mercoledì 14 novembre 2012

Perché Voltaire è ancora con noi?


François-Marie Arouet, detto Voltaire, è doppiamente un mostro sacro. Lo è per coloro che lo difendono e lo citano a ogni pie' sospinto, ma lo è altrettanto – in negativo, ovviamente – per coloro che lo attaccano e cercano di sminuirne l'influenza o quanto meno la reputazione.

In effetti c'è molto da attaccare in Voltaire. Mai la sua tanto conclamata “tolleranza” si indirizzò verso i cattolici che venivano perseguitati per la propria fede, fossero in Inghilterra o in Giappone (si veda il “Dizionario filosofico” alla voce omonima, dove arrivò a plaudire apertamente alla spaventosa strage dei cristiani che si verificò nel 1637 e nella quale perirono 30.000 cattolici). È ormai dimostrato che non scrisse mai le arcinote parole “Detesto ciò che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. Appoggiandosi alle sue amicizie altolocate e al suo cospicuo patrimonio non esitò a schiacciare e a stroncare la carriera di tutti gli scrittori che avrebbero potuto fargli ombra, per non parlare di come distrusse la reputazione di Jean-Jaques Rousseau con i suoi velenosi libelli anonimi.

Era un aperto antisemita (anche qui basta leggere il “Dizionario filosofico”) e in barba alle sue commoventi pagine sull'uguaglianza considerava i neri come una razza culturalmente e biologicamente inferiore. Molto abile e spregiudicato negli affari, si arricchì con oculati investimenti nelle compagnie che commerciavano lo zucchero. Peccato sapesse benissimo quanto questo commercio dipendesse dalla tratta e dallo sfruttamento degli schiavi. In campo scientifico non ebbe una sola idea originale, al massimo si limitò a essere un divulgatore scientista, una specie di Piero Angela ante litteram.

Com'è possibile dunque che una figura del genere possa essere un punto di riferimento culturale, un'ispirazione, una pietra d'inciampo con la quale bisogna fare i conti, volenti o nolenti? È solo perché riuscì a trovare gli slogan adatti a un'epoca sempre più intellettualmente orgogliosa, anzi autoreferenziale fino alla vanità? È solo perché ha saputo solleticare la mai sopita tentazione dell'uomo di fare a meno di ogni riferimento trascendente e d'incoronarsi Dio? (“No, non guardare il cielo! Guarda quanto è grande il mio cervello!”). È solo perché, banalmente, ha predicato bene anche se ha razzolato male?

In realtà c'è più di questo, una ragione più profonda che probabilmente è il segreto del successo e della permanenza di Voltaire. Se si leggono bene i suoi scritti, specialmente quelli polemici, al fondo c'è un acuto senso del dolore e la consapevolezza di una dignità ferita. Poco importa qui che il dolore degeneri in rabbia velenosa, e che il senso della dignità ferita si trasformi fin troppo facilmente in un egocentrismo cinico e smisurato: il sostrato autentico c'è, la ferita è aperta. Chi legge il Candido, ad esempio, con i suoi personaggi senza alcuna profondità né vita interiore, sballottati tra vicissitudini tanto improbabili quanto crudeli come nei romanzi di Sade, a un certo punto si imbatte in una figura impressionante, in un personaggio descritto con troppa partecipazione per essere solo una macchietta ideologica: il dottor Pangloss ormai povero e mendìco, come se in lui si concentrasse tutto il dolore per un destino incomprensibile, per una di quelle cadute senza riparo nella malattia e nella miseria che nel XVIII secolo erano all'ordine del giorno (e non solo allora, ci stiamo ritornando).

È questo senso di desolazione, di ingiustizia subita e di rivolta contro l'assurdità del reale, ben più che il valore della sua filosofia, che è forse il nocciolo autentico della permanenza e della vitalità di François-Marie Arouet, detto Voltaire.

Giovanni Romano

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