È ancora fresca nella
memoria la drammatica evasione del latitante calabrese Cutrì, la cui
fuga è costata la vita a un suo fratello e si è conclusa con il suo
arresto e quello di tutta la banda.
Fa veramente impressione
vedere le riprese del covo dove si era rifugiato. Un ambiente
squallido, schifosamente abbandonato, disordinato e sporco, molto
peggiore di una cella. A guardarlo tornano in mente le parole di
Victor Hugo sulla fuga di Jean Valejan: la “libertà” dell'evaso
è fatta di ansia e di trasalimenti continui, di terrore, di ferocia,
di impossibilità di inserirsi nel mondo delle persone normali.
Ne valeva la pena? Valeva
la pena perdere un fratello per ritrovarsi braccato come una bestia,
progressivamente isolato e poi sconfitto? Una domanda che
probabilmente non avrà nemmeno sfiorato Cutrì. Per quella gente, e
per quella mentalità, contano l'onore, la vendetta. E questo li
trascina in una spirale di violenza senza fine. C'è poco da dubitare
che, se fosse riuscito a prendere il largo, Cutrì prima o poi
avrebbe organizzato un agguato o un attentato alle forze dell'ordine
per vendicare il fratello morto. Come dimostra chiaramente anche
l'appello di sua madre ad “andare fino in fondo”, l'importante
era sfidare l'autorità, dimostrare di essere il più forte contro
tutto e tutti. A questi livelli, la criminalità non è solo
questione di denaro ma soprattutto di potere.
Per questo ho trovato
inadeguate le parole dell'ex ministro dell'interno Alfano quando ha
detto che si trattava di una “vittoria dello stato”. Avrebbe
fatto meglio a dire che si trattava di una vittoria della legge. Lo
stato è una macchina cieca che chiunque abbia il potere può
manovrare a suo piacimento, senza rendere conto ai cittadini (come
stiamo vedendo in queste ore) mentre la legge, almeno in teoria, è
imparziale, vale per tutti, per il ministro come per il delinquente,
e difende prima di tutto non il potere ma i pacifici cittadini che
hanno diritto di essere protetti dal capriccio e dalla crudeltà di
un criminale.
Giovanni Romano
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