Avevo bisogno di rinfrescare la memoria sulla distinzione tra hostis e inimicus operata da Carl Schmitt, così ho letto un articolo su Internet – sarebbe troppo chiamarlo saggio, in verità. Quel che è scritto a proposito di Schimitt è di relativa importanza qui. Ciò che mi ha colpito è stata la sorprendente citazione finale di Montaigne, che ho trovato barbara, capziosa e menzognera. Ecco il testo:
Almeno il filosofo tedesco, come del resto il suo maestro Machiavelli, non pretendeva di fare della morale sulla pelle dell’avversario vinto e spogliato di tutti i suoi beni, come fanno i neoconservatori dell’Amministrazione repubblicana statunitense.
Così come, del resto, il “cannibale felice” di Montaigne (di cui abbiamo parlato in un recente articolo) uccideva i suoi nemici solo per mangiarseli, e non perché non era riuscito a convertirli alla sua religione o ai suoi costumi o alla sua visione della vita.”
Anche concedendo a Montaigne l’attenuante di avere scritto quella bestialità in un periodo di feroci guerre di religione, c’è da rimanere esterrefatti dalla superficialità e dal cinismo disumano di cui è stato capace questo maestro di sofismi che ha esercitato una influenza così nefasta sul pensiero occidentale dal XVI secolo in poi.
Prima di tutto, Montaigne può essere parzialmente scusato per la sua ignoranza, perché a quell’epoca non si conosceva l’antropologia moderna: Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss era ancora ben al di là da venire. Tuttavia non può essere scusato per aver proiettato una tesi filosofica – peraltro discutibile, come vedremo – su un comportamento che definire aberrante è poco, e tutt’altro che accettato tranquillamente persino all’interno delle culture che lo praticavano.
Il sofisma è sostenere che il cannibale uccidesse solo per mangiare. Che questo non sia vero lo ammette implicitamente lo stesso Montaigne quando scrive che il cannibale mangia il nemico. Dunque non mangia semplicemente per sfamarsi, come fosse la cosa più naturale di questo mondo. Soprattutto non mangia gli appartenenti alla sua tribù. L’atto di mangiare un altro essere umano è limitato all’estraneo, al nemico, in una situazione particolare come può essere la guerra. Se un essere umano divorasse normalmente i suoi simili per saziare la propria fame, non sarebbe considerato un “cannibale felice” ma un mostro, uno spirito maligno, un Wendigo, come le tribù indiane del Nordamerica definivano queste creature che si trasformavano gradualmente in spaventosi demoni.
Se ne sono avuti esempi in casi estremi come l’assedio di Leningrado: mangiare esseri umani semplicemente per fame non rende né felici né migliori: fa solo diventare mostri.
Va detto inoltre che il cannibale che uccide il nemico non lo fa mai per puro appetito materiale. Nessun nemico vinto viene mai mangiato soltanto per fame (per saziarsi ci sono i suoi beni, il suo bestiame, i suoi raccolti) bensì per annientarlo e assimilare le sue doti: il coraggio, la forza, l’astuzia. È un atto culturale, di una cultura distorta quanto si vuole, ma è un atto umano, che va molto al di là della brutale rozzezza con cui lo ha liquidato Montaigne.
Vi è poi un’altra obiezione, ancora più seria. Storicamente, sono state le tribù che praticavano il cannibalismo ad aggredire le società più pacifiche e più evolute. I Maori, ad esempio, invasero, massacrarono e divorarono fin quasi alla completa estinzione la pacifica tribù dei Moriori che, ironia della sorte, praticava la non-violenza ante litteram (Fonte: l’articolo su Nuova Italia – Accademia Adriatica di Filosofia). Il cannibalismo è sempre basato sul culto della forza e della sopraffazione: agli occhi del cannibale l’altro è solo una facile preda, forse segretamente invidiato perché, checché ne pensasse Montaigne, probabilmente è più felice di lui.
Alla luce di queste considerazioni, risulta infine inaccettabile la tesi ultima di Montaigne: perché mai cercare di convertire i cannibali sarebbe più inumano che lasciarli indisturbati a praticare le loro usanze atroci, tanto più che implicano la soppressione di altri esseri umani? È qui che il relativismo getta la maschera: non che essere umano e tollerante, finisce sempre per schierarsi dalla parte della prevaricazione, della violenza e dell’arbitrio. Peggio ancora, li giustifica come ha fatto Montaigne.
In realtà, non esistono cannibali felici, ma soltanto esseri abituati all’omicidio e alla violenza che di umano hanno ben poco. Chi lo sa, forse lo stesso Montaigne non sarebbe stato troppo tranquillo se avesse incontrato di persona un gruppo di quegli uomini così “felici”...
Di fronte al suo pretestuoso paradosso, chi ha saputo cogliere il cuore del problema e smascherare il sofisma che c’è dietro è stata la saggezza popolare di un proverbio russo citato da Aleksandr Solženicyn:
IL CANE LUPO HA RAGIONE,
MA IL CANNIBALE NO!
Giovanni Romano
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