In questo periodo la mia presenza sul blog è fatta sempre più scarsa, sia per la mia connaturata pigrizia sia per motivi di studio. Ho ritrovato tra i miei documenti una lettera (non pubblicata) che inviai ad Avvenire il 2 settembre del 2011 (!) su uno scambio di lettere tra Biagio Marin e Prezzolini. Il tema però mi sembra non avere perso nulla della sua attualità, per questo lo ripropongo qui.
Caro Direttore,
lo so, ci sono ben altri argomenti di
cui trattare, e riprendere dopo quasi due mesi l'articolo “Prezzolini
e Marin, lettere dell'amicizia” (15 luglio scorso) può
sembrare un'oziosa perdita di tempo. Ma gli argomenti –
l'interpretazione del Concilio, la fede, la modernità e la Chiesa
cattolica – sono di quelli che non passano, e dà tristezza vedere
con quanta superficialità non scevra di superbia Biagio Marin abbia
“liquidato” la Chiesa e la cultura che nasce dalla fede, con
accuse che Marco Roncalli ha definito giustamente “assurde”. Non
si tratta però di una semplice questione di temperamento. Le radici
del suo pensiero e gli esiti cui ha condotto si sono dimostrati
disastrosi per il cristianesimo e per l'uomo come tale.
Ho conosciuto per mia sfortuna uno di
quei preti “più liberali dei laici” auspicati da Marin. Tutti lo
stimavano e ammiravano il suo “anticonformismo” che in pratica
consisteva nello scagliarsi spesso contro le gerarchie ecclesiastiche
e il Magistero, senza mai criticare gli esiti più aberranti e
disumani del laicismo secolarista. La gente concentrava la sua
ammirazione su di lui, ma il sacerdote non faceva quasi nulla per
richiamarli a Cristo. Uomo di singolare aridità spirituale (la sua
cristologia era praticamente inesistente,e su questo ritornerò),
della sua parrocchia aveva fatto un deserto, e i pochi rimasti si
sentivano autorizzati a disprezzare i fedeli di tutte le altre
parrocchie perché loro soli si sentivano “veri” cristiani, loro
soli avevano il “coraggio” di contestare la gerarchia, loro soli
erano gli “adulti” che “avevano capito che cosa fosse “il
vero cristianesimo” che non aveva bisogno di statue, processioni,
rosari e forse anche preghiere tout court
(a me fu sconsigliato di dire l'Angelus
tre volte al giorno, del rosario si rideva apertamente). Si
insisteva molto sulla Bibbia, ma solo per trovare conferme a quello
che già si pensava. Senza accorgercene stavamo diventando una
congregazione protestante. Si era dimenticata la disarmante
riflessione di C.S. Lewis nelle “Lettere di Berlicche”: “Non
far mai venire in mente al tuo paziente che se Dio ha avuto
misericordia di lui, ne ha avuta altrettanta per il droghiere un po'
viscido che gli siede accanto nel banco”. Fortunatamente alcuni
incontri con quelli che Marin avrebbe bollato come dei cattolici
“libidinosi di potenza” mi fecero riscoprire la bellezza del
cattolicesimo e la ragionevolezza della fede cristiana. La mia vita
prese una strada meno segnata dal lamento e dalle recriminazioni.
È fin
troppo facile liquidare la teologia come “un farnetico da pazzi”
dimenticando che essa esprime potentemente la tensione dell'uomo
verso l'infinito. Solo Goethe si poté permettere di lasciar cadere
la teologia per far intraprendere a Faust la sua grandiosa avventura,
ma alla teologia dovette ritornare con la preghiera finale del Doctor
Marianus. La strada più comoda,
quella che prese Marin - e più di recente Ermanno Olmi con
“Centochiodi” - fu
invece quella di sbarazzarsi delle domande per non sentirsene
interpellati.
Particolarmente
allarmante e al tempo stesso rivelatrice è la rivolta contro la
cristologia, cioè contro l'umanità di un Dio che ha accettato - e
redento – la carne in tutta la sua concretezza, in tutta la sua
fatica, in tutto il peso del suo limite. È più comodo un Dio
ridotto a Parola, il dio del Libro al quale si può far dire tutto
quel che ci piace sentirci dire. È facile leggere Meister Eckhart –
il sermone “Sulla povertà”
l'ho letto anch'io –, inebriarsi con gli straordinari voli della
sua altissima intelligenza speculativa, e alla fine sentirsi
autorizzati a essere “liberi da Dio”. Un cristianesimo “dalle
nuvole in su” che fa molto comodo a chi detiene il potere su questa
terra.
L'accusa
non solo più assurda ma anche più ingiusta che Marin poteva muovere
alla Chiesa è di concedere valore a una persona quasi a proprio
arbitrio. La Chiesa non attribuisce, ma riconosce
il valore infinito di ogni persona, e per essa – come per il suo
Signore – davvero “Nessuno (…) è abbastanza idiota, che essa
non lo possa consacrare 'sacerdos'”. Marin lo scrive con sarcasmo,
ma se la Chiesa discriminasse come lui e si rivolgesse solo agli
“intelligenti” o agli immancabili “onesti” non avrebbe mai
ordinato un santo come il Curato d'Ars, e Cristo si sarebbe scelto
altri discepoli.
C'è soltanto da
rabbrividire nel constatare quanto si sia fatta strada la mentalità
di cui Marin era antesignano forse inconsapevole, e a quali esiti
stia conducendo. È il mondo, non la Chiesa, ad essersi arrogato
“empiamente” il diritto di stabilire chi è abbastanza
intelligente, bello, prestante per nascere o per essere tenuto in
vita. A questa deriva non può essere argine sufficiente un generico
“senso religioso” o un'ammirazione intellettuale per i Vangeli.
Può esserlo solo la concretezza di un Fatto che vive nei Sacramenti
(e qui l'accusa di “sacramentalismo magico” sfiora la blasfemia).
Se è sbagliato idolatrare l'istituzione e dimenticare lo Spirito,
altrettanto grave è denigrare sistematicamente la forma storica e
dunque reale che Cristo stesso ha stabilito per la
trasmissione del suo messaggio. Anche perché spesso e volentieri si
scambia per voce dello Spirito quello che passa per la testa a noi...
Un'ultima
osservazione a proposito di Prezzolini. Alcuni dei suoi giudizi sulla
“protestantizzazione della Chiesa” sono particolarmente acuti, e
seppe vedere la deriva dove Marin e tanti altri vedevano solo
progresso. Ma anche lui partiva da presupposti laici di pura
efficacia storica che non gli facevano cogliere in pieno la portata
del fatto cristiano. Non si può essere semplicemente “cattolici
alla vecchia maniera”. Qualsiasi aggettivo, qualsiasi
specificazione accanto alla parola “cattolico” è altamente
pericolosa perché ne mutila l'universalità e l'asservisce a un'idea
di parte. La riscoperta del sacro, in sé indispensabile, passa dallo
stupore di un incontro inaspettato, da una vita che cambia
imprevedibilmente, da una circostanza in cui si vede all'opera una
forza che non è nostra. Le forme sono destinate a isterilirsi in due
casi: o quando si perde di vista l'essenziale o quando si resta
abbarbicati alla lettera dimenticando la fantasia creatrice di Dio.
Peccato che questo sia sfuggito a due uomini di valore come Marin e
Prezzolini.
Cordiali saluti,
Giovanni Romano