Com’è
noto, a partire dal 2018 grazie alla UE i cittadini potranno
ritrovarsi gli insetti nel piatto. Almeno così molti giornali hanno
presentato la notizia, precisando che il 54% degli italiani è
contrario (una percentuale fin troppo esigua rispetto alla realtà, a
mio parere).
Perché
questo moto spontaneo di ripulsa, di avversione? Prima di tutto
perché il cibo è una cultura, e gli insetti, da sempre, sono
assolutamente estranei alla tradizione alimentare occidentale.
L’Europa si è evoluta – questo lo percepiamo più o meno
confusamente – appunto perché non ha continuato a
mangiare insetti, preferendo i vegetali (il che ha richiesto la
laboriosità e l’organizzazione delle civiltà agricole) oppure le
proteine nobili della carne (il che ha richiesto la pazienza
dell’allevamento o il coraggio e l’astuzia della caccia). In
secondo luogo, la grande maggioranza degli esseri umani avverte
quanto meno un’estraneità nei confronti degli insetti, quando non
una vera e propria fobia. Figuriamoci mangiarli!
Si
obietterà che introdurre gli insetti nell’alimentazione è un
arricchimento della dieta, una fonte inesauribile di proteine a basso
costo, una “contaminazione” (per usare un termine tanto improprio
quanto sgradevole), una fermentazione di culture diverse, un
risultato inevitabile della globalizzazione e delle migrazioni, e via
banalizzando. A molti invece viene il sospetto che dietro tanta
pubblicità ci sia un tentativo di imporre questo tipo di
alimentazione, più o meno come si cerca di imporre una dieta
vegetariana o peggio ancora vegana nelle scuole e sui media a scapito
della carne, dei formaggi e dei salumi.
Si
può discutere se queste illazioni siano fondate o meno, ma quello
che importa è capire le ragioni per cui tali sospetti vengono
avanzati. Viviamo un momento in cui l’eccesso di informazioni – o
meglio di voci incontrollate – induce a dubitare di tutto, molto
spesso anche immotivatamente. I social networks finiscono per
tribalizzare gli utenti intorno a quel che già pensano di sapere e a
quel che vogliono sentire, illudendosi così di riprendere un minimo
di controllo sulla propria vita, mentre le decisioni che ci
riguardano direttamente – dalla pensione ai risparmi, dalla salute
all’alimentazione, dalle elezioni ai programmi scolastici dei
nostri figli – sono sempre prese altrove, da organi remoti che non
si ha alcun potere di influenzare, e che per giunta pretendono di
decidere “per il nostro bene”.
È
questo atteggiamento pedagogico del potere, forse, a dare più
fastidio. Si scava un fossato sempre più profondo tra un discorso
pubblico autoreferenziale e la cittadinanza che si vede trattata con
implicita diffidenza e distacco. Da qui, ad esempio, la rivolta
irrazionale e autolesionista contro l’obbligo dei vaccini, motivata
almeno nella maggior parte dei casi più da risentimento contro un
governo che non rende conto delle proprie azioni che da obiezioni
sanitarie vere e proprie. Da qui anche la diffidenza con cui è stata
accolta la liberalizzazione degli insetti come alimento, quasi fosse
un atto di consapevole disprezzo delle nostre tradizioni alimentari.
Non
sappiamo come finirà questa vicenda. Forse prima o poi, grazie
all’effetto “finestra di Overton” che ha già fatto tristemente
prova di sé per quanto riguarda il gender, quel che sembrava
aberrante e insensato all’inizio finirà per essere accettato come
fatto compiuto. Ma se questa diventasse mentalità comune, o peggio
ancora ci venisse imposta, avremmo perso irreparabilmente un
patrimonio culturale fatto di secoli di ricette, di ingegnoso
sfruttamento delle risorse locali, di sapienza tramandata da una
generazione all’altra. Proprio quel che la globalizzazione rifiuta
e distrugge: fanno molto più comodo individui isolati ai quali, se
mangiano di tutto, si può dare a bere di tutto.
Giovanni
Romano