venerdì 2 giugno 2006

Il ruggito del coniglio

Da quasi un mese lo sento, verso mezzanotte. E con me lo sente tutto il quartiere. E forse lo sente tutta la città. Un urlo, l’urlo di una moto tirata esageratamente al massimo. Il ruggito rabbioso di una staccata, un rettilineo d’Estramurale a fulmine, una botta di frenata, l’urlo di un’altra staccata, più lontano, finché non svanisce. E poi di nuovo, all’improvviso, il gioco ricomincia. Ma per poco. Quasi mai oltre le due volte.

Sarebbe facile lamentarsi del chiassone, del disturbatore, chiedere l’intervento della PS, dei Carabinieri, dei Vigili Urbani, dell’esercito e dei paracadutisti. Ma chi c’è sopra quella moto, e cosa vuole dire con quei ruggiti notturni? Provocazione, solitudine, sfida, rabbia, bravata, senso di vuoto? Perché logorare un bel motore accelerando e decelerando all’impazzata? Perché non andare fuori città, e scatenare lì la moto in tutta la sua potenza?

Che domanda ingenua! Il Nostro forse non è un vero centauro. Non ama la moto, ma l’effetto che produce attraverso la moto. Fuori città non c’è nessuno, tutti quei ruggiti si perderebbero nel vuoto indifferente della notte deserta. Lui ha bisogno di noi, di un pubblico che deve ascoltarlo per forza. Ha bisogno di farsi sentire, di sentire lui quanto è bello e grosso e potente il suo giocattolo. Perché senza il suo giocattolo, chissà, nessuno si accorgerebbe che esiste. E’ sulla moto che si sente forte, forse perché il suo io è debole. Debole da far pietà, e lo dico senza disprezzo. Provo pietà per quelle bravate sempre uguali a se stesse, per quella moto che gira in tondo senza scopo, e per una vita che –s’intuisce- al di là del rumore con cui si tenta di soffocare l’inquietudine, si condanna anch’essa a girare in tondo senza scopo.

Giovanni Romano

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