giovedì 28 maggio 2009

Uomini che odiano le donne... o uomini cui non è più permesso amarle?

Ieri "Avvenire" recensiva il film svedese di Nils Ander Oplev "Uomini che odiano le donne" tratto dal best seller del defunto Stieg Larsson "Millennium". E' un film che tratta, in modo anche troppo crudo, uno dei problemi più gravi e al tempo stesso nascosti in quella società apparentemente tanto ordinata, tollerante e pacifica: gli stupri. La conclusione "politicamente corretta" dell'autore (e purtroppo anche del recensore) è che questo si deve imputare alla "mentalità patriarcale" che ancora non si è spenta, nonostante tutte le riforme.

Non credo di poter condividere questa tesi. Secondo me gli stupri avvengono precisamente
perché la mentalità patriarcale è stata definitivamente sradicata, e con essa la figura del padre, dell'uomo responsabile. Aver dato tanto spazio all'omosessualità (con l'incapacità sia di accettare il padre sia di diventarlo a propria volta), aver considerato i maschi come anonimi "donatori" di sperma e nient'altro, o addirittura superflui per la riproduzione, ha avvelenato sentimenti ed energie che in altre epoche s'incanalavano in modo diverso e ben altrimenti costruttivo.

Giovanni Romano

Risposta aperta a Ragioneimmaginazione

Caro Giulio,

ho risposto sul mio sito alla tua osservazione riguardante l’accanimento terapeutico, qui invece rispondo per esteso al tuo post, nel quale - come ti avevo preannunciato - ho trovato ambiguità e punti non condivisibili. Avrei voluto pubblicarla direttamente sotto il tuo articolo, ma il blog non me l'ha concesso. Forse la risposta era troppo lunga. Chi volesse leggere il tuo post può cliccare qui.

E’ indiscutibile che gli uomini cerchino di vivere e soprattutto di stare bene il più a lungo possibile. Ortega y Gasset diceva che all’uomo non basta “essere” come “è” una pietra, una pianta o un animale, ma vuole il ben-essere (in tutta la densità del termine), e questo ovviamente esige la dimensione del significato.

Credo però che i casi di pazienti che “vivono attaccati alle macchine” siano tutto sommato rari (Eluana, ad esempio, non viveva attaccata a nessuna macchina, tutte le sue funzioni fisiologiche erano normali) e molto amplificati dalla propaganda dei mass media che cercano ormai apertamente di inculcare una mentalità eutanasica.

Dalle tue stesse parole, poi, emerge che il problema della sofferenza non riguarda tanto i degenti (che vogliono vivere, e vogliono qualcuno che gli stia accanto fino all’ultimo) quanto coloro che gli sono intorno, e che spesso non reggono al peso della sofferenza e soprattutto alla mancanza di speranza. Ed è proprio il termine “speranza” che va chiarito.

Dire: “Tutti gli esseri che nascono sono destinati alla morte” non è altro che un brutale truismo, e se ci fermassimo a una constatazione così ovvia e sconsolata, di fronte a un orizzonte così chiuso, dovremmo ammettere che la nostra civiltà è arrivata al capolinea. La nostra “hybris” ci ricade addosso, perché abbiamo caricato la scienza di aspettative che non può soddisfare e di una onnipotenza che non ha. Da questo punto di vista, può darsi che sia più umano e felice l’uomo cristiano, per cui la morte non è la fine di tutto, e la vita un tempo di prova in vista di una vita più grande.

Puoi certamente dire che questa è un’illusione, che il cristianesimo è una superstizione ormai superata dalla scienza, ma resta il fatto che il modo in cui guardiamo all’altro mondo determina il modo in cui viviamo in questo mondo. L’antichità pagana abbandonava gli anziani, i malati, i bambini malformati, tanto che i cristiani cominciarono a distinguersi dai pagani altri proprio perché non abbandonavano i bambini e avevano cura dei più deboli. L’ospedale è invenzione dei “secoli bui” (mai un’epoca, come l’Illuminismo, ha tanto spudoratamente calunniato un’altra).

Questo non significa - bada bene! - che la “speranza” si identifichi con la “vita a ogni costo”, bensì con la convinzione che nessun momento della vita è senza importanza, nessuna condizione è sprecata o inutile. Prima, ci si radunava tutti intorno al letto di un moribondo per ascoltare le sue ultime parole, anche nel dolore era possibile imparare e comunicare qualcosa, la morte non era semplicemente uno scandalo o una sofferenza fine a se stessa.

L’atteggiamento di Mario in ospedale ricorda invece quello di Bernard Marx in “Brave New World” (un libro da leggere assolutamente per capire il periodo che stiamo vivendo): la sua educazione scientifica, la sua vita al riparo da ogni sofferenza gli ispiravano non la pietà ma il ribrezzo di fronte a quelli che vedeva soffrire.

Chi ragiona ormai solo in termini di potere e di utilità può arrivare al sofisma di dire che ci si “accanisce contro persone inermi”. E’ possibile arrivare a mentire così tanto? Lo ripeto: sull’accanimento terapeutico la Chiesa parla chiaro, vedi art. 2278 del Catechismo:

L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'“accanimento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente.

Altre interpretazioni sono uno stravolgimento malizioso, anzi demoniaco, perché si esalta come un eroe chi vuole la morte e si accusa di crudeltà chi vuole curare e assistere.

Mi ha fatto pertanto molto dispiacere accorgermi che le ultime parole del tuo scritto suonano come una vera apologia dell’abbandono terapeutico.

Giovanni Romano

lunedì 18 maggio 2009

Notre Dame University - Il giorno della vergogna

Il circo mediatico che accompagna sempre Obama ha cercato di trasformare la laurea honoris causa in un suo successo, ma non ha potuto ignorare le contestazioni anche forti che il presidente ha ricevuto. Cosa è successo, in realtà? Che Obama ha potuto tirare fuori tutta la sua retorica buonista senza concedere nulla alle ragioni dell'altra parte. Mai una volta, nel suo discorso, ha usato l'espressione "difesa della vita". Ha parlato di "gravidanze indesiderate", senza accennare che i bambini sono esseri umani e che, chissà, potrebbero anche essere un dono. Ha detto che tutti dovrebbero collaborare per ridurre il numero degli aborti, ma questo era stato detto pari pari per giustificare l'introduzione della legge 194 in Italia oltre quarant'anni fa. E ci siamo ritrovati con milioni di nati in meno.

Quando Obama ha parlato mi è sembrato di rivivere il bellissimo racconto di Vladimir Solov'ev sull'Anticristo. L'Anticristo si presenta come il campione della tolleranza, della pace, della fraternità, dell'amore universale. Ma non sopporta il nome di Cristo, la sua signoria sugli uomini e sulla storia lo fa impazzire di rabbia. Lui solo, l'Anticristo, vuole essere adorato. Lui solo è buono, anzi buono più di Cristo perché dà ragione a tutti, non gl'interessa la "discriminazione" tra buoni e cattivi, tra quelli che difendono la vita e quelli che la distruggono, tra quelli che riconoscono la verità e quelli che la manipolano.

Una vittoria di Obama? A livello mediatico forse, ma anche il giorno della vergogna per la Notre Dame University, che si è contrapposta sempre più ostinatamente al Magistero della Chiesa in nome di una presunta "libertà accademica". Una "libertà" che si riduce a dire ai mass media che gli piace sentirsi dire, scandalizzando e demoralizzando i semplici fedeli. E qui "semplici" non significa "ignoranti", ma gente che non si fa ingannare dai luoghi comuni né dalla retorica. E' stata proprio una "traison des clercs", nel senso letterale della frase, e una spaccatura molto grave tra i fedeli e il magistero da una parte, gli intellettuali "cattolici" (sic!) dall'altra.

Lo schiaffo, ovviamente, non è stato tirato solo alla gerarchia cattolica americana, ma molto più in alto, al Papa stesso. E probabilmente servirà d'incoraggiamento anche a tanti "cattolici adulti" di tutto il mondo e in particolare in Italia.

Nessuna religione in questo momento è tanto odiata e combattuta come il cattolicesimo. Segno, forse, che è l'unica vera.

Giovanni Romano

domenica 17 maggio 2009

Le code, le mosche e l'eutanasia

Non avevo mai riflettuto a una piccola frase di George Orwell, un breve inciso nel racconto “La fattoria degli animali”. E’ una riflessione di Benjamin l’asino, il bastian contrario e lo scettico della compagnia, probabilmente il personaggio con cui Orwell stesso si è identificato. “Diceva che il buon Dio aveva dato agli asini la coda per scacciare le mosche, ma sarebbe stato meglio che non fossero esistite né mosche né code”.

Quando ci ho ripensato ho avuto come un lampo: un ragionamento come questo porta dritto filato all’eutanasia. E perché? Perché il meccanismo mentale è lo stesso: non prendo più posizione davanti a un problema, non accetto più il dato di realtà, semplicemente lo elimino. Certo un mondo senza mosche forse è più comodo e richiede meno sforzi, ma così facendo ho eliminato senza accorgermene un aspetto della realtà, l’ho impoverita (senza contare che le mosche, se non altro, servono come cibo a decine di specie animali e persino alle piante carnivore). E se comincio a togliere di mezzo le mosche, chi può dire dove mi fermerò? A forza di eliminare quello che non mi va, cosa mi resterà tra le mani? E quello che mi resterà avrà veramente gusto?

Giovanni Romano