martedì 28 febbraio 2017

Lettera a un giornalista con la schiena a cerniera

Infuria violentemente la polemica sull'eutanasia, ma sulla scorta di quanto è accaduto innumerevoli altre volte l'esito è ormai scontato. Con la stampa, i TG, i politici, gli intellettuali, i social networks tutti allineati e coperti dietro il favor mortis è praticamente certo che avremo la legge. E poi la estenderemo gradatamente dai soliti "casi pietosi" fino alla soppressione dei minori, degli incapaci di intendere e di volere fino agli anziani non consenzienti.

Le voci di dissenso vengono brutalmente silenziate. Per il pochissimo che vale, però, ho voluto far conoscere quello che penso a uno dei tanti giornalisti obbedienti al pensiero dominante cui ho anche tolto l'amicizia su Facebook. Dal momento che il messaggio è assolutamente privo di riferimenti personali lo riporto integralmente e senza alcuna modifica, perché quello che scrivo a una persona penso che possa valere per tutti i giornalisti che giustificano e promuovono il suicidio assistito:

Io non so se tu, giornalista e dunque in grado di influenzare l'opinione pubblica, ti renda conto delle gravi responsabilità che ti stai assumendo. Prima di tutto qui non stiamo parlando di un educato scambio di idee ma letteralmente di vita e di morte, e tu ti sei messo dalla parte della morte.

Secondo, la volontà di morire non riguarda mai la singola persona ma è un gesto che si ripercuote sull'intera società. Basti pensare al battage che ha accompagnato il suicidio di Welby e il piagnisteo mediatico su altri casi più recenti. Una tattica ben collaudata: prima si sbandierano i "casi pietosi", poi si banalizza nella tranquilla accettazione dell'orrore (Olanda docet). Grazie a Welby e ai radicali nessun paziente può più aspettarsi che la prima reazione del personale sia quella di porgere incondizionatamente aiuto. Più probabilmente la sua sopravvivenza sarà valutata sulla base di considerazioni costo/efficacia.

Terzo, le DAT non fanno prova anzi sono molto pericolose perché una persona le compila quando è in salute ma potrebbe cambiare idea quando la malattia sopravviene sul serio. E in questo caso si troverebbe intrappolato dalla sua stessa volontà.

Quarto: diffondere la cultura (sic!) dell'eutanasia incoraggia (per non dir altro...) i più deboli e gli anziani al "gesto altruistico" di porre fine alla propria vita per non pesare di più sulla società. Bisogna proprio essere ciechi per non rendersi conto di quanto questo allontani gli esseri umani gli uni dagli altri, proprio in un'epoca dove non si fa altro che parlare d'"amore".

Quinto: la lotta contro l'obiezione di coscienza dei medici che sarebbero costretti a diventare assassini contro la loro volontà. Spero che non vorrai volontariamente confondere il rifiuto di provocare la morte con l'accanimento terapeutico.

Per questo ritengo assolutamente aberrante e disumana la tua posizione, tanto più grave perché pronunciata - lo ripeto - da chi è in grado di esercitare una forte influenza sull'opinione pubblica. Simili divergenze - ripeto anche questo - non possono restare e non resteranno senza conseguenze nemmeno sul piano personale. Ho detto.

Giovanni Romano

lunedì 27 febbraio 2017

La Terra e le sue sette sorelle

Il 22 febbraio scorso i notiziari di tutto il mondo hanno riportato la scoperta, davvero sensazionale, di un sistema solare con 7 pianeti simili alla Terra, tre dei quali sarebbero adatti a ospitare la vita. Per i dettagli rimando a questo articolo pubblicato dal Messaggero.

La scoperta, com’è naturale, ha suscitato una marea di commenti, e se è vero quanto diceva Umberto Eco di Internet, la maggioranza di quelli che ho letto sono stati negativi, superficiali o tutte e due le cose. Si parte dal solito argomento:“Perché destinare tanti soldi all’esplorazione dello spazio se sulla Terra i problemi sono ben altri?”, dimenticando quanti benefici le esplorazioni spaziali hanno già apportato ai materiali resistenti al freddo e al calore, alla medicina e alla chirurgia, ai sistemi di sicurezza, alle comunicazioni, ai trasporti e alla geolocalizzazione, tanto per citarne solo alcuni.

Una versione apparentemente più raffinata dell’obiezione di cui sopra è l’ironia con cui Michele Serra ha pontificato dalla sua “Amaca”: “Arrivare a quei sette pianeti e colonizzarli? No, per carità! L’idea di avere dei pianeti di ricambio ci incoraggerebbe a distruggere ancora di più il nostro con le guerre, l’inquinamento, il riscaldamento globale”… ecc. ecc. ecc. Naturalmente si è ben guardato dal citare l’aborto come una delle principali cause di distruzione della vita umana sulla Terra, ma sarebbe stato pretendere troppo. Di effetto Serra ce n’è già abbastanza!

Un’altra obiezione “classica” è: “Abbiamo scoperto sette pianeti simili alla Terra. E con questo? Non potremo mai raggiungerli né loro potranno mai mettersi in contatto con noi. Perché allora tanto entusiasmo?”. Effettivamente 40 anni/luce sembrano pochi, ma come ha giustamente osservato Luciano De Crescenzo (che di formazione è un ingegnere, non dimentichiamolo) un messaggio radio e la relativa -eventuale- risposta impiegherebbero complessivamente ottant’anni. Se vogliamo avere un’idea più precisa di quanto sia abissale questa distanza basta fare un semplice calcolo. I sette pianeti del sistema Trappist-1 sono distanti circa 3,78432^14 km, vale a dire 378.432 miliardi di km. Un’astronave che viaggiasse a 28.000 km/h impiegherebbe 1.542.857 anni per un viaggio di sola andata. Pare di essere in un racconto come I sette messaggeri di Dino Buzzati: nell’immensità dello spazio e del tempo i contatti si perdono, i messaggi diventano sempre più rari, le voci si affievoliscono fino a tacere per sempre.

Risparmio infine al lettore tutte le barzellette -politiche o meno- che hanno preso spunto dalla vicenda, e vengo al cuore del problema. Io non credo che questa scoperta sia superflua, e nemmeno che siano stati soldi sprecati. Al di là di tutti i discorsi che possiamo fare sull’allocazione più o meno giusta delle risorse, noi esseri umani siamo una incoercibile sete di infinito, di scoperte, di “oltre”. Una vita o una civiltà che si condannassero a non scoprire nulla sono sterili e morte già in anticipo. Con buona pace di Dante, le umane genti non si accontentano del “quia”, o quanto meno desiderano scoprire cosa c’è oltre l’orizzonte (lo stesso Dante ha reso Ulisse una figura immortale proprio per il suo tentativo di andare oltre).

In secondo luogo, sono proprio le scoperte apparentemente più astratte ad aprire la strada a sviluppi imprevedibili fino a quel momento. Senza scomodare Einstein e la teoria della relatività, basti pensare alla scoperta delle onde radio da parte di James Clerk Maxwell: fu una scoperta “a tavolino”, ma quanta strada si è fatta da allora in poi! Oppure diamo un’occhiata alla macchina di Turing, un modello teorico senza il quale i computers non sarebbero nemmeno pensabili (incluso quello con cui sto scrivendo e quelli di voi che mi state leggendo). Cosa sappiamo degli sviluppi che potrebbe avere la scoperta delle onde gravitazionali sugli spostamenti tra le varie parti dell’Universo?

In terzo luogo, tanta insistenza quasi spasmodica nel voler trovare la vita al di fuori della Terra dovrebbe farci riflettere. Questa ansia rivela un altro dei bisogni fondamentali del genere umano, quello di socializzare, di condividere la propria esistenza anche oltre i confini del proprio pianeta. Non importa se, come ci ha avvertito Stephen Hawking, il contatto con gli alieni potrebbe essere pericoloso. L’importante è scoprire l’Altro perché attraverso questo incontro si approfondisce la conoscenza della realtà e si arriva a capire sempre più chi siamo noi.

Anche qui, tuttavia, non si può fare a meno di notare una profonda contraddizione: quelle poche cellule che su Marte o sui sette pianeti farebbero gridare al miracolo della vita, sulla Terra, nel ventre di una donna, sono considerati niente altro che un grumo di cui ci si può disfare e ci si disfa a piacimento. È la prova che il nostro sguardo sulla realtà non è tanto di stupore quanto di pretesa e di dominio.

I sette pianeti del Trappist-1, forse per loro fortuna, sono al di là della nostra portata almeno per il prevedibile futuro. Non sappiamo cosa potrà venire da questa scoperta, ma di fronte all’ignoto la parola più vera spesso spetta al poeta più che allo scienziato. Per questo mi piace concludere con questi splendidi versi che fanno giustizia di molte sciocchezze e di molte saccenti obiezioni:

(…) Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
che è una stoltezza dirselo.
(Eugenio Montale, “Satura”)


Giovanni Romano

martedì 21 febbraio 2017

La guerra delle palme



«I turbamenti e le sofferenze dovuti all'immigrazione sono già in atto»
(Card. Giacomo Biffi, «Sulla immigrazione», settembre 2000)

Chi avrebbe mai pensato che la trovata delle palme in Piazza Duomo a Milano avrebbe destato tante polemiche, tanto risentimento e tanta rabbia sfociati addirittura in un attentato incendiario? Si noti che ho evitato di proposito le parole «odio» e «razzismo» che sono in realtà comode scappatoie per non comprendere il disagio che cova dietro questa vicenda assurda solo in apparenza.

Come mai questa installazione è stata avvertita come un'imposizione, quasi come una violenza culturale inflitta alla città di Milano, alla sua storia e al suo habitat? Non è forse vero, come ha dimostrato l'amministrazione Sala, che le palme erano state installate in quella stessa piazza già alla fine dell’800 senza che a nessuno fosse venuto in mente di protestare?

A parte il confronto tra le due foto, in cui la presenza delle palme a fine ‘800 era molto più discreta di quella odierna (a mio giudizio assai pacchiana), c’è da tenere conto che il contesto storico-culturale è profondamente mutato. L'Italia di allora era un paese colonizzatore cui le palme non facevano impressione, anzi rappresentavano una sorta di trofeo. Quel che è «esotico» e «coloniale» è remoto per definizione, collocato a distanza di sicurezza in un remoto spazio fisico e mentale, che desta tutt'al più curiosità se non un certo orgoglio. Oggi invece l'Italia è un paese invaso da folle di «migranti» che vengono avvertiti come una minaccia, una prepotenza, una prevaricazione anche culturale con particolare riferimento all'islam.

Probabilmente nessuno dei tanti che predicano contro l' «odio» e il «razzismo» ricorda - o vuole ricordare - che nel novembre 2009 migliaia di islamici, in spregio ai divieti della Prefettura, ruppero i cordoni della polizia e invasero il sagrato di Piazza Duomo per farne un luogo di preghiera musulmano. Fu un inequivocabile gesto di sopraffazione e intimidazione verso i cristiani. Forse è proprio questa presenza sempre più ingombrante ad aver scatenato l'avversione e i sarcasmi contro le palme. Anche le immagini caricaturali del Duomo trasformato in moschea diventano molto più comprensibili in questa prospettiva.

A ciò si aggiunga il fatto che a volere le palme non è stato tanto il Comune ma la multinazionale americana Starbucks che ha dichiarato apertamente di voler assumere solo personale straniero in nome della «lotta-al-razzismo-all'omofobia-al-bullismo-alla-xenofobia-e-all'intolleranza-ecc.-ecc.-ecc.». I milanesi - o quanto meno un gran numero di loro - si sono sentiti dunque emarginati due volte: economicamente perché una multinazionale estera ha imposto il proprio progetto con la sua forza economica, e culturalmente perché sono costretti anche a sorbirsi i fervorini politicamente correttissimi di una cultura omologante che li espropria della loro identità.

Bruciare le palme, però, a parte essere un gesto tanto violento quanto stupido, è soprattutto sintomo di debolezza, di un’impotenza sempre più diffusa che non trova vie culturali o politiche per manifestarsi, della perdita di controllo sul proprio destino e sulla propria economia. Un segnale di conflitto e di disagio che non dovrebbe essere sottovalutato.


Giovanni Romano