venerdì 27 marzo 2015

WARUM? POURQUOI? ¿POR QUÉ?





Una sola domanda, enorme, intollerabilmente angosciosa, sarà esplosa nella mente di chiunque abbia appreso la terribile verità sullo schianto dell'Airbus A320 martedì 24 marzo: PERCHÉ?

Non un attentato, non un guasto tecnico, non il gesto di un kamikaze impazzito. Qualcosa di molto più sinistramente “unerklärlich”, inspiegabile. La depressione del secondo pilota, la follia che lo ha portato a distruggere non solo la propria vita, ma centocinquanta suoi fratelli. E non gli importava che tra questi ci fossero due neonati. Non gli importava che sterminasse un'intera scolaresca di giovani e ragazze che avevano il diritto di aspettarsi tutto dalla vita. Non gli è importato di niente e di nessuno, di se stesso meno di tutti. 

Il dolore cola dentro le menti come una marea nera, diffonde un senso d'impotenza, una cupa diffidenza, allontana ancora di più noi esseri umani gli uni dagli altri. E forse è da qui che dobbiamo partire per capire, se non i moventi, almeno da dove nasca questo mysterium iniquitatis. In fondo, non ha importanza se lo schianto sia stato provocato da un attentato terroristico o dalla paranoia di uno solo. Non a caso i fondamentalisti islamici hanno empiamente esultato per un disastro che non sono stati loro a provocare. La radice comune è l'odio contro la vita, il desiderio di distruggere una realtà che si avverte come insopportabile. Come scriveva Hannah Arendt, l'uomo moderno vive nel rancore contro tutto ciò che gli viene semplicemente, misteriosamente dato.

Ora naturalmente si correrà ai ripari, ma sembra più che altro una corsa affannosa per tappare i buchi dai quali può affacciarsi l'imprevedibile. Dopo l'11 settembre si era provveduto a blindare e sigillare le porte delle cabine di pilotaggio, e nessuno poteva prevedere che proprio questa precauzione sarebbe diventata l'opportunità per compiere un'altra strage. Ora si vieterà che in cabina resti una sola persona, ma una mente deviata trova sempre la strada per raggiungere il suo scopo.

Questo disastro è una durissima lezione sotto molti aspetti. In primo luogo sulla follia e sul male che non è possibile esorcizzare o medicalizzare. Il secondo pilota aveva attraversato una grave depressione, si è detto. Era guarito, si è detto. Ma la sua malattia, il suo rovello interiore erano rimasti, sotterranei come un fiume carsico, pronti a colpire come un pugnale nel fodero. E questo pone dei problemi anche morali sulla depressione e sulla malattia mentale in generale. Con buona pace di Basaglia, come mai nessun depresso diventa più buono, più altruista, più generoso? Come mai diventa una bomba ambulante di odio pronta a distruggere se stesso e gli altri?

In secondo luogo, questo comportamento è figlio di una cultura dell'isolamento, dell'onnipotenza individuale coltivata a dispetto di tutto e di tutti. Se la cultura dominante prende in considerazione soltanto i “diritti”, perché mai dovrei sentirmi responsabile per gli altri? Se sto male mi faccio uccidere con l'eutanasia, se una nuova vita viene a scombinarmi le vacanze la abortisco, se il male di vivere diventa troppo forte butto giù il muso dell'aereo e mi vado a schiantare. Tutto qui. Tutto orribilmente banale. Più soli di così, più tristi di così, più fragili e pericolosi di così è difficile immaginare.

“Solo un Dio ci può salvare. Occorre preparare l'attesa”. (Martin Heidegger)

Giovanni Romano

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