venerdì 29 luglio 2022

Il caso Meade: quando il tempo NON è galantuomo

 


La battaglia di Gettysburg (1-3 luglio 1863) non fu soltanto la più sanguinosa in assoluto della Guerra di Secessione, fu anche la battaglia che decise il corso del conflitto a favore degli stati del Nord. Avesse vinto il generale Lee, probabilmente i sudisti sarebbero stati in grado di marciare fino a Washington e imporre quanto meno un trattato di pace che avrebbe costretto gli unionisti a riconoscere la Confederazione. Le cose, come sappiamo, andarono diversamente: i sudisti furono fermati con gravissime perdite da cui l'esercito di Lee non si riprese più. Da quel momento in poi l'iniziativa passò definitivamente nelle mani dei nordisti che due anni dopo costrinsero il Sud alla resa.

Le perdite, come si è detto, furono terribili da ambo le parti, e quasi uguali: 23.055 per il Nord, 23.231 per il Sud (tra morti, feriti e dispersi), ma il Nord era più popoloso, il suo esercito era meglio equipaggiato, con una struttura industriale più sviluppata così che poté rimpiazzare le perdite e passare all'offensiva, mentre il Sud da quel momento dovette ripiegare su una difensiva oramai senza più prospettive.


La battaglia, però, fece un'altra vittima nel campo nordista: proprio il generale che l'aveva vinta, George G. Meade. Dapprima fu acclamato come un eroe, e quasi subito divenne bersaglio di una violenta campagna denigratoria che ne sminuì il ruolo e ne macchiò la reputazione ben oltre la morte. Solo in tempi molto recenti si sta finalmente rivalutando non solo la sua azione di comando a Gettysburg ma anche il suo valore come stratega.



Può sembrare strano che Meade non sia stato pubblicamente rivalutato oggi, in un'America completamente in preda alla cancel culture, in cui si stanno rimuovendo sistematicamente le statue dei generali sudisti e ogni documento di parte confederata. Come mai allora, ci si chiede, non celebrare proprio il generale che vinse gli schiavisti del Sud? (Ironia della sorte: tanto Lee quanto "Stonewall" Jackson erano personalmente contrari alla schiavitù).

La storia è raccontata in un lungo articolo di Historynet.com, che mi ha dato da pensare per via del terribile potere che può avere una stampa irresponsabile e faziosa nel falsare deliberatamente la verità e peggio ancora farla passare nei libri di storia.


Ma procediamo con ordine. Com'è noto, l'episodio culminante della battaglia di Gettysburg fu l'inutile carica dei virginiani del generale Pickett contro le linee nordiste, che si risolse in un massacro e costrinse i sudisti a ripiegare. Ma la battaglia era stata in bilico nei due giorni precedenti, con scontri estremamente sanguinosi che avevano visto vacillare i nordisti più di una volta. Un comandante nordista, in particolare, il generale Daniel Sickles, contravvenne agli ordini di Meade e fece avanzare isolatamente il suo corpo d'armata, creando un pericoloso vuoto nella linea del fronte ed esponendo le sue truppe agli attacchi dei sudisti da ogni direzione. L'intero esercito nordista si trovò in pericolo di accerchiamento, e fu solo la prontezza di Meade nell'afferrare la situazione e inviare immediatamente rinforzi nel punto critico a impedire lo sfondamento dei sudisti. In questo scontro particolarmente cruento Sickles perse una gamba per un colpo di cannone.

Ma la cosa era destinata ad avere uno strascico ben più amaro. Dopo la battaglia, passato l'entusiasmo iniziale, Meade venne criticato per non avere immediatamente incalzato i sudisti ormai quasi in rotta. In verità anche le sue truppe, per quanto vittoriose, erano decimate e sfibrate, non certo in grado di condurre un inseguimento. Fu forse per questo motivo che il presidente Lincoln, particolarmente severo coi suoi generali, nominò comandante supremo quello che sarebbe stato il vincitore della guerra, Ulysses S. Grant, che con la sua energica azione mise rapidamente in ombra Meade, il quale, tuttavia, anche da subordinato collaborò sempre lealmente con lui.

Ma la vera battaglia di Meade, da quel momento in poi, si svolse sui giornali e negli uffici del Ministero della Difesa. A guidare il fronte dei diffamatori fu proprio Sickles (ex membro del Congresso prima della guerra, con importanti appoggi politici), che una volta rimessosi dall'amputazione cominciò ad attaccare il suo ex-superiore con articoli e lettere, rivendicando meriti inesistenti. Grant fece ben poco per difendere Meade, ache se più di una volta lo assicurò - ma sempre in privato - della sua stima e della sua amicizia, e se non altro fece in modo che Lincoln lo promuovesse di grado, sia pure inconcepibilmente in ritardo rispetto ad altri comandanti meno meritevoli di lui.

Triste a dirsi, le voci di discredito seminate da Sickles trovarono ampia eco nella stampa, Meade divenne da un giorno all'altro un inetto, un vigliacco, un incapace che si era lasciato sfuggire la vittoria definitiva, e peggio ancora che aveva messo in pericolo lui, Sickles, lasciandolo solo a combattere eroicamente contro l'intero esercito sudista.

Meade, da persona riservata e seria qual era, non replicò mai a questi attacchi sulla stessa scala di Sickles, salvo sfogarsi privatamente con la moglie e protestare in via amministrativa con il Ministero della Guerra, e fu costretto addirittura a difendersi di fronte a una commissione d'inchiesta che se non altro appurò qualcuna delle menzogne di Sickles. Il generale concluse la guerra sempre al fianco di Grant, che non invitò né lui né il suo stato maggiore alla cerimonia della resa di Appomattox il 9 aprile 1865. Meade morì quasi dimenticato il 6 novembre 1872; Sickles, che fino all'ultimo lo coprì di fango, morì ultanovantenne nel 1914.

Il lato più deprimente di questa vicenda è che per molto tempo le calunnie di Sickles passarono dai giornali ai manuali di storia, tanto da aver sminuito il ruolo e la figura di Meade fino ai giorni nostri. Per questo l'articolo mi ha colpito: è fin troppo evidente come una stampa completamente asservita e irresponsabile può accodarsi a una versione distorta dei fatti, assassinare una personalità, falsificare la storia e far diventare verità le menzogne più grossolane. E non esistevano ancora i social!

I paralleli con la recente storia italiana sono fin troppo ovvi. Quante personalità, da Craxi ad Andreotti fino a Berlusconi, sono state ignobilmente mostrificate dai media? Quanti studiosi sono stati accusati di "putinismo" solo per aver portato alla luce fatti scomodi? Meade ha dovuto aspettare più di un secolo e mezzo perché almeno si iniziasse a riabilitare la sua memoria, ma una attesa così lunga smentisce l'idea che il tempo è galantuomo, perché intere generazioni di americani si sono succedute nella convinzione che egli fosse quasi il responsabile di una sconfitta anziché il generale della vittoria.

E noi, quanto dovremo aspettare per un giudizio più sereno e obiettivo sulla nostra storia?

Giovanni Romano

mercoledì 20 luglio 2022

La Chiesa e "l'effetto Mullah"


Un'antica favola persiana, probabilmente di fonte sufi, narra che una volta su un villaggio cadde una strana pioggia. Tutti gli uomini che bevvero di quell'acqua impazzirono, si mettevano a ridere sguaiatamente e senza motivo, facevano boccacce, urla e capriole, nessuno più badava a lavorare. L'unico che non l'aveva bevuta era il mullah, che cercò invano di riportare alla ragione i suoi compaesani, disperato di vederli ridotti in quello stato. Alla fine, stanchi delle sue prediche e dei suoi ammonimenti, gli uomini lo afferrarono e tra lazzi e risa sgangherate lo buttarono dentro un vecchio pozzo dicendogli che l'avrebbero tirato fuori di lì quando avesse recuperato la ragione.

Rimasto solo in fondo al pozzo, il mullah rifletté: "Qui dentro finirò per morire di fame e di sete. Chi me l'ha fatta fare a restare diverso dagli altri? Tanto vale che anch'io mi comporti come loro, forse mi tireranno fuori di qui". Vide che sul fondo del pozzo era rimasta un po' di quell'acqua e ne bevve. Subito impazzì anche lui e si mise a ridere, a fare capriole, smorfie e boccacce come tutti gli altri.

Quando videro questo, i compaesani si dissero: "Meno male, è tornato in sé", e tra lazzi e sghignazzate lo tirarono su e lo riportarono in trionfo alla moschea, dove lui riprese il suo posto. E tutti - non c'è bisogno di dirlo - vissero felici e contenti perché era venuto a mancare l'unico che potesse farli accorgere di quanto in realtà fossero alterati.

Questo apologo, a ben guardare, va oltre la scontata affermazione secondo cui in un paese di folli l'unica persona rimasta sana di mente passa per un pazzo. La sua morale è che bisogna adeguarsi alla pazzia per essere accettati dagli altri e conservare il proprio ruolo sociale. Più a fondo, il racconto sottintende che il mondo è una gabbia di matti dove le prediche di un mullah sono considerate folli quando è serio, serie quando è folle. La verità, ammesso che esista, se c'è non ha importanza ed è completamente inefficace nelle vicende umane. Meglio adeguarsi dunque, meglio seguire la corrente fino al punto di convincersi che quella sia la normalità.

Dal punto di vista cristiano, e anche da quello più generale del primato della coscienza ereditato dalla filosofia greca (il paragone con il mito della caverna di Platone è fin troppo ovvio) questa favoletta è la più completa e coerente apologia del relativismo nella quale mi sia stato dato di imbattermi. Richiamarsi alla verità non solo è folle, non solo è controproducente ma è soprattutto inutile, perché gli uomini non sono in grado né di vederla né di capirla. Qui l'apologo mostra in modo nemmeno troppo velato il suo disprezzo tanto verso la ragione quanto verso il cuore: la sua morale è il contrario esatto del martirio perché il martire (non a caso, etimologicamente, "il testimone") non solo affida completamente e irrevocabilmente il suo destino a Uno al di fuori di sé, indipendentemente dal consenso della comunità, ma con il suo gesto fa appello alla coscienza e alla ragione di chi rimane, nella speranza che qualcuno possa almeno rimanere colpito dal suo sacrificio e interrogarsi. Grazie alla resa del mullah gli uomini del villaggio restano invece prigionieri della loro "normalità", e proprio il momento della sua accettazione e del suo trionfo apparente è il momento in cui va definitivamente perso quel poco che restava di evidenza e di ragione.

Cosa c'entra tutto questo con la Chiesa? Temo che c'entri anche troppo. La Chiesa di Papa Francesco sembra trovarsi nella stessa condizione di quel povero mullah. Due o tre secoli di continue lotte contro il libertinismo, il laicismo illuminista, il marxismo e buon ultimo il relativismo hanno forse finito per sfibrarla e demoralizzarla nella misura in cui il suo sguardo è diventato più mondano. Vistasi del tutto ignorata e vilipesa, una buona fetta dei suoi membri, e non dei meno importanti, ha deciso di adeguarsi, di accontentarsi di un ruolo di "ospedale da campo", di denunciare quel che già denunciano tutti, di condannare quel che già condannano tutti, di accettare quel che già accettano tutti. Proprio il contrario di quanto aveva intuito il genio di T. S. Eliot: "La Chiesa è dura dove gli uomini la vorrebbero tenera, e tenera dove gli uomini la vorrebbero dura".

Non è un andazzo nato con questo pontificato, anche se proprio sotto Papa Francesco è stato favorito, amplificato, esasperato fino a diventare la norma. Un prete avido di denaro, un cardinale assetato di potere sono pessimi esempi di mondanizzazione, siamo d'accordo. Ma non lo sono forse altrettanto quei preti, quelle suore, quei laici che benedicono le unioni gay e peggio ancora gli uteri in affitto? Non è forse mondanizzazione pensare - in diretto contrasto col Vangelo - che l'uomo si salva o si danna secondo quel che mangia e beve, come pensano fin troppi cattolici vegani? Non è forse mondanizzazione l'indifferenza o peggio ancora il fastidio di troppi cattolici, ecclesiastici e laici, verso chi si richiama ai principi non negoziabili: vita, famiglia, libertà di educazione?

Il problema, a ben guardare, non riguarda coloro che sono fuori dalla Chiesa e che per giunta non vengono affatto richiamati ad aderire ai suoi insegnamenti ("per non turbare le coscienze", in nome del "dialogo"). Il problema si è inasprito all'interno stesso della Chiesa. Chi ha bevuto l'acqua intossicata del relativismo pensa di essere più libero, più felice, più "aperto" rispetto a chi è rimasto "rigido", "dogmatico", "fariseo" (tutti epiteti distribuiti con grande prodigalità da questa Chiesa tanto "misericordiosa"). Ma a differenza del mullah e del suo apologo, non a caso nato in una cultura che ha come valore assoluto la sottomissione, più d'uno nella Chiesa ha rifiutato di bere quell'acqua e continuerà a farlo, consapevole che la sua dignità e il suo destino non si basano sul successo o sul consenso del villaggio, matto o ragionevole che sia.

Giovanni Romano

sabato 9 luglio 2022

"NATURE" contro natura

Poco tempo prima che la sentenza della Corte Suprema USA ripristinasse il diritto a vivere dei bambini non nati ribaltando la Roe vs. Wade, mi ero imbattuto in questo articolo, probabilmente della rivista Nature:




Com'è ovvio, ciascuna delle due parti ha mobilitato i propri esperti, e questo lungo articolo elenca tutta una serie di ragioni per cui l'aborto sarebbe medicalmente, moralmente e persino economicamente (!) benefico per la società.

Non starò a riassumere questi argomenti, ciascuno può andare a leggerseli sull'articolo che ho citato. Ma ciò che mi ha lasciato realmente esterrefatto è stata una nota finale del curatore, così politicamente corretta che più corretta non si può, un'affermazione scientificamente così infondata e ridicola da fare strame di tutte le argomentazioni addotte in precedenza. Eccola:


A beneficio di chi non conosce l'inglese, traduco:

Nota del curatore: Nature riconosce che gli uomini transgender e le persone non-binarie possono diventare gravidi e avere bisogno dell'assistenza medica con l'aborto. In questo articolo noi usiamo il termine "donna" per rispecchiare il modo in cui i partecipanti vengono menzionati negli studi che citiamo, e come ci si riferisce a queste persone negli atti del tribunale.

La sottolineatura e l'evidenziazione sono mie.

Qui si va contro la più elementare evidenza scientifica perché si parla esplicitamente di uomini (lasciamo perdere la categoria nebulosa delle "persone-non-binarie") che "potrebbero diventare gravidi". Anche se si favoleggia di devastanti quanto improbabili interventi chirurgici, l'uomo non può diventare gravido. In questo modo non solo si violenta la scienza, ma si opera una ulteriore violenza semantica: il termine "donna", in questo contesto, diventa una mera convenzione, con il risultato di cancellare la sua identità, il suo volto, la sua dignità.

Non so se questo mettere le mani avanti sia stato dettato ai redattori dalla convinzione ideologica (certamente non dall'esperienza) oppure, più probabilmente, dalla paura degli attacchi violentissimi della lobby lgbt. Una cosa è certa: se la scienza deve piegarsi all'ideologia e alla paura ha già abdicato al suo ruolo, e la sua ritirata segna l'inizio di nuovi Secoli Bui, ben peggiori di quelli che si attribuiscono falsamente al Medioevo.

Giovanni Romano