trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera."
Nella brevissima, folgorante poesia di Quasimodo c'è un particolare che denota tutta la sua statura di poeta e la sua finezza d'animo. Si tratta dell'ultima parola che ha adoperato: «sera».
Perché, viene da domandarsi, dopo l'immagine struggente del raggio di sole il poeta non ha usato la parola «notte»? Eppure è questa la parabola più ovvia dell'essere umano, così come è stata descritta da Samuel Beckett in Aspettando Godot, con immagini solo apparentemente simili a quelle di Quasimodo: «They gave birth astride of a grave, the lights gleam an instant, then it's night once more» («Ci han fatti nascere a cavalcioni di una tomba, le luci brillano un istante, poi è notte ancora una volta»).
Il motivo di questa diversità è duplice. Dal punto di vista della tecnica poetica, la parola «notte» avrebbe fatto precipitare il verso in un brutale anticlimax: cosa c'è di più ovvio, di più inevitabile della notte? La riflessione di Beckett si salva dalla banalità solo per la potente immagine della nascita a cavalcioni di una tomba e il brillare delle luci, non per la sconsolata conclusione.
Il secondo motivo è più profondo: la sera appartiene ancora all'uomo, è il suo ultimo spazio cosciente di riflessione, il suo ultimo appiglio verso la vita che ha vissuto, la finestra aperta verso il mistero che lo attende. Basta confrontare questa poesia con altri due grandi classici sul tema: Alla sera di Ugo Foscolo e la stupenda Viene adagio la sera di Rainer Maria Rilke. La notte può essere anch'essa oggetto di grande poesia (come nello splendido Notturno di Saffo), ma è il regno di forze primigenie ormai al di fuori dell'uomo, il regno della Necessità e non più quello della Libertà.
Scrivendo Ed è subito sera, Quasimodo ha compiuto il più bel gesto di fronte al destino che un poeta agnostico potesse compiere: non ci ha consegnati alla notte, ci ha congedati con un ultimo, tenace, indimenticabile barbaglio di vita.
Giovanni Romano