sabato 4 maggio 2013

Biagio Marin e Prezzolini: il fraintendimento della fede.

In questo periodo la mia presenza sul blog è fatta sempre più scarsa, sia per la  mia connaturata pigrizia sia per motivi di studio. Ho ritrovato tra i miei documenti una lettera (non pubblicata) che inviai ad Avvenire il 2 settembre del 2011 (!) su uno scambio di lettere tra Biagio Marin e Prezzolini. Il tema però mi sembra non avere perso nulla della sua attualità, per questo lo ripropongo qui.

Caro Direttore,

lo so, ci sono ben altri argomenti di cui trattare, e riprendere dopo quasi due mesi l'articolo “Prezzolini e Marin, lettere dell'amicizia” (15 luglio scorso) può sembrare un'oziosa perdita di tempo. Ma gli argomenti – l'interpretazione del Concilio, la fede, la modernità e la Chiesa cattolica – sono di quelli che non passano, e dà tristezza vedere con quanta superficialità non scevra di superbia Biagio Marin abbia “liquidato” la Chiesa e la cultura che nasce dalla fede, con accuse che Marco Roncalli ha definito giustamente “assurde”. Non si tratta però di una semplice questione di temperamento. Le radici del suo pensiero e gli esiti cui ha condotto si sono dimostrati disastrosi per il cristianesimo e per l'uomo come tale.

Ho conosciuto per mia sfortuna uno di quei preti “più liberali dei laici” auspicati da Marin. Tutti lo stimavano e ammiravano il suo “anticonformismo” che in pratica consisteva nello scagliarsi spesso contro le gerarchie ecclesiastiche e il Magistero, senza mai criticare gli esiti più aberranti e disumani del laicismo secolarista. La gente concentrava la sua ammirazione su di lui, ma il sacerdote non faceva quasi nulla per richiamarli a Cristo. Uomo di singolare aridità spirituale (la sua cristologia era praticamente inesistente,e su questo ritornerò), della sua parrocchia aveva fatto un deserto, e i pochi rimasti si sentivano autorizzati a disprezzare i fedeli di tutte le altre parrocchie perché loro soli si sentivano “veri” cristiani, loro soli avevano il “coraggio” di contestare la gerarchia, loro soli erano gli “adulti” che “avevano capito che cosa fosse “il vero cristianesimo” che non aveva bisogno di statue, processioni, rosari e forse anche preghiere tout court (a me fu sconsigliato di dire l'Angelus tre volte al giorno, del rosario si rideva apertamente). Si insisteva molto sulla Bibbia, ma solo per trovare conferme a quello che già si pensava. Senza accorgercene stavamo diventando una congregazione protestante. Si era dimenticata la disarmante riflessione di C.S. Lewis nelle “Lettere di Berlicche”: “Non far mai venire in mente al tuo paziente che se Dio ha avuto misericordia di lui, ne ha avuta altrettanta per il droghiere un po' viscido che gli siede accanto nel banco”. Fortunatamente alcuni incontri con quelli che Marin avrebbe bollato come dei cattolici “libidinosi di potenza” mi fecero riscoprire la bellezza del cattolicesimo e la ragionevolezza della fede cristiana. La mia vita prese una strada meno segnata dal lamento e dalle recriminazioni.

È fin troppo facile liquidare la teologia come “un farnetico da pazzi” dimenticando che essa esprime potentemente la tensione dell'uomo verso l'infinito. Solo Goethe si poté permettere di lasciar cadere la teologia per far intraprendere a Faust la sua grandiosa avventura, ma alla teologia dovette ritornare con la preghiera finale del Doctor Marianus. La strada più comoda, quella che prese Marin - e più di recente Ermanno Olmi con “Centochiodi” - fu invece quella di sbarazzarsi delle domande per non sentirsene interpellati.

Particolarmente allarmante e al tempo stesso rivelatrice è la rivolta contro la cristologia, cioè contro l'umanità di un Dio che ha accettato - e redento – la carne in tutta la sua concretezza, in tutta la sua fatica, in tutto il peso del suo limite. È più comodo un Dio ridotto a Parola, il dio del Libro al quale si può far dire tutto quel che ci piace sentirci dire. È facile leggere Meister Eckhart – il sermone “Sulla povertà” l'ho letto anch'io –, inebriarsi con gli straordinari voli della sua altissima intelligenza speculativa, e alla fine sentirsi autorizzati a essere “liberi da Dio”. Un cristianesimo “dalle nuvole in su” che fa molto comodo a chi detiene il potere su questa terra.

L'accusa non solo più assurda ma anche più ingiusta che Marin poteva muovere alla Chiesa è di concedere valore a una persona quasi a proprio arbitrio. La Chiesa non attribuisce, ma riconosce il valore infinito di ogni persona, e per essa – come per il suo Signore – davvero “Nessuno (…) è abbastanza idiota, che essa non lo possa consacrare 'sacerdos'”. Marin lo scrive con sarcasmo, ma se la Chiesa discriminasse come lui e si rivolgesse solo agli “intelligenti” o agli immancabili “onesti” non avrebbe mai ordinato un santo come il Curato d'Ars, e Cristo si sarebbe scelto altri discepoli.

C'è soltanto da rabbrividire nel constatare quanto si sia fatta strada la mentalità di cui Marin era antesignano forse inconsapevole, e a quali esiti stia conducendo. È il mondo, non la Chiesa, ad essersi arrogato “empiamente” il diritto di stabilire chi è abbastanza intelligente, bello, prestante per nascere o per essere tenuto in vita. A questa deriva non può essere argine sufficiente un generico “senso religioso” o un'ammirazione intellettuale per i Vangeli. Può esserlo solo la concretezza di un Fatto che vive nei Sacramenti (e qui l'accusa di “sacramentalismo magico” sfiora la blasfemia). Se è sbagliato idolatrare l'istituzione e dimenticare lo Spirito, altrettanto grave è denigrare sistematicamente la forma storica e dunque reale che Cristo stesso ha stabilito per la trasmissione del suo messaggio. Anche perché spesso e volentieri si scambia per voce dello Spirito quello che passa per la testa a noi...

Un'ultima osservazione a proposito di Prezzolini. Alcuni dei suoi giudizi sulla “protestantizzazione della Chiesa” sono particolarmente acuti, e seppe vedere la deriva dove Marin e tanti altri vedevano solo progresso. Ma anche lui partiva da presupposti laici di pura efficacia storica che non gli facevano cogliere in pieno la portata del fatto cristiano. Non si può essere semplicemente “cattolici alla vecchia maniera”. Qualsiasi aggettivo, qualsiasi specificazione accanto alla parola “cattolico” è altamente pericolosa perché ne mutila l'universalità e l'asservisce a un'idea di parte. La riscoperta del sacro, in sé indispensabile, passa dallo stupore di un incontro inaspettato, da una vita che cambia imprevedibilmente, da una circostanza in cui si vede all'opera una forza che non è nostra. Le forme sono destinate a isterilirsi in due casi: o quando si perde di vista l'essenziale o quando si resta abbarbicati alla lettera dimenticando la fantasia creatrice di Dio. Peccato che questo sia sfuggito a due uomini di valore come Marin e Prezzolini.

Cordiali saluti,

Giovanni Romano