lunedì 27 febbraio 2017

La Terra e le sue sette sorelle

Il 22 febbraio scorso i notiziari di tutto il mondo hanno riportato la scoperta, davvero sensazionale, di un sistema solare con 7 pianeti simili alla Terra, tre dei quali sarebbero adatti a ospitare la vita. Per i dettagli rimando a questo articolo pubblicato dal Messaggero.

La scoperta, com’è naturale, ha suscitato una marea di commenti, e se è vero quanto diceva Umberto Eco di Internet, la maggioranza di quelli che ho letto sono stati negativi, superficiali o tutte e due le cose. Si parte dal solito argomento:“Perché destinare tanti soldi all’esplorazione dello spazio se sulla Terra i problemi sono ben altri?”, dimenticando quanti benefici le esplorazioni spaziali hanno già apportato ai materiali resistenti al freddo e al calore, alla medicina e alla chirurgia, ai sistemi di sicurezza, alle comunicazioni, ai trasporti e alla geolocalizzazione, tanto per citarne solo alcuni.

Una versione apparentemente più raffinata dell’obiezione di cui sopra è l’ironia con cui Michele Serra ha pontificato dalla sua “Amaca”: “Arrivare a quei sette pianeti e colonizzarli? No, per carità! L’idea di avere dei pianeti di ricambio ci incoraggerebbe a distruggere ancora di più il nostro con le guerre, l’inquinamento, il riscaldamento globale”… ecc. ecc. ecc. Naturalmente si è ben guardato dal citare l’aborto come una delle principali cause di distruzione della vita umana sulla Terra, ma sarebbe stato pretendere troppo. Di effetto Serra ce n’è già abbastanza!

Un’altra obiezione “classica” è: “Abbiamo scoperto sette pianeti simili alla Terra. E con questo? Non potremo mai raggiungerli né loro potranno mai mettersi in contatto con noi. Perché allora tanto entusiasmo?”. Effettivamente 40 anni/luce sembrano pochi, ma come ha giustamente osservato Luciano De Crescenzo (che di formazione è un ingegnere, non dimentichiamolo) un messaggio radio e la relativa -eventuale- risposta impiegherebbero complessivamente ottant’anni. Se vogliamo avere un’idea più precisa di quanto sia abissale questa distanza basta fare un semplice calcolo. I sette pianeti del sistema Trappist-1 sono distanti circa 3,78432^14 km, vale a dire 378.432 miliardi di km. Un’astronave che viaggiasse a 28.000 km/h impiegherebbe 1.542.857 anni per un viaggio di sola andata. Pare di essere in un racconto come I sette messaggeri di Dino Buzzati: nell’immensità dello spazio e del tempo i contatti si perdono, i messaggi diventano sempre più rari, le voci si affievoliscono fino a tacere per sempre.

Risparmio infine al lettore tutte le barzellette -politiche o meno- che hanno preso spunto dalla vicenda, e vengo al cuore del problema. Io non credo che questa scoperta sia superflua, e nemmeno che siano stati soldi sprecati. Al di là di tutti i discorsi che possiamo fare sull’allocazione più o meno giusta delle risorse, noi esseri umani siamo una incoercibile sete di infinito, di scoperte, di “oltre”. Una vita o una civiltà che si condannassero a non scoprire nulla sono sterili e morte già in anticipo. Con buona pace di Dante, le umane genti non si accontentano del “quia”, o quanto meno desiderano scoprire cosa c’è oltre l’orizzonte (lo stesso Dante ha reso Ulisse una figura immortale proprio per il suo tentativo di andare oltre).

In secondo luogo, sono proprio le scoperte apparentemente più astratte ad aprire la strada a sviluppi imprevedibili fino a quel momento. Senza scomodare Einstein e la teoria della relatività, basti pensare alla scoperta delle onde radio da parte di James Clerk Maxwell: fu una scoperta “a tavolino”, ma quanta strada si è fatta da allora in poi! Oppure diamo un’occhiata alla macchina di Turing, un modello teorico senza il quale i computers non sarebbero nemmeno pensabili (incluso quello con cui sto scrivendo e quelli di voi che mi state leggendo). Cosa sappiamo degli sviluppi che potrebbe avere la scoperta delle onde gravitazionali sugli spostamenti tra le varie parti dell’Universo?

In terzo luogo, tanta insistenza quasi spasmodica nel voler trovare la vita al di fuori della Terra dovrebbe farci riflettere. Questa ansia rivela un altro dei bisogni fondamentali del genere umano, quello di socializzare, di condividere la propria esistenza anche oltre i confini del proprio pianeta. Non importa se, come ci ha avvertito Stephen Hawking, il contatto con gli alieni potrebbe essere pericoloso. L’importante è scoprire l’Altro perché attraverso questo incontro si approfondisce la conoscenza della realtà e si arriva a capire sempre più chi siamo noi.

Anche qui, tuttavia, non si può fare a meno di notare una profonda contraddizione: quelle poche cellule che su Marte o sui sette pianeti farebbero gridare al miracolo della vita, sulla Terra, nel ventre di una donna, sono considerati niente altro che un grumo di cui ci si può disfare e ci si disfa a piacimento. È la prova che il nostro sguardo sulla realtà non è tanto di stupore quanto di pretesa e di dominio.

I sette pianeti del Trappist-1, forse per loro fortuna, sono al di là della nostra portata almeno per il prevedibile futuro. Non sappiamo cosa potrà venire da questa scoperta, ma di fronte all’ignoto la parola più vera spesso spetta al poeta più che allo scienziato. Per questo mi piace concludere con questi splendidi versi che fanno giustizia di molte sciocchezze e di molte saccenti obiezioni:

(…) Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
che è una stoltezza dirselo.
(Eugenio Montale, “Satura”)


Giovanni Romano

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