Qualche
giorno fa ebbi
una violenta disputa su Facebook a proposito dell’”Accabadora”,
una donna che nella
Sardegna del Nord-Est era
incaricata di praticare la soppressione dei malati terminali, e
le cui ultime imprese sono arrivate fino alla prima metà del secolo scorso.
La discussione è
iniziata da questo
articolo, ed è
rimarchevole come in esso manchi assolutamente la benché minima critica
verso un costume che definire barbaro è poco. Al contrario, il tono
è elogiativo, parla di “pietà” quasi fosse un grande merito
sfondare la testa di un morente a colpi di mazza o soffocarlo con un
cuscino. In ogni caso, ci
rassicura l’articolista, l’esistenza dell’accabadora
“(…) è sempre stata
ritenuta un fatto naturale,
come esisteva la
levatrice che aiutava a nascere, esisteva s’abbacadora che aiutava
a morire. Si dice addirittura che spesso era la
stessa persona
[il neretto è mio, N.d.R.] e
che il suo compito si distinguesse dal colore dell’abito (nero se
portava la morte, bianco o chiaro se doveva far nascere una vita).
A
parte tutte le considerazioni che si potrebbero fare sul matriarcato
e sui suoi effetti negativi, l’articolo
presenta alcune vistose contraddizioni che possono sfuggire solo ai
più superficiali. Tanto per cominciare, ci viene detto che
l’”accabadura”
era “Un atto pietoso
nei confronti del moribondo ma anche un atto necessario alla
sopravvivenza dei parenti, soprattutto per le classi sociali meno
abbienti: nei piccoli paesi lontani da un medico molti giorni di
cavallo, serviva a evitare lunghe e atroci sofferenze al malato”.
Dal
che si evince chiaramente che anche la morte faceva distinzioni di
classe, e che l’uccisione era la fine riservata ai poveri molto
più che ai ricchi.
Che poi questa pratica
fosse colpa anche della grettezza spietata dei latifondisti che
mantenevano la popolazione nella miseria, questo è indubbio. Si
accenna anche a uno dei problemi più seri della Sardegna in generale
e della Barbagia in particolare: la mancanza di buone vie di
comunicazione, che
ne hanno frenato fino ad oggi lo sviluppo sia economico che civile.
Questa
però può essere al massimo una spiegazione, non una
giustificazione. Tanto quanto la ricchezza, anche la povertà può
generare –
anzi genera quasi sempre – un egoismo ancor
più gretto
e feroce. È proprio vero che si sopprimevano i malati solo per
pietà, oppure anche per impadronirsi di pochi bocconi di pane in
più? E
se il medico non veniva nemmeno chiamato, come si poteva affermare
con tanta sicurezza che la malattia fosse terminale? Praticare
l’”accabadura” non era forse un modo, diciamo così, di
“aiutare il destino” togliendo
di mezzo
i più deboli, le
vite diventate ormai
inutili a beneficio delle
tasche dei
più forti? È significativo che, come scrive esplicitamente
l’articolo, “sa femmina accabadora” veniva sempre chiamata dai
parenti, non dal malato. Ed
è per lo meno strano che mai nell’articolo si accenna al desiderio
di chiamare un prete.
Secondo:
“s’accabadora” veniva sempre di notte, vestita di nero da capo
a piedi, faceva uscire i parenti dalla casa e soffocava il morente
col cuscino oppure gli sfondava il cranio con “su mazzolu”. Poi
se ne andava silenziosa come era venuta, mentre i parenti la
ringraziavano offrendole prodotti della terra (eh, certo, la morte su
commissione ha il suo prezzo!).
Se un comportamento del genere fosse stato così naturale e
culturalmente accettato, perché venire di notte? Perché vestirsi di
nero? Perché coprirsi
il volto e tutta la figura?
In
questo, “s’accabadora”
era
esattamente
identica
al
boia che eseguiva le sentenze mascherandosi con il
cappuccio:
pur essendo un funzionario statale
regolarmente
inquadrato e pagato, pur avendo dalla sua la legge e
l’opinione pubblica che lo giustificavano,
il suo lavoro era così disumano in
sé
da suscitare disagio e orrore in chi lo avesse incontrato di persona.
Portiamo
ora il discorso su un altro livello. Cosa possiamo dire di una
cultura che accetta così tranquillamente non tanto la morte quanto
la soppressione della vita? Una pratica del genere può essere
giustificata soltanto dalla miseria oppure c’è un elemento di
crudeltà, di fatalismo pagano che a sua volta è diventato il
fattore paralizzante che ha contribuito a ibernare
quella parte della Sardegna in una perpetua miseria? Altre regioni
d’Italia, come il Molise, la Basilicata e il Veneto hanno
conosciuto una miseria altrettanto feroce, un abbandono altrettanto
totale, ma in nessuna di esse, per quanto ne sappia, si ricorreva
all’eliminazione dei morenti come
fosse un fatto “naturale” (non c’è niente di naturale in un
colpo che ti sfonda la testa, per giunta con “Su mazzolu”
fabbricato appositamente allo scopo).
Una
cultura diventa umana nella misura in cui si prende cura della vita,
non nella misura in cui la sopprime. Sono proprio le culture non
fataliste, non ripiegate sulla circolarità maligna del tempo, quelle
dove ogni vita ha la sua importanza, a possedere la tensione a non
accontentarsi, a migliorare, a non lasciare nessuno indietro. Se
l’arretratezza è causa di malinconia, anche una malinconia
divorante può essere causa di arretratezza. È una sinistra
ironia che nella foto dell’”accabadora” sia presente il
Crocifisso, il che dimostra quanto il cristianesimo sia rimasto alla
superficie di una cultura forse ferma interiormente all’epoca dei
nuraghi. Non c’è bisogno di essere cristiani, tuttavia, per
trovare barbara e inumana questa pratica. Non ho letto I
quaderni dal carcere,
ma sono assolutamente certo che un sardo della statura di Antonio
Gramsci avrebbe condannato col massimo rigore questo costume che ora, in piena malafede,
si torna a giustificare in nome di una ipocrita “pietà”.
Giovanni
Romano
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