli esempi drammatici di cristofobia di alcune regioni del Nord (crocifissi tolti dalle pareti e buttati nel cestino, divieto del presepe, proibizione del segno della Croce...).

Non c'è che dire, la secolarizzazione sta funzionando a meraviglia. In parte è un processo consapevolmente fomentato, ma in parte va avanti per inerzia. Ed è quest'inerzia la nemica più pericolosa, più di un'opposizione attiva che se non altro richiama l'attenzione sulla posta in gioco.

Nessuna meraviglia che già negli USA un gruppo di "studiosi" propone di eliminare la datazione avanti e dopo Cristo, perché "discriminerebbe" le altre religioni. Se siamo noi i primi a dimenticare chi è Cristo, perché la storia dovrebbe far riferimento a Lui?

Giovanni Romano

domenica 16 settembre 2007

Come banalizzare una parabola



Non mi è piaciuta l'omelia che ho ascoltato oggi sulla parabola del Figliol Prodigo. Troppi sacerdoti, e da molto tempo ormai, vedono nel pentimento del figlio un puro calcolo. Il figlio, in altre parole, non torna a casa perché pentito del male fatto, ma semplicemente perché ha la pancia vuota. Questo, però, secondo me impoverisce gravemente la parabola e l'insegnamento di Gesù.

Non è stato per solo interesse che il figliol prodigo è tornato. Il Vangelo dice esplicitamente che "rientrò in se stesso" (Lc 15,17). Rientrare in se stessi è più profondo che fare semplicemente i conti con la propria fame. Tornare dal Padre e riconoscere che si è peccato contro il Cielo e contro di lui non rientra in una semplice, meschina strategia di sopravvivenza materiale. Del resto, il figlio cosa poteva fare? Rivendicare sic et simpliciter il suo posto, come se niente fosse successo? Avendo chiesto la sua parte di eredità, era come se avesse considerato già morto il padre, si era radicalmente separato da lui. Ritornare figlio non era in suo potere. Alla sicurezza arrogante della partenza fa riscontro l'avvilimento del ritorno a mani vuote, ma anche l'umiltà del riconoscimento di aver sbagliato.

Che poi la parabola ruoti anche (ma non esclusivamente, come va di moda dire ora) sulla misericordia del padre, questo è fuori dubbio. Il sacerdote ha giustamente sottolineato che la risposta del Padre è sovrabbondante, uno "spreco" di amore per un figlio che non si aspettava altro che di essere punito col trattamento degradante dei servi. Noi siamo calcolatori -è stato questo il ragionamento- e lo siamo anche quando pensiamo di pentirci. Ma è il Padre a soprenderci con la Sua misericordia, ed è allora che incomincia il nostro vero pentimento, è allora che ci si spezza veramente il cuore.

Una spiegazione psicologicamente interessante, lo ammetto. Il guaio è, appunto, che rischia di essere soltanto psicologica. E' verissimo che la misericordia di Dio ci scruta e ci conosce come noi mai potremo fare, ma è altrettanto vero che essa non può operare se il pentimento non parte da noi. Il Padre attendeva il figlio e gli corse incontro, ma non lo seguì sulla strada che questi aveva deciso di prendere. Fu il figlio a riconoscere di essere venuto meno a un ordine oggettivo, non semplicemente di aver finito i soldi.

E poi, insistendo tanto sul "calcolo" del figlio, si perde un importante spunto di riflessione. I piaceri di questo mondo comportano solo spese, fatiche e preoccupazioni, e la loro ricompensa è il niente. Un tema di predicazione che prima s'incontrava molto spesso e che oggi invece è stato totalmente dimenticato. Allo stesso modo, insistere tanto sulla dimensione più utilitarista della parabola ha fatto passare in secondo piano l'importanza del pentimento e del riconoscimento vero delle proprie colpe.

Giovanni Romano

domenica 2 settembre 2007

Il mio augurio ai giovani di Loreto


Carissimi,

in questi due giorni siete veramente tanti, almeno 500.000. Per una volta, un avvenimento cristiano ha “bucato” il video della TV di stato, sempre più impermeabile ai cristiani in generale e ai cattolici in particolare. Avrete certamente ascoltato le potenti esortazioni del Papa, in una comprensibile atmosfera di esaltazione e di entusiasmo.

Sarebbe sciocco e banale se cercassi di “mettervi in guardia contro un entusiasmo passeggero”. No, momenti come questi sono più che necessari! Il grande C.S. Lewis diceva che gli faceva paura la mancanza di “fertile e generosa emozione” nell’istruzione dei giovani inglesi. Eravamo ancora negli anni ’50 (Cfr. L’abolizione dell’uomo). Quindi, vivete pure quest’entusiasmo fino in fondo, perché momenti come questi formano il carattere molto più di quel che si crede. Ad esempio, i giovani –e non soltanto loro- che parteciparono alla veglia nell’agonia di Papa Giovanni Paolo II non dimenticheranno mai quest’esperienza, qualunque cosa gli potrà succedere.

Vi auguro però il coraggio più difficile, il coraggio della tenacia e della fermezza quando tra qualche anno sarete soli, coi vostri limiti, con il tempo che passa, con l'ambiente intorno a voi. Vi auguro il coraggio di stare da cristiani, non da bonaccioni accomodanti, sul posto di lavoro, in mezzo all’incredulità sprezzante di tanti colleghi (e quanto più il vostro lavoro sarà importante e prestigioso, tanto più ve ne accorgerete).

Quando sarete tornati ognuno a casa vostra, vi auguro il coraggio di sbugiardare il bombardamento mediatico a base di Codice da Vinci e di “casi pietosi” che portano all’eutanasia. Sbugiardate le accuse di evasione fiscale e di pedofilia alla Chiesa. Vi auguro di non tacere davanti alla distruzione della famiglia, alle forme deviate di sessualità che si vuole spacciare per “normali”. Quanti di voi, se avessero un negozio, avranno il coraggio di abbassare le saracinesche o chiudere le imposte quando passa il gay pride? Quanti di voi, quando insegneranno nella scuola, troverebbero il coraggio di prendere apertamente posizione contro la “Settimana del Preservativo”? Quanti di voi spegneranno la TV davanti alla famiglia quando vedranno la propaganda che il TG1 ha fatto alle convivenze, come più generose e meno sessiste rispetto al matrimonio? Quanti di voi si rifiuteranno di lasciarsi irretire dalle utopie "libertarie" dei politici, anche quelli che si definiscono "cattolici adulti"?

Questo non potrà avvenire se Cristo sarà stato soltanto un happening, un bel momento da vivere tutti insieme. La può esaltare, ma la forza cristiana viene da un rapporto personale, da una fede sempre approfondita, da un’appartenenza sempre più concreta.

Non vorrei avervi dato l’impressione di aver suggerito solo dei gesti polemici, “contro” qualcosa. Ricordiamoci che noi cristiani siamo per il mondo. Ma non per accodarci ai suoi criteri, bensì perché la realtà diventi abitabile, umana, ricca di speranza anche nel dolore, non quel deserto di desolazione, di abbandono e di capriccio individualistico che ora è diventata, grazie al laicismo e alla secolarizzazione.

Però, ragazzi, siete stati grandi! Per una volta, avete reso presente l’esistenza di un popolo cristiano normalmente ignorato o disprezzato da intellettuali e giornalisti à la page. Vi auguro di diventare fermento cristiano nel quotidiano, di cambiare la mentalità dal basso, come una vegetazione che s’infiltra nelle crepe del cemento e alla fine lo spacca, fa nascere nuova vita dove prima sembrava che ci fosse soltanto sterilità e polvere.

Giovanni Romano