domenica 3 dicembre 2017

La caccia al nazista che non c'è



I nostri media "democratici" e "antifascisti" in servizio permanente effettivo si sono messi a ululare tutti insieme contro la presunta "bandiera neonazista" scoperta in una caserma dei Carabinieri di Firenze (se ne legga un esempio nell'articolo dell'Ansa di oggi).

Non sappiamo, in effetti, perché in quella caserma i militari abbiano voluto esporre proprio quella bandiera e con quali intenzioni, ma una cosa è certa: per chiunque conosca anche marginalmente la storia, la bandiera raffigurata a destra non è quella nazista, bensì quella della Marina Imperiale Tedesca all'epoca della Prima Guerra Mondiale. I simboli neonazisti riportano sempre qualcosa che richiama la Croce uncinata, la Croce celtica oppure la runa delle SS, elementi che mancano del tutto in questo vessillo.

Non solo. Questa bandiera in particolare è associata a una storia drammatica di rifiuto del nazismo, di coraggio e di dignità. Fu in questa bandiera, e non in quella del Terzo Reich, che si avvolse il Capitano di Vascello Hans Wilhelm Langsdorff (foto al centro), comandante della corazzata tascabile Admiral Graf Spee prima di suicidarsi il 19 dicembre 1939, due giorni dopo aver dato l'ordine di autoaffondare la nave all'estuario del Rio della Plata (foto a sinistra). Con quella decisione Langsdorff evitò l'inutile sacrificio del suo equipaggio contro la Marina inglese che lo attendeva al largo delle acque territoriali uruguayane dove la nave si era rifugiata. Nei mesi precedenti la Graf Spee aveva attaccato il traffico mercantile britannico affondando un totale di nove navi, ma Langsdorff si era distinto per la particolare umanità con cui aveva trattato i loro equipaggi, salvato i naufraghi e assistito i feriti. Il suicidio di Langsdorff, e le modalità con cui avvenne, fu l'ultimo simbolico gesto di protesta contro il regime nazista che aveva dichiarato una guerra tanto inumana quanto insensata.

Di tutta questa verità storica non c'è traccia nei media che si riempiono continuamente la bocca di "pluralismo", "democrazia", "tolleranza", "inclusione", e, da solerti delatori quali sono, corrono a denunciare alla Polizia i loro fumosi sospetti. Ho esitato, lo confesso, a scrivere questo post. Cosa può uno sconosciuto blogger contro una macchina del fango e della menzogna così organizzata, diffusa e potente? Ci vorranno intere generazioni per ristabilire un minimo di verità storica. Ma per fortuna anche un sassolino molto piccolo, a volte, può disturbare gli ingranaggi di una grossa macchina. Perciò ho scelto di non tacere.

Giovanni Romano

venerdì 27 ottobre 2017

Insetti? No, grazie!



Com’è noto, a partire dal 2018 grazie alla UE i cittadini potranno ritrovarsi gli insetti nel piatto. Almeno così molti giornali hanno presentato la notizia, precisando che il 54% degli italiani è contrario (una percentuale fin troppo esigua rispetto alla realtà, a mio parere).

Perché questo moto spontaneo di ripulsa, di avversione? Prima di tutto perché il cibo è una cultura, e gli insetti, da sempre, sono assolutamente estranei alla tradizione alimentare occidentale. L’Europa si è evoluta – questo lo percepiamo più o meno confusamente – appunto perché non ha continuato a mangiare insetti, preferendo i vegetali (il che ha richiesto la laboriosità e l’organizzazione delle civiltà agricole) oppure le proteine nobili della carne (il che ha richiesto la pazienza dell’allevamento o il coraggio e l’astuzia della caccia). In secondo luogo, la grande maggioranza degli esseri umani avverte quanto meno un’estraneità nei confronti degli insetti, quando non una vera e propria fobia. Figuriamoci mangiarli!

Si obietterà che introdurre gli insetti nell’alimentazione è un arricchimento della dieta, una fonte inesauribile di proteine a basso costo, una “contaminazione” (per usare un termine tanto improprio quanto sgradevole), una fermentazione di culture diverse, un risultato inevitabile della globalizzazione e delle migrazioni, e via banalizzando. A molti invece viene il sospetto che dietro tanta pubblicità ci sia un tentativo di imporre questo tipo di alimentazione, più o meno come si cerca di imporre una dieta vegetariana o peggio ancora vegana nelle scuole e sui media a scapito della carne, dei formaggi e dei salumi.

Si può discutere se queste illazioni siano fondate o meno, ma quello che importa è capire le ragioni per cui tali sospetti vengono avanzati. Viviamo un momento in cui l’eccesso di informazioni – o meglio di voci incontrollate – induce a dubitare di tutto, molto spesso anche immotivatamente. I social networks finiscono per tribalizzare gli utenti intorno a quel che già pensano di sapere e a quel che vogliono sentire, illudendosi così di riprendere un minimo di controllo sulla propria vita, mentre le decisioni che ci riguardano direttamente – dalla pensione ai risparmi, dalla salute all’alimentazione, dalle elezioni ai programmi scolastici dei nostri figli – sono sempre prese altrove, da organi remoti che non si ha alcun potere di influenzare, e che per giunta pretendono di decidere “per il nostro bene”.

È questo atteggiamento pedagogico del potere, forse, a dare più fastidio. Si scava un fossato sempre più profondo tra un discorso pubblico autoreferenziale e la cittadinanza che si vede trattata con implicita diffidenza e distacco. Da qui, ad esempio, la rivolta irrazionale e autolesionista contro l’obbligo dei vaccini, motivata almeno nella maggior parte dei casi più da risentimento contro un governo che non rende conto delle proprie azioni che da obiezioni sanitarie vere e proprie. Da qui anche la diffidenza con cui è stata accolta la liberalizzazione degli insetti come alimento, quasi fosse un atto di consapevole disprezzo delle nostre tradizioni alimentari.

Non sappiamo come finirà questa vicenda. Forse prima o poi, grazie all’effetto “finestra di Overton” che ha già fatto tristemente prova di sé per quanto riguarda il gender, quel che sembrava aberrante e insensato all’inizio finirà per essere accettato come fatto compiuto. Ma se questa diventasse mentalità comune, o peggio ancora ci venisse imposta, avremmo perso irreparabilmente un patrimonio culturale fatto di secoli di ricette, di ingegnoso sfruttamento delle risorse locali, di sapienza tramandata da una generazione all’altra. Proprio quel che la globalizzazione rifiuta e distrugge: fanno molto più comodo individui isolati ai quali, se mangiano di tutto, si può dare a bere di tutto.

Giovanni Romano

lunedì 9 ottobre 2017

Tristi perché arretrati, o arretrati perché tristi?

Qualche giorno fa ebbi una violenta disputa su Facebook a proposito dell’”Accabadora”, una donna che nella Sardegna del Nord-Est era incaricata di praticare la soppressione dei malati terminali, e le cui ultime imprese sono arrivate fino alla prima metà del secolo scorso. La discussione è iniziata da questo articolo, ed è rimarchevole come in esso manchi assolutamente la benché minima critica verso un costume che definire barbaro è poco. Al contrario, il tono è elogiativo, parla di “pietà” quasi fosse un grande merito sfondare la testa di un morente a colpi di mazza o soffocarlo con un cuscino. In ogni caso, ci rassicura l’articolista, l’esistenza dell’accabadora “(…) è sempre stata ritenuta un fatto naturale, come esisteva la levatrice che aiutava a nascere, esisteva s’abbacadora che aiutava a morire. Si dice addirittura che spesso era la stessa persona [il neretto è mio, N.d.R.] e che il suo compito si distinguesse dal colore dell’abito (nero se portava la morte, bianco o chiaro se doveva far nascere una vita).

A parte tutte le considerazioni che si potrebbero fare sul matriarcato e sui suoi effetti negativi, l’articolo presenta alcune vistose contraddizioni che possono sfuggire solo ai più superficiali. Tanto per cominciare, ci viene detto che l’”accabadura” era “Un atto pietoso nei confronti del moribondo ma anche un atto necessario alla sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno abbienti: nei piccoli paesi lontani da un medico molti giorni di cavallo, serviva a evitare lunghe e atroci sofferenze al malato”.

Dal che si evince chiaramente che anche la morte faceva distinzioni di classe, e che l’uccisione era la fine riservata ai poveri molto più che ai ricchi. Che poi questa pratica fosse colpa anche della grettezza spietata dei latifondisti che mantenevano la popolazione nella miseria, questo è indubbio. Si accenna anche a uno dei problemi più seri della Sardegna in generale e della Barbagia in particolare: la mancanza di buone vie di comunicazione, che ne hanno frenato fino ad oggi lo sviluppo sia economico che civile.

Questa però può essere al massimo una spiegazione, non una giustificazione. Tanto quanto la ricchezza, anche la povertà può generare – anzi genera quasi sempre – un egoismo ancor più gretto e feroce. È proprio vero che si sopprimevano i malati solo per pietà, oppure anche per impadronirsi di pochi bocconi di pane in più? E se il medico non veniva nemmeno chiamato, come si poteva affermare con tanta sicurezza che la malattia fosse terminale? Praticare l’”accabadura” non era forse un modo, diciamo così, di “aiutare il destino” togliendo di mezzo i più deboli, le vite diventate ormai inutili a beneficio delle tasche dei più forti? È significativo che, come scrive esplicitamente l’articolo, “sa femmina accabadora” veniva sempre chiamata dai parenti, non dal malato. Ed è per lo meno strano che mai nell’articolo si accenna al desiderio di chiamare un prete.

Secondo: “s’accabadora” veniva sempre di notte, vestita di nero da capo a piedi, faceva uscire i parenti dalla casa e soffocava il morente col cuscino oppure gli sfondava il cranio con “su mazzolu”. Poi se ne andava silenziosa come era venuta, mentre i parenti la ringraziavano offrendole prodotti della terra (eh, certo, la morte su commissione ha il suo prezzo!). Se un comportamento del genere fosse stato così naturale e culturalmente accettato, perché venire di notte? Perché vestirsi di nero? Perché coprirsi il volto e tutta la figura? In questo, “s’accabadora” era esattamente identica al boia che eseguiva le sentenze mascherandosi con il cappuccio: pur essendo un funzionario statale regolarmente inquadrato e pagato, pur avendo dalla sua la legge e l’opinione pubblica che lo giustificavano, il suo lavoro era così disumano in sé da suscitare disagio e orrore in chi lo avesse incontrato di persona.

Portiamo ora il discorso su un altro livello. Cosa possiamo dire di una cultura che accetta così tranquillamente non tanto la morte quanto la soppressione della vita? Una pratica del genere può essere giustificata soltanto dalla miseria oppure c’è un elemento di crudeltà, di fatalismo pagano che a sua volta è diventato il fattore paralizzante che ha contribuito a ibernare quella parte della Sardegna in una perpetua miseria? Altre regioni d’Italia, come il Molise, la Basilicata e il Veneto hanno conosciuto una miseria altrettanto feroce, un abbandono altrettanto totale, ma in nessuna di esse, per quanto ne sappia, si ricorreva all’eliminazione dei morenti come fosse un fatto “naturale” (non c’è niente di naturale in un colpo che ti sfonda la testa, per giunta con “Su mazzolu” fabbricato appositamente allo scopo).

Una cultura diventa umana nella misura in cui si prende cura della vita, non nella misura in cui la sopprime. Sono proprio le culture non fataliste, non ripiegate sulla circolarità maligna del tempo, quelle dove ogni vita ha la sua importanza, a possedere la tensione a non accontentarsi, a migliorare, a non lasciare nessuno indietro. Se l’arretratezza è causa di malinconia, anche una malinconia divorante può essere causa di arretratezza. È una sinistra ironia che nella foto dell’”accabadora” sia presente il Crocifisso, il che dimostra quanto il cristianesimo sia rimasto alla superficie di una cultura forse ferma interiormente all’epoca dei nuraghi. Non c’è bisogno di essere cristiani, tuttavia, per trovare barbara e inumana questa pratica. Non ho letto I quaderni dal carcere, ma sono assolutamente certo che un sardo della statura di Antonio Gramsci avrebbe condannato col massimo rigore questo costume che ora, in piena malafede, si torna a giustificare in nome di una ipocrita “pietà”.

Giovanni Romano

sabato 3 giugno 2017

Urge un vaccino contro la stupidità

In questi giorni infuria un dibattito tanto violento quanto assurdo sulle vaccinazioni, specialmente perché il governo è intervenuto con mano pesante tornando a imporre l’obbligo di vaccinare i bambini contro 12 malattie pena l’esclusione dalla scuola e addirittura la revoca della patria potestà. Non contento di questo, il Ministero della Salute ha immediatamente radiato i medici che si erano espressi contro le vaccinazioni.

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Chi scrive è assolutamente favorevole alle vaccinazioni, senza se e senza ma. Rifiutarsi di vaccinare i propri figli è un atto di irresponsabile gravità. Gli argomenti contrari (come quello secondo cui i vaccini causerebbero l’autismo) non hanno alcuna consistenza scientifica. Né tantomeno si può essere d’accordo su chi vuole seminare il panico parlando di una morìa di bambini causata dalle vaccinazioni. Per quanto dolorose siano quelle morti, il loro numero non sarà MAI paragonabile, nemmeno lontanamente, alla strage che potrebbe verificarsi in caso di epidemia. Senza contare che una malattia di cui si ride come il morbillo se non curata può causare encefalopatia, e la rosolia è pericolosissima per le donne in stato di gravidanza. Problemi così gravi non si possono affrontare con superficialità, nemmeno gridando alla “libertà di cura”. A parte i risultati delle cure “alternative” come l’omeopatia, non si può invocare nessuna “libertà di cura” quando si tratta di malattie infettive.

A chi continua a sostenere che le vaccinazioni obbligatorie non sono necessarie, facciamo presente che l’Italia è al 212° posto su 222 nella graduatoria mondiale della mortalità infantile con 3,31 decessi annui ogni 1.000 nati , ben al di sotto della Finlandia (3,36), della Germania (3,46) e della Svizzera (3,73) (fonte: https://www.indexmundi.com/map/?v=29&l=it). In tutti questi paesi al di sopra del nostro, guarda caso, le vaccinazioni non sono obbligatorie.

Perché tanto risentimento e tante proteste, allora? Il problema è nel metodo adottato dal governo. Dopo anni di indifferenza nei confronti dell’isteria immotivata contro le vaccinazioni, si è svegliato troppo tardi ed è intervenuto brutalmente, senza darsi la pena di informare, di spiegare, di coinvolgere la cittadinanza. Governi non eletti si abituano a prevaricare sui cittadini, scavando un solco di indifferenza, di ostilità e di dubbio anche dove non ci dovrebbe essere motivo di disaccordo.

E a Corato? Purtroppo non disponiamo di statistiche aggiornate ma è interessante citare un articolo di CoratoLive del 28 ottobre scorso: http://tinyurl.com/y8fga2hr. Da quell’articolo si deduce chiaramente sia che la copertura vaccinale è molto buona (il 95% circa) sia che, contrariamente a quanto vuol farci credere chi si oppone caparbiamente alle vaccinazioni, i genitori stessi vogliono vaccinare i loro figli e sono i primi a protestare quando il servizio viene a mancare.

C’è tuttavia un’ultima domanda imbarazzante: lo stesso governo che usa il pugno pesante contro gli italiani si guarda bene dall’esigere la vaccinazione ai clandestini che ci stanno invadendo. Come mai, allora, il personale che li raccoglie dai barconi veste tute da guerra batteriologica? Vogliono forse prolungare il Carnevale? Andate a chiederlo alla Boldrini che per anni si è occupata dei rifugiati...

Giovanni Romano

sabato 11 marzo 2017

Il toro e la fanciulla: un falso duello

Qualche giorno fa proprio di fronte a Wall Street è stata collocata «a sorpresa» la statua di una ragazzina che, le mani sui fianchi, si piazza in atto di sfida davanti al famoso Toro. Pare che il monumento «alternativo» sia stato collocato nottetempo ma la mattina dopo c'erano già la stampa, le TV e una nutrita rappresentanza di VIP e radical-chic, tutti evidentemente preavvertiti.

Quale il significato di questa statua? Un ricordo del movimento «Occupy Wall Street» di un paio d'anni fa? Una sfida al femminile al gioco cinico e spietato della Borsa e della globalizzazione finanziaria che ha ridotto alla miseria intere nazioni e minaccia di inghiottirne altre?

Niente di tutto questo. Quello tra il toro e la ragazzina è un falso duello, e per due ragioni. Prima di tutto, lo scopo di chi ha collocato la statua era semplicemente quello di rivendicare una maggiore presenza femminile ai piani alti delle istituzioni finanziarie, con particolare riferimento ai consigli di amministrazione. In questo senso la fanciulla (o piuttosto chi ha commissionato la statua) gioca allo stesso gioco del toro e accetta le sue regole. Vuole semplicemente prenderne il posto ma non sembra né diversa né migliore.

Una seconda delusione viene dallo scoprire chi c'è dietro questa operazione di cosmesi politicamente corretta: un fondo d'investimento che maneggia la bazzecola di 2,5 trilioni di dollari all'anno. Niente di realmente alternativo, dunque, se non un cambio di poltrone ai vertici. Ne valeva la pena?

Giovanni Romano

giovedì 9 marzo 2017

Visite psicologiche obbligatorie: tutela o vessazione?

Sul sito Oggiscuola.it è comparso ieri un intervento del garante per l’infanzia e l’adolescenza della Regione Calabria, Antonio Marziale, che ha annunciato come il ministro dell’Istruzione Fedeli abbia dato il via libera alle visite psicologiche obbligatorie per i docenti al fine di accertarne l’idoneità in modo che siano evitati episodi di maltrattamenti specialmente ai danni dei bambini. Com’egli stesso ha dichiarato provvederà a emanare immediatamente le linee guida. E nel frattempo -particolare significativo- quella pagina ha ricevuto oltre 3 milioni di visite, nonostante sia appesantita da una pubblicità invasiva e insopportabile.

Salvaguardare i più piccoli è fuori discussione, ma nel discorso del dott. Marziale ci sono dei particolari che colpiscono sfavorevolmente. Prima di tutto i toni brutali e offensivi con cui ha parlato degli insegnanti e di chiunque avesse mosso critiche alla sua idea. Non si riesce a farci l’abitudine: mentre i riconoscimenti alla categoria -quando ci sono- sono solo e soltanto verbali, le minacce, il pugno e il bastone sono concreti e immediatamente operativi. Secondo, è troppo comodo l’aver affrontato il problema in chiave esclusivamente repressiva (cito testualmente: “chi ha a che fare con loro [i bambini, N.d.R:] quotidianamente non può’ permettersi il lusso di scaricare le proprie frustrazioni maltrattandoli. Chi lo fa deve cambiare mestiere, anzi bisogna farglielo cambiare”) senza minimamente preoccuparsi di cercare le cause del burn-out né tantomeno offrire rimedi credibili.

Non una parola, non un moto di solidarietà ha speso questo burocrate, né i suoi colleghi, né lo stesso ministro sugli insegnanti minacciati, derisi e anche picchiati in troppi istituti, con particolare riferimento ai professionali. Non sa o non gl’importa sapere cosa significhi andare un giorno dopo l’altro in classi cattive, incontrollabili, violente dove il docente è come un cane alla catena che non può ne fuggire né attaccare a sua volta. Non un accenno alle famiglie che arrivano fino alle percosse anche contro i presidi se i loro pargoli non vengono lisciati, vezzeggiati e soprattutto promossi anche se sono più ignoranti di un’ameba. Tutte le responsabilità, come al solito, vengono scaricate sulle spalle degli insegnanti che adesso si troveranno a dover subire una vessazione in più.

Queste visite psicologiche obbligatorie, infatti, a parte che probabilmente saranno a carico dei docenti, così come sono state intese verranno svolte in un’ottica di sospetto e ostilità, non di aiuto. Il dott. Marziale può stare certo fin da ora che almeno il 60% degli insegnanti oggi cambierebbe mestiere se ne avesse la possibilità, senza aspettare i suoi comandi! Ma questo è impossibile per la politica di deliberato impoverimento della classe media che per mancanza di alternative economiche è condannata a fornire carne da cannone alla scuola.

Eppure altri sistemi meno professionalmente degradanti ci sarebbero, solo che lo stato si guarda bene dal prenderli in considerazione. Ad esempio, un anno sabbatico ogni 5-6 anni di lavoro (cfr. Giovanni Pacchiano, “Di scuola si muore”, Feltrinelli 1998) in cui il docente dovrebbe svolgere altre mansioni che comunque gli diano respiro dalla cattedra. Oppure l’eliminazione delle “classi pollaio” di 28-32 alunni per creare gruppi più piccoli e più facilmente controllabili (sembra davvero incredibile che dopo l’entrata in ruolo di 100.000 nuovi docenti il problema non sia stato nemmeno lontanamente risolto).

C’è inoltre un pericolo sottile e non dichiarato in questo controllo psicologico: assicurarsi che tutti i docenti la pensino allo stesso modo, che tutti si conformino ai dettami del politicamente corretto. La scuola ormai non è più un veicolo di diffusione della cultura -se mai lo è stata- ma un mezzo di controllo sulle menti e uno strumento di manipolazione sociale (ecco perché la dilatazione incontrollata del tempo-scuola è un mezzo per allontanare i figli dalle famiglie consegnare i loro cervelli all’ammasso). Come nell’URSS di Brezhnev, chiunque si azzardi a pensare in proprio è un pazzo da ricoverare in manicomio. Forse l’insegnante veramente pericoloso, agli occhi della burocrazia ministeriale, non è soltanto quello che picchia gli alunni ma quello che legge, si informa e non la beve.

Giovanni Romano

martedì 7 marzo 2017

Montalbano alla guerra del gender

Sulla questione del gender si sta combattendo ormai da anni una vera e propria guerra. Ma è una guerra asimmetrica, in cui una parte può valersi solo della propria testimonianza fatta in silenzio, di incontri divulgati di bocca in bocca ai quali partecipano poche decine o centinaia di persone (quando va bene), ignorata o vilipesa dai media, abbandonata dai pastori della Chiesa e tradita da troppi preti. Dall'altra un apparato mediatico dai mezzi praticamente illimitati che imbavaglia qualunque contraddittorio, sostenuta dal coro assolutamente conformista dei VIP della canzone, dello sport, dello spettacolo. Proprio ieri ne abbiamo avuto un esempio particolarmente meschino con il politicamente correttissimo Andrea Camilleri che non ha esitato a sferrare l'ennesimo colpo basso valendosi della popolarità del suo sceneggiato Il commissario Moltalbano.

Mi permetto di "rubare" l'intervento di un mio amico su Facebook che ha descritto molto bene quello che è accaduto durante la puntata di ieri sera:

(...) ho visto la puntata di "Montalbano".... Ad un certo punto, quasi in sottofondo, ma ben udibile, veniva inquadrata una TV accesa in cui un personaggio, non importa chi, esprimeva la sua posizione a favore della famiglia tradizionale, basata sull'incontro tra uomo e donna, che genera naturalmente bambini, e contro l'omosessualismo, considerato espressamente una deviazione (che tale è). Bene.... indovinate un po'? Questo personaggio, alla fine della storia, è risultato essere il cattivone stupratore assassino di turno. Le menti deboli ed acritiche, che spesso seguono questo programma, in maniera neanche tanto subliminale, hanno associato quanto ipocritamente espresso in tv dal "protagonista," alla sua carica delinquenziale estrema. Se 2+2 fa 4 allora, per camilleri e gli autori del programma.... "difensore della famiglia naturale e normale"=assassino stupratore.

Non c'è da niente da aggiungere. se mai osservare che si sbaglia a parlare di "famiglia tradizionale": (la famiglia è naturale, non tradizionale), e che ormai la macchina del fango lavora a pieno regime, come contro i sacerdoti cattolici ormai identificati tout court come pedofili.

Sono orgoglioso di non possedere nella mia biblioteca nessuno dei libri di Andrea Camilleri altrimenti l'avrei trattato come Knut Hamsun lo scrittore collaborazionista fu trattato dai norvegesi: gli restituirono tutti i suoi libri buttandoli davanti alla sua porta.

Giovanni Romano

martedì 28 febbraio 2017

Lettera a un giornalista con la schiena a cerniera

Infuria violentemente la polemica sull'eutanasia, ma sulla scorta di quanto è accaduto innumerevoli altre volte l'esito è ormai scontato. Con la stampa, i TG, i politici, gli intellettuali, i social networks tutti allineati e coperti dietro il favor mortis è praticamente certo che avremo la legge. E poi la estenderemo gradatamente dai soliti "casi pietosi" fino alla soppressione dei minori, degli incapaci di intendere e di volere fino agli anziani non consenzienti.

Le voci di dissenso vengono brutalmente silenziate. Per il pochissimo che vale, però, ho voluto far conoscere quello che penso a uno dei tanti giornalisti obbedienti al pensiero dominante cui ho anche tolto l'amicizia su Facebook. Dal momento che il messaggio è assolutamente privo di riferimenti personali lo riporto integralmente e senza alcuna modifica, perché quello che scrivo a una persona penso che possa valere per tutti i giornalisti che giustificano e promuovono il suicidio assistito:

Io non so se tu, giornalista e dunque in grado di influenzare l'opinione pubblica, ti renda conto delle gravi responsabilità che ti stai assumendo. Prima di tutto qui non stiamo parlando di un educato scambio di idee ma letteralmente di vita e di morte, e tu ti sei messo dalla parte della morte.

Secondo, la volontà di morire non riguarda mai la singola persona ma è un gesto che si ripercuote sull'intera società. Basti pensare al battage che ha accompagnato il suicidio di Welby e il piagnisteo mediatico su altri casi più recenti. Una tattica ben collaudata: prima si sbandierano i "casi pietosi", poi si banalizza nella tranquilla accettazione dell'orrore (Olanda docet). Grazie a Welby e ai radicali nessun paziente può più aspettarsi che la prima reazione del personale sia quella di porgere incondizionatamente aiuto. Più probabilmente la sua sopravvivenza sarà valutata sulla base di considerazioni costo/efficacia.

Terzo, le DAT non fanno prova anzi sono molto pericolose perché una persona le compila quando è in salute ma potrebbe cambiare idea quando la malattia sopravviene sul serio. E in questo caso si troverebbe intrappolato dalla sua stessa volontà.

Quarto: diffondere la cultura (sic!) dell'eutanasia incoraggia (per non dir altro...) i più deboli e gli anziani al "gesto altruistico" di porre fine alla propria vita per non pesare di più sulla società. Bisogna proprio essere ciechi per non rendersi conto di quanto questo allontani gli esseri umani gli uni dagli altri, proprio in un'epoca dove non si fa altro che parlare d'"amore".

Quinto: la lotta contro l'obiezione di coscienza dei medici che sarebbero costretti a diventare assassini contro la loro volontà. Spero che non vorrai volontariamente confondere il rifiuto di provocare la morte con l'accanimento terapeutico.

Per questo ritengo assolutamente aberrante e disumana la tua posizione, tanto più grave perché pronunciata - lo ripeto - da chi è in grado di esercitare una forte influenza sull'opinione pubblica. Simili divergenze - ripeto anche questo - non possono restare e non resteranno senza conseguenze nemmeno sul piano personale. Ho detto.

Giovanni Romano

lunedì 27 febbraio 2017

La Terra e le sue sette sorelle

Il 22 febbraio scorso i notiziari di tutto il mondo hanno riportato la scoperta, davvero sensazionale, di un sistema solare con 7 pianeti simili alla Terra, tre dei quali sarebbero adatti a ospitare la vita. Per i dettagli rimando a questo articolo pubblicato dal Messaggero.

La scoperta, com’è naturale, ha suscitato una marea di commenti, e se è vero quanto diceva Umberto Eco di Internet, la maggioranza di quelli che ho letto sono stati negativi, superficiali o tutte e due le cose. Si parte dal solito argomento:“Perché destinare tanti soldi all’esplorazione dello spazio se sulla Terra i problemi sono ben altri?”, dimenticando quanti benefici le esplorazioni spaziali hanno già apportato ai materiali resistenti al freddo e al calore, alla medicina e alla chirurgia, ai sistemi di sicurezza, alle comunicazioni, ai trasporti e alla geolocalizzazione, tanto per citarne solo alcuni.

Una versione apparentemente più raffinata dell’obiezione di cui sopra è l’ironia con cui Michele Serra ha pontificato dalla sua “Amaca”: “Arrivare a quei sette pianeti e colonizzarli? No, per carità! L’idea di avere dei pianeti di ricambio ci incoraggerebbe a distruggere ancora di più il nostro con le guerre, l’inquinamento, il riscaldamento globale”… ecc. ecc. ecc. Naturalmente si è ben guardato dal citare l’aborto come una delle principali cause di distruzione della vita umana sulla Terra, ma sarebbe stato pretendere troppo. Di effetto Serra ce n’è già abbastanza!

Un’altra obiezione “classica” è: “Abbiamo scoperto sette pianeti simili alla Terra. E con questo? Non potremo mai raggiungerli né loro potranno mai mettersi in contatto con noi. Perché allora tanto entusiasmo?”. Effettivamente 40 anni/luce sembrano pochi, ma come ha giustamente osservato Luciano De Crescenzo (che di formazione è un ingegnere, non dimentichiamolo) un messaggio radio e la relativa -eventuale- risposta impiegherebbero complessivamente ottant’anni. Se vogliamo avere un’idea più precisa di quanto sia abissale questa distanza basta fare un semplice calcolo. I sette pianeti del sistema Trappist-1 sono distanti circa 3,78432^14 km, vale a dire 378.432 miliardi di km. Un’astronave che viaggiasse a 28.000 km/h impiegherebbe 1.542.857 anni per un viaggio di sola andata. Pare di essere in un racconto come I sette messaggeri di Dino Buzzati: nell’immensità dello spazio e del tempo i contatti si perdono, i messaggi diventano sempre più rari, le voci si affievoliscono fino a tacere per sempre.

Risparmio infine al lettore tutte le barzellette -politiche o meno- che hanno preso spunto dalla vicenda, e vengo al cuore del problema. Io non credo che questa scoperta sia superflua, e nemmeno che siano stati soldi sprecati. Al di là di tutti i discorsi che possiamo fare sull’allocazione più o meno giusta delle risorse, noi esseri umani siamo una incoercibile sete di infinito, di scoperte, di “oltre”. Una vita o una civiltà che si condannassero a non scoprire nulla sono sterili e morte già in anticipo. Con buona pace di Dante, le umane genti non si accontentano del “quia”, o quanto meno desiderano scoprire cosa c’è oltre l’orizzonte (lo stesso Dante ha reso Ulisse una figura immortale proprio per il suo tentativo di andare oltre).

In secondo luogo, sono proprio le scoperte apparentemente più astratte ad aprire la strada a sviluppi imprevedibili fino a quel momento. Senza scomodare Einstein e la teoria della relatività, basti pensare alla scoperta delle onde radio da parte di James Clerk Maxwell: fu una scoperta “a tavolino”, ma quanta strada si è fatta da allora in poi! Oppure diamo un’occhiata alla macchina di Turing, un modello teorico senza il quale i computers non sarebbero nemmeno pensabili (incluso quello con cui sto scrivendo e quelli di voi che mi state leggendo). Cosa sappiamo degli sviluppi che potrebbe avere la scoperta delle onde gravitazionali sugli spostamenti tra le varie parti dell’Universo?

In terzo luogo, tanta insistenza quasi spasmodica nel voler trovare la vita al di fuori della Terra dovrebbe farci riflettere. Questa ansia rivela un altro dei bisogni fondamentali del genere umano, quello di socializzare, di condividere la propria esistenza anche oltre i confini del proprio pianeta. Non importa se, come ci ha avvertito Stephen Hawking, il contatto con gli alieni potrebbe essere pericoloso. L’importante è scoprire l’Altro perché attraverso questo incontro si approfondisce la conoscenza della realtà e si arriva a capire sempre più chi siamo noi.

Anche qui, tuttavia, non si può fare a meno di notare una profonda contraddizione: quelle poche cellule che su Marte o sui sette pianeti farebbero gridare al miracolo della vita, sulla Terra, nel ventre di una donna, sono considerati niente altro che un grumo di cui ci si può disfare e ci si disfa a piacimento. È la prova che il nostro sguardo sulla realtà non è tanto di stupore quanto di pretesa e di dominio.

I sette pianeti del Trappist-1, forse per loro fortuna, sono al di là della nostra portata almeno per il prevedibile futuro. Non sappiamo cosa potrà venire da questa scoperta, ma di fronte all’ignoto la parola più vera spesso spetta al poeta più che allo scienziato. Per questo mi piace concludere con questi splendidi versi che fanno giustizia di molte sciocchezze e di molte saccenti obiezioni:

(…) Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
che è una stoltezza dirselo.
(Eugenio Montale, “Satura”)


Giovanni Romano

martedì 21 febbraio 2017

La guerra delle palme



«I turbamenti e le sofferenze dovuti all'immigrazione sono già in atto»
(Card. Giacomo Biffi, «Sulla immigrazione», settembre 2000)

Chi avrebbe mai pensato che la trovata delle palme in Piazza Duomo a Milano avrebbe destato tante polemiche, tanto risentimento e tanta rabbia sfociati addirittura in un attentato incendiario? Si noti che ho evitato di proposito le parole «odio» e «razzismo» che sono in realtà comode scappatoie per non comprendere il disagio che cova dietro questa vicenda assurda solo in apparenza.

Come mai questa installazione è stata avvertita come un'imposizione, quasi come una violenza culturale inflitta alla città di Milano, alla sua storia e al suo habitat? Non è forse vero, come ha dimostrato l'amministrazione Sala, che le palme erano state installate in quella stessa piazza già alla fine dell’800 senza che a nessuno fosse venuto in mente di protestare?

A parte il confronto tra le due foto, in cui la presenza delle palme a fine ‘800 era molto più discreta di quella odierna (a mio giudizio assai pacchiana), c’è da tenere conto che il contesto storico-culturale è profondamente mutato. L'Italia di allora era un paese colonizzatore cui le palme non facevano impressione, anzi rappresentavano una sorta di trofeo. Quel che è «esotico» e «coloniale» è remoto per definizione, collocato a distanza di sicurezza in un remoto spazio fisico e mentale, che desta tutt'al più curiosità se non un certo orgoglio. Oggi invece l'Italia è un paese invaso da folle di «migranti» che vengono avvertiti come una minaccia, una prepotenza, una prevaricazione anche culturale con particolare riferimento all'islam.

Probabilmente nessuno dei tanti che predicano contro l' «odio» e il «razzismo» ricorda - o vuole ricordare - che nel novembre 2009 migliaia di islamici, in spregio ai divieti della Prefettura, ruppero i cordoni della polizia e invasero il sagrato di Piazza Duomo per farne un luogo di preghiera musulmano. Fu un inequivocabile gesto di sopraffazione e intimidazione verso i cristiani. Forse è proprio questa presenza sempre più ingombrante ad aver scatenato l'avversione e i sarcasmi contro le palme. Anche le immagini caricaturali del Duomo trasformato in moschea diventano molto più comprensibili in questa prospettiva.

A ciò si aggiunga il fatto che a volere le palme non è stato tanto il Comune ma la multinazionale americana Starbucks che ha dichiarato apertamente di voler assumere solo personale straniero in nome della «lotta-al-razzismo-all'omofobia-al-bullismo-alla-xenofobia-e-all'intolleranza-ecc.-ecc.-ecc.». I milanesi - o quanto meno un gran numero di loro - si sono sentiti dunque emarginati due volte: economicamente perché una multinazionale estera ha imposto il proprio progetto con la sua forza economica, e culturalmente perché sono costretti anche a sorbirsi i fervorini politicamente correttissimi di una cultura omologante che li espropria della loro identità.

Bruciare le palme, però, a parte essere un gesto tanto violento quanto stupido, è soprattutto sintomo di debolezza, di un’impotenza sempre più diffusa che non trova vie culturali o politiche per manifestarsi, della perdita di controllo sul proprio destino e sulla propria economia. Un segnale di conflitto e di disagio che non dovrebbe essere sottovalutato.


Giovanni Romano