Il
22 febbraio scorso i notiziari di tutto il mondo hanno riportato la
scoperta, davvero sensazionale, di un sistema solare con 7 pianeti
simili alla Terra, tre dei quali sarebbero adatti a ospitare la vita.
Per i dettagli rimando a questo articolo pubblicato dal Messaggero.
La
scoperta, com’è naturale, ha suscitato una marea di commenti, e se
è vero quanto diceva Umberto Eco di Internet, la maggioranza di
quelli che ho letto sono stati negativi, superficiali o tutte e due
le cose. Si parte dal solito argomento:“Perché destinare tanti
soldi all’esplorazione dello spazio se sulla Terra i problemi sono
ben altri?”, dimenticando quanti benefici le esplorazioni spaziali
hanno già apportato ai materiali resistenti al freddo e al calore,
alla medicina e alla chirurgia, ai sistemi di sicurezza, alle
comunicazioni, ai trasporti e alla geolocalizzazione, tanto per
citarne solo alcuni.
Una
versione apparentemente più raffinata dell’obiezione di cui sopra
è l’ironia con cui Michele Serra ha pontificato dalla sua “Amaca”:
“Arrivare a quei sette pianeti e colonizzarli? No, per carità!
L’idea di avere dei pianeti di ricambio ci incoraggerebbe a
distruggere ancora di più il nostro con le guerre, l’inquinamento,
il riscaldamento globale”… ecc. ecc. ecc. Naturalmente si è ben
guardato dal citare l’aborto come una delle principali cause di
distruzione della vita umana
sulla Terra, ma sarebbe stato pretendere troppo. Di
effetto Serra ce n’è già abbastanza!
Un’altra
obiezione “classica” è: “Abbiamo scoperto sette pianeti simili
alla Terra. E con questo? Non potremo mai raggiungerli né loro
potranno mai mettersi in contatto con noi. Perché allora tanto
entusiasmo?”. Effettivamente 40 anni/luce sembrano pochi, ma come
ha giustamente osservato Luciano De Crescenzo (che di formazione è
un ingegnere, non dimentichiamolo) un messaggio radio e la relativa
-eventuale- risposta impiegherebbero complessivamente ottant’anni.
Se vogliamo avere un’idea più precisa di quanto sia abissale
questa distanza basta fare un semplice calcolo. I sette pianeti del
sistema Trappist-1 sono distanti circa 3,78432^14 km, vale a dire
378.432 miliardi
di km. Un’astronave che viaggiasse a 28.000 km/h impiegherebbe
1.542.857 anni per un viaggio di
sola andata.
Pare
di essere in un racconto come I
sette messaggeri
di Dino Buzzati: nell’immensità dello spazio e del tempo i
contatti si perdono, i messaggi diventano sempre più rari, le voci
si affievoliscono fino a tacere per sempre.
Risparmio
infine al lettore tutte le barzellette -politiche o meno- che hanno
preso spunto dalla
vicenda,
e vengo al cuore del problema. Io non credo che questa scoperta sia
superflua, e nemmeno che siano
stati soldi
sprecati. Al di là di tutti i discorsi che possiamo fare
sull’allocazione più o meno giusta delle risorse, noi esseri umani
siamo una incoercibile sete di infinito, di scoperte, di “oltre”.
Una vita o una civiltà che si condannassero a non scoprire nulla
sono sterili e morte già in anticipo. Con buona pace di Dante, le
umane genti non si accontentano del “quia”, o quanto meno
desiderano scoprire cosa
c’è oltre l’orizzonte (lo stesso Dante ha reso Ulisse una figura
immortale proprio per il suo tentativo di andare oltre).
In
secondo luogo, sono proprio le scoperte apparentemente più astratte
ad aprire la strada a sviluppi imprevedibili fino a quel momento.
Senza
scomodare Einstein e la teoria della relatività, basti
pensare alla scoperta delle onde radio da parte di James Clerk Maxwell: fu una scoperta “a tavolino”, ma quanta strada si è fatta da
allora in poi! Oppure diamo
un’occhiata alla
macchina di Turing, un modello teorico senza il quale i computers non sarebbero nemmeno
pensabili (incluso quello con cui sto scrivendo e quelli di voi che
mi state leggendo). Cosa
sappiamo degli sviluppi che potrebbe avere la scoperta delle onde
gravitazionali sugli spostamenti tra le varie parti dell’Universo?
In
terzo luogo, tanta insistenza quasi spasmodica nel voler trovare la
vita al di fuori della Terra dovrebbe farci riflettere. Questa
ansia rivela un altro dei bisogni fondamentali del genere umano, quello di
socializzare, di condividere la propria esistenza anche oltre i
confini del proprio pianeta. Non importa se, come ci ha avvertito
Stephen Hawking, il contatto con gli alieni potrebbe
essere pericoloso. L’importante
è scoprire l’Altro perché attraverso questo
incontro si approfondisce la conoscenza della realtà e si arriva a
capire sempre più chi siamo noi.
Anche
qui, tuttavia, non si può fare a meno di notare una profonda
contraddizione:
quelle poche cellule che su Marte o sui sette pianeti farebbero
gridare al miracolo della vita, sulla Terra, nel ventre di una donna,
sono considerati niente altro che un grumo di cui ci si può disfare
e
ci si disfa
a piacimento. È la prova che il nostro sguardo sulla realtà non è
tanto di stupore quanto di pretesa e di dominio.
I
sette pianeti del Trappist-1, forse per loro fortuna, sono al di là
della nostra portata almeno per il prevedibile futuro. Non sappiamo
cosa potrà venire da questa scoperta, ma di fronte all’ignoto la
parola più vera spesso spetta al poeta più che allo scienziato. Per
questo mi piace concludere con questi splendidi versi che fanno
giustizia di molte sciocchezze e di molte saccenti obiezioni:
(…)
Un imprevisto
è
la sola speranza. Ma mi dicono
che
è una stoltezza dirselo.
(Eugenio Montale, “Satura”)
Giovanni
Romano
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