“Nell’arte non c’è fascismo - Nel fascismo non c’è arte”
Pur nella sua compatta brevità, questo libro ripropone una questione tanto annosa quanto fondamentale: è possibile fare arte sotto una dittatura? In che modo le opere risentono dei vincoli ideologici, economici e anche polizieschi del regime nel quale l’artista si trova a operare? Cosa ne è della sua personalità, a quali compromessi deve scendere pur di lavorare e soprattutto di creare?
La risposta non è scontata come potrebbe far credere il sottotitolo, che all’apparenza esibisce impeccabili credenziali antifasciste. Prima di tutto bisognerebbe chiedersi: dove comincia l’arte e dove finisce il fascismo? È possibile separarli in modo così netto? Non potrebbe darsi che un movimento politico sia così coinvolgente per un artista da ispirare direttamente la sua creatività? Reciprocamente: il valore di un movimento politico si misura dalla levatura degli artisti che vi aderiscono?
Prendiamo un caso eclatante di conflitto tra arte e propaganda: l’URSS, e in particolar modo l’Unione sovietica ai tempi di Stalin. È indubbio che almeno all’inizio il comunismo, o meglio la causa della rivoluzione, mobilitò il cuore, la creatività e l’intelligenza di artisti di prim’ordine come Esenin, Majakovskij, Babel’, Blok, Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, per fare solo alcuni nomi. Quasi tutti loro, però, andarono incontro a una fine tragica: perirono suicidi, morirono anzitempo, furono eliminati nel lager oppure furono condannati a una vita di sospetto ed emarginazione. E tuttavia, nonostante tutto, proprio sotto il disumano regime stalinista operarono registi come Eisenstein, musicisti come Shostakovic, e negli anni del grigiore brezneviano abbiamo avuto poeti come Evtushenko. Non sto parlando di dissidenti, sto parlando di artisti inseriti nel “sistema” pur se guardati con profondo sospetto dai custodi dell’ortodossia, costretti a vere e proprie acrobazie ideologiche pur di sopravvivere e dar vita alle loro opere. Eppure, Eisenstein ci ha lasciato capolavori come La corazzata Potemkin, Aleksandr Nevskij e la serie incompiuta su Ivan il Terribile; Shostakovic ci ha lasciato le sue sinfonie, Evtushenko i suoi poemi amari e struggenti. Al di là delle forche caudine dell’ideologia, chi oserebbe dire che queste non sono opere d’arte?
Come suo solito, l’Autore affronta la questione con la sua consueta verve di pensatore controcorrente e mette impietosamente allo scoperto delle verità scomode taciute da quella che Renzo De Felice definiva “la volgata resistenziale”.
Grazie a Pierluigi Battista che ha scritto una coraggiosa prefazione, si scopre così che un numero sorprendente di artisti che nel dopoguerra s’intrupparono nelle file della sinistra aveva partecipato con convinzione e ossequio all’arte fascista. L’elenco è lungo e impressionante, e le giustificazioni fornite a posteriori non si sa se lasciano piu’ indignati o piu’ sbalorditi. Veri e propri contorsionismi verbali di cui Battista offre un ricco campionario: “afascismo”, “sdoppiamento”, “antifascismo allusivo”, “modo antifascista di essere fascisti”, “antifascismo segreto”, “non antifascista”, fino alle vette inarrivabili di “fascisti sì, ma di malumore” e di quel grande antifascista - di cui si tace pudicamente il nome - che aveva scritto un panegirico di Mussolini “con l’inchiostro simpatico”. Direbbe Leopardi “non so se il riso o la pietà prevale”.
Molto meglio Fortunato Depero che nel dopoguerra dichiarò con brutale sincerità “doveva pur mangiare”. Certamente meglio delle sconcertanti prese di posizione di Giulio Carlo Argan (sì, proprio lui!) che nel 1939, in occasione di un viaggio negli USA, inveiva contro “il potentissimo elemento ebraico” presente nella vita e nella cultura americana.
Ovviamente, il testo non si limita alla denuncia di questa ipocrisia. Chi volesse approfondire l’argomento si legga I redenti - gli intellettuali che vissero due volte di Mirella Serri. Sgarbi cerca piuttosto di dimostrare - ed è qui l’interesse del suo libro - che durante il fascismo l’arte sopravvisse, che furono create opere valide, che gli artisti erano interiormente liberi al di là della cappa ideologica del mussolinismo. In altre parole, l’arte contiene un elemento di creatività che sopravvive a qualsiasi dittatura. Per il solo fatto che un regime ha bisogno degli artisti, ha bisogno di qualcosa di nuovo, di persuasivo, di originale, di un contributo che solo l’artista può fornire in quanto artista e non in quanto aderente a un movimento politico. Sgarbi sottolinea un punto fondamentale: compito dell’artista è “far sentire la sua idea della realtà oltre la propaganda che gli era chiesta”. In questo senso va letto il sottotitolo: nel momento supremamente creativo nell’arte non c’è fascismo, e viceversa nessun fascismo e nessun altro totalitarismo sarà mai capace di produrre un’opera d’arte direttamente dai propri postulati ideologici. Ne abbiamo avuto una prova dalle BR che non sono riuscite a produrre un solo poeta, un solo pittore, un solo musicista ma al massimo memorialisti e scrittori di gialli, a testimonianza della sterilità di un non-pensiero continuamente avvitato sulla sola politica.
Si può dunque ammettere che durante il fascismo l’arte non si spense, anche grazie a figure organizzatrici di prim’ordine come Margherita Sarfatti, alla quale Sgarbi dedica un ottimo approfondimento. Si può anche concordare con lui sulla validità delle tante opere da lui rievocate e commentate, con l’accompagnamento di un buon corredo iconografico.
Di grande interesse sono anche i cenni biografici sulle vite tormentate di quegli artisti che aderirono con piena convinzione al fascismo e non cambiarono bandiera, nonché sui giochi di potere e sugli scontri tra le varie correnti del fascismo incarnate dai gerarchi, con mostre e contro mostre, premi e contropremi a seconda dell’allineamento o meno con l’abbraccio mortale della Germania nazista.
A mio giudizio questo è un libro stimolante che fa riflettere, di facile lettura sia per lo stile che per il testo chiaro e leggibile. Di minore interesse, almeno per me, sono i riciami alle vicende private dell’Autore, non escluse quelle giudiziarie. Forse il risultato inevitabile di un uomo che nella vita si è fatto largo a gomitate.
Tuttavia sono rimasto con una domanda e una considerazione finale: anche ammettendo la validità e la bellezza di molte delle opere create durante il Ventennio, perché nessuna di loro è mai arrivata alla validità e alla notorietà di un capolavoro universale? È solo per via della congiura del silenzio, della damnatio memoriae che ha accompagnato il fascismo, della cappa di piombo imposta dall’egemonia degli intellettuali sinistrorsi sulla nostra cultura, oppure queste opere mancavano davvero di qualcosa, di uno sguardo sulla condizione umana che può nascere solo in una atmosfera di libertà?
Un punto che non condivido, infine, è quando Sgarbi, alle pagine 20 e 21, scrive testualmente: “Nessuno si pone davanti a un’opera di Botticelli o di Michelangelo il problema del potere che ha suscitato quelle opere, i Medici, i papi. Davanti a Raffaello nelle stanze vaticane, davanti a quella gloria della Chiesa che era l’esaltazione di un potere, non ci poniamo il problema che Raffaello abbia obbedito al papa. Anzi, al papa Raffaello ha insegnato”.
Sicuramente gli avrà insegnato qualcosa sulla pittura, quanto alla teologia è opinabile… ma il punto è ben più serio. Tra Chiesa e fascismo, o meglio tra Chiesa e totalitarismo, vi è una differenza inconciliabile: la Chiesa richiedeva agli artisti di conformarsi a dei valori universali ed eterni in cui essa stessa credeva e a cui obbediva, dal Papa fino all’ultimo fedele, e per questo l’arte cristiana ha potuto creare capolavori universali ed eterni. Il fascismo invece – così come il nazismo o il comunismo – è un fenomeno profondamente diverso, un totalitarismo che non riconosce né limiti al proprio potere né stabilità ai propri valori. Forse il dramma e il provincialismo dell’arte durante il fascismo sono nati da qui.
Giovanni Romano
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