"Prima di chiamare
felice qualcuno, aspetta l'ultimo giorno della sua vita". Così
recitava un adagio degli antichi Greci, e mai come nel caso di
Schumacher è sembrato tanto appropriato. Un uomo che dalla vita ha
avuto praticamente tutto, un vincitore nato, un campione osannato da
tutto il mondo, ricco, famoso e amico di molti potenti, in pochi
istanti si è ritrovato a lottare per la vita col cranio frantumato,
e anche se riuscisse a sopravvivere (cosa che gli auguriamo di cuore)
non tornerà mai più a essere quello di prima e quasi certamente
trascorrerà il resto dei suoi giorni con menomazioni gravissime.
I Greci forse avrebbero
visto in questo incidente (che Schumacher avrebbe potuto benissimo
evitare, va detto) una manifestazione dell'invidia degli dei che non
permetto all'uomo di essere troppo felice, o lo
puniscono per la sua hybris
quando crede di bastare a se stesso.
Fin
qui forse si sarebbe fermata la loro saggezza, e sarebbe diventata
contemplazione rassegnata del male altrui. Ma nel caso di Schumacher
sta accadendo qualcosa di diverso. Tutto il mondo gli si sta
stringendo intorno, segue i bollettini medici, tantissimi stanno
pregando per lui. Schumacher ci appartiene come ci appartengono i
vincenti perché in loro vediamo il riscatto delle tante sconfitte,
delle tante umiliazioni, delle tante mediocrità di
cui è fatto il nostro
anonimo quotidiano. Sarà
stato anche un pilota “freddo” e “antipatico” (cosa che non
ho mai personalmente avvertito) però
era un combattente leale, un uomo di coraggio, un asso di
prim'ordine, il cui valore si è imposto a tutti gli sportivi e
anche a quelli che non s'intendevano di automobilismo. Era così
famoso da essere diventato una parte della nostra vita, per questo
sentiamo così acutamente lo
shock della sua improvvisa disgrazia.
Ma
la simpatia e la solidarietà verso Schumacher hanno anche un
risvolto più profondo, intriso di pietas
cristiana forse inconsapevole ma irreversibile. Ci sentiamo partecipi
del suo destino in quanto esseri umani, ma la sua sorte non è solo
il pretesto per un ammonimento di saggezza. Gli auguri di “vincere
anche questa gara”, per quanto un po' ingenui, sono espressione
sincera del desiderio che la vita umana sia fatta
per un
destino di felicità
e non semplicemente il bersaglio di un fato invidioso.
Nell'ondata
di simpatia e di solidarietà verso Schumacher si è avvertito il
sussulto di un'umanità non ancora perduta, una solidarietà
autenticamente umana simile a quella che è insorta contro la
barbarie degli animalisti che
hanno augurato la morte a Caterina Simonsen. Ma proprio qui comincia
la vera pietas, di cui
forse nessuno ha ancora parlato. La
vera pietas sarà
accogliere, curare, accudire uno Schumacher del tutto diverso
dall'uomo forte e vincitore che era. Accoglierlo e volergli bene
nella sua debolezza, nella sua impotenza, nella sua incapacità di
rispondere ai familiari e agli amici. Accoglierlo nelle sue piccole
vittorie contro il coma, se ci saranno (come ci auguriamo che ci
siano), e anche se non ci saranno, per anni e anni. Guardarlo e
rispettarlo come un essere umano fino all'ultimo giorno della sua
vita, non come un “caso pietoso” da togliere di mezzo. Sarà
questa una pietas ben
diversa dalla commozione momentanea che si prova per pochi giorni,
fino a quando la notizia è dimenticata. Solo così potremo dire di
avere voluto veramente bene a Michael Schumacher, e di averlo aiutato
a vincere la sua ultima corsa.
Giovanni Romano
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