venerdì 27 ottobre 2017

Insetti? No, grazie!



Com’è noto, a partire dal 2018 grazie alla UE i cittadini potranno ritrovarsi gli insetti nel piatto. Almeno così molti giornali hanno presentato la notizia, precisando che il 54% degli italiani è contrario (una percentuale fin troppo esigua rispetto alla realtà, a mio parere).

Perché questo moto spontaneo di ripulsa, di avversione? Prima di tutto perché il cibo è una cultura, e gli insetti, da sempre, sono assolutamente estranei alla tradizione alimentare occidentale. L’Europa si è evoluta – questo lo percepiamo più o meno confusamente – appunto perché non ha continuato a mangiare insetti, preferendo i vegetali (il che ha richiesto la laboriosità e l’organizzazione delle civiltà agricole) oppure le proteine nobili della carne (il che ha richiesto la pazienza dell’allevamento o il coraggio e l’astuzia della caccia). In secondo luogo, la grande maggioranza degli esseri umani avverte quanto meno un’estraneità nei confronti degli insetti, quando non una vera e propria fobia. Figuriamoci mangiarli!

Si obietterà che introdurre gli insetti nell’alimentazione è un arricchimento della dieta, una fonte inesauribile di proteine a basso costo, una “contaminazione” (per usare un termine tanto improprio quanto sgradevole), una fermentazione di culture diverse, un risultato inevitabile della globalizzazione e delle migrazioni, e via banalizzando. A molti invece viene il sospetto che dietro tanta pubblicità ci sia un tentativo di imporre questo tipo di alimentazione, più o meno come si cerca di imporre una dieta vegetariana o peggio ancora vegana nelle scuole e sui media a scapito della carne, dei formaggi e dei salumi.

Si può discutere se queste illazioni siano fondate o meno, ma quello che importa è capire le ragioni per cui tali sospetti vengono avanzati. Viviamo un momento in cui l’eccesso di informazioni – o meglio di voci incontrollate – induce a dubitare di tutto, molto spesso anche immotivatamente. I social networks finiscono per tribalizzare gli utenti intorno a quel che già pensano di sapere e a quel che vogliono sentire, illudendosi così di riprendere un minimo di controllo sulla propria vita, mentre le decisioni che ci riguardano direttamente – dalla pensione ai risparmi, dalla salute all’alimentazione, dalle elezioni ai programmi scolastici dei nostri figli – sono sempre prese altrove, da organi remoti che non si ha alcun potere di influenzare, e che per giunta pretendono di decidere “per il nostro bene”.

È questo atteggiamento pedagogico del potere, forse, a dare più fastidio. Si scava un fossato sempre più profondo tra un discorso pubblico autoreferenziale e la cittadinanza che si vede trattata con implicita diffidenza e distacco. Da qui, ad esempio, la rivolta irrazionale e autolesionista contro l’obbligo dei vaccini, motivata almeno nella maggior parte dei casi più da risentimento contro un governo che non rende conto delle proprie azioni che da obiezioni sanitarie vere e proprie. Da qui anche la diffidenza con cui è stata accolta la liberalizzazione degli insetti come alimento, quasi fosse un atto di consapevole disprezzo delle nostre tradizioni alimentari.

Non sappiamo come finirà questa vicenda. Forse prima o poi, grazie all’effetto “finestra di Overton” che ha già fatto tristemente prova di sé per quanto riguarda il gender, quel che sembrava aberrante e insensato all’inizio finirà per essere accettato come fatto compiuto. Ma se questa diventasse mentalità comune, o peggio ancora ci venisse imposta, avremmo perso irreparabilmente un patrimonio culturale fatto di secoli di ricette, di ingegnoso sfruttamento delle risorse locali, di sapienza tramandata da una generazione all’altra. Proprio quel che la globalizzazione rifiuta e distrugge: fanno molto più comodo individui isolati ai quali, se mangiano di tutto, si può dare a bere di tutto.

Giovanni Romano

lunedì 9 ottobre 2017

Tristi perché arretrati, o arretrati perché tristi?

Qualche giorno fa ebbi una violenta disputa su Facebook a proposito dell’”Accabadora”, una donna che nella Sardegna del Nord-Est era incaricata di praticare la soppressione dei malati terminali, e le cui ultime imprese sono arrivate fino alla prima metà del secolo scorso. La discussione è iniziata da questo articolo, ed è rimarchevole come in esso manchi assolutamente la benché minima critica verso un costume che definire barbaro è poco. Al contrario, il tono è elogiativo, parla di “pietà” quasi fosse un grande merito sfondare la testa di un morente a colpi di mazza o soffocarlo con un cuscino. In ogni caso, ci rassicura l’articolista, l’esistenza dell’accabadora “(…) è sempre stata ritenuta un fatto naturale, come esisteva la levatrice che aiutava a nascere, esisteva s’abbacadora che aiutava a morire. Si dice addirittura che spesso era la stessa persona [il neretto è mio, N.d.R.] e che il suo compito si distinguesse dal colore dell’abito (nero se portava la morte, bianco o chiaro se doveva far nascere una vita).

A parte tutte le considerazioni che si potrebbero fare sul matriarcato e sui suoi effetti negativi, l’articolo presenta alcune vistose contraddizioni che possono sfuggire solo ai più superficiali. Tanto per cominciare, ci viene detto che l’”accabadura” era “Un atto pietoso nei confronti del moribondo ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti: nei piccoli paesi lontani da un medico molti giorni di cavallo, serviva a evitare lunghe e atroci sofferenze al malato”.

Dal che si evince chiaramente che anche la morte faceva distinzioni di classe, e che l’uccisione era la fine riservata ai poveri molto più che ai ricchi. Che poi questa pratica fosse colpa anche della grettezza spietata dei latifondisti che mantenevano la popolazione nella miseria, questo è indubbio. Si accenna anche a uno dei problemi più seri della Sardegna in generale e della Barbagia in particolare: la mancanza di buone vie di comunicazione, che ne hanno frenato fino ad oggi lo sviluppo sia economico che civile.

Questa però può essere al massimo una spiegazione, non una giustificazione. Tanto quanto la ricchezza, anche la povertà può generare – anzi genera quasi sempre – un egoismo ancor più gretto e feroce. È proprio vero che si sopprimevano i malati solo per pietà, oppure anche per impadronirsi di pochi bocconi di pane in più? E se il medico non veniva nemmeno chiamato, come si poteva affermare con tanta sicurezza che la malattia fosse terminale? Praticare l’”accabadura” non era forse un modo, diciamo così, di “aiutare il destino” togliendo di mezzo i più deboli, le vite diventate ormai inutili a beneficio delle tasche dei più forti? È significativo che, come scrive esplicitamente l’articolo, “sa femmina accabadora” veniva sempre chiamata dai parenti, non dal malato. Ed è per lo meno strano che mai nell’articolo si accenna al desiderio di chiamare un prete.

Secondo: “s’accabadora” veniva sempre di notte, vestita di nero da capo a piedi, faceva uscire i parenti dalla casa e soffocava il morente col cuscino oppure gli sfondava il cranio con “su mazzolu”. Poi se ne andava silenziosa come era venuta, mentre i parenti la ringraziavano offrendole prodotti della terra (eh, certo, la morte su commissione ha il suo prezzo!). Se un comportamento del genere fosse stato così naturale e culturalmente accettato, perché venire di notte? Perché vestirsi di nero? Perché coprirsi il volto e tutta la figura? In questo, “s’accabadora” era esattamente identica al boia che eseguiva le sentenze mascherandosi con il cappuccio: pur essendo un funzionario statale regolarmente inquadrato e pagato, pur avendo dalla sua la legge e l’opinione pubblica che lo giustificavano, il suo lavoro era così disumano in sé da suscitare disagio e orrore in chi lo avesse incontrato di persona.

Portiamo ora il discorso su un altro livello. Cosa possiamo dire di una cultura che accetta così tranquillamente non tanto la morte quanto la soppressione della vita? Una pratica del genere può essere giustificata soltanto dalla miseria oppure c’è un elemento di crudeltà, di fatalismo pagano che a sua volta è diventato il fattore paralizzante che ha contribuito a ibernare quella parte della Sardegna in una perpetua miseria? Altre regioni d’Italia, come il Molise, la Basilicata e il Veneto hanno conosciuto una miseria altrettanto feroce, un abbandono altrettanto totale, ma in nessuna di esse, per quanto ne sappia, si ricorreva all’eliminazione dei morenti come fosse un fatto “naturale” (non c’è niente di naturale in un colpo che ti sfonda la testa, per giunta con “Su mazzolu” fabbricato appositamente allo scopo).

Una cultura diventa umana nella misura in cui si prende cura della vita, non nella misura in cui la sopprime. Sono proprio le culture non fataliste, non ripiegate sulla circolarità maligna del tempo, quelle dove ogni vita ha la sua importanza, a possedere la tensione a non accontentarsi, a migliorare, a non lasciare nessuno indietro. Se l’arretratezza è causa di malinconia, anche una malinconia divorante può essere causa di arretratezza. È una sinistra ironia che nella foto dell’”accabadora” sia presente il Crocifisso, il che dimostra quanto il cristianesimo sia rimasto alla superficie di una cultura forse ferma interiormente all’epoca dei nuraghi. Non c’è bisogno di essere cristiani, tuttavia, per trovare barbara e inumana questa pratica. Non ho letto I quaderni dal carcere, ma sono assolutamente certo che un sardo della statura di Antonio Gramsci avrebbe condannato col massimo rigore questo costume che ora, in piena malafede, si torna a giustificare in nome di una ipocrita “pietà”.

Giovanni Romano