sabato 28 dicembre 2024

RECENSIONE - Arte e Fasscismo di Vittorio Sgarbi

 



Nell’arte non c’è fascismo - Nel fascismo non c’è arte”

Pur nella sua compatta brevità, questo libro ripropone una questione tanto annosa quanto fondamentale: è possibile fare arte sotto una dittatura? In che modo le opere risentono dei vincoli ideologici, economici e anche polizieschi del regime nel quale l’artista si trova a operare? Cosa ne è della sua personalità, a quali compromessi deve scendere pur di lavorare e soprattutto di creare?

La risposta non è scontata come potrebbe far credere il sottotitolo, che all’apparenza esibisce impeccabili credenziali antifasciste. Prima di tutto bisognerebbe chiedersi: dove comincia l’arte e dove finisce il fascismo? È possibile separarli in modo così netto? Non potrebbe darsi che un movimento politico sia così coinvolgente per un artista da ispirare direttamente la sua creatività? Reciprocamente: il valore di un movimento politico si misura dalla levatura degli artisti che vi aderiscono?

Prendiamo un caso eclatante di conflitto tra arte e propaganda: l’URSS, e in particolar modo l’Unione sovietica ai tempi di Stalin. È indubbio che almeno all’inizio il comunismo, o meglio la causa della rivoluzione, mobilitò il cuore, la creatività e l’intelligenza di artisti di prim’ordine come Esenin, Majakovskij, Babel’, Blok, Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, per fare solo alcuni nomi. Quasi tutti loro, però, andarono incontro a una fine tragica: perirono suicidi, morirono anzitempo, furono eliminati nel lager oppure furono condannati a una vita di sospetto ed emarginazione. E tuttavia, nonostante tutto, proprio sotto il disumano regime stalinista operarono registi come Eisenstein, musicisti come Shostakovic, e negli anni del grigiore brezneviano abbiamo avuto poeti come Evtushenko. Non sto parlando di dissidenti, sto parlando di artisti inseriti nel “sistema” pur se guardati con profondo sospetto dai custodi dell’ortodossia, costretti a vere e proprie acrobazie ideologiche pur di sopravvivere e dar vita alle loro opere. Eppure, Eisenstein ci ha lasciato capolavori come La corazzata Potemkin, Aleksandr Nevskij e la serie incompiuta su Ivan il Terribile; Shostakovic ci ha lasciato le sue sinfonie, Evtushenko i suoi poemi amari e struggenti. Al di là delle forche caudine dell’ideologia, chi oserebbe dire che queste non sono opere d’arte?

Come suo solito, l’Autore affronta la questione con la sua consueta verve di pensatore controcorrente e mette impietosamente allo scoperto delle verità scomode taciute da quella che Renzo De Felice definiva “la volgata resistenziale”.

Grazie a Pierluigi Battista che ha scritto una coraggiosa prefazione, si scopre così che un numero sorprendente di artisti che nel dopoguerra s’intrupparono nelle file della sinistra aveva partecipato con convinzione e ossequio all’arte fascista. L’elenco è lungo e impressionante, e le giustificazioni fornite a posteriori non si sa se lasciano piu’ indignati o piu’ sbalorditi. Veri e propri contorsionismi verbali di cui Battista offre un ricco campionario: “afascismo”, “sdoppiamento”, “antifascismo allusivo”, “modo antifascista di essere fascisti”, “antifascismo segreto”, “non antifascista”, fino alle vette inarrivabili di “fascisti sì, ma di malumore” e di quel grande antifascista - di cui si tace pudicamente il nome - che aveva scritto un panegirico di Mussolini “con l’inchiostro simpatico”. Direbbe Leopardi “non so se il riso o la pietà prevale”.

Molto meglio Fortunato Depero che nel dopoguerra dichiarò con brutale sincerità “doveva pur mangiare”. Certamente meglio delle sconcertanti prese di posizione di Giulio Carlo Argan (sì, proprio lui!) che nel 1939, in occasione di un viaggio negli USA, inveiva contro “il potentissimo elemento ebraico” presente nella vita e nella cultura americana.

Ovviamente, il testo non si limita alla denuncia di questa ipocrisia. Chi volesse approfondire l’argomento si legga I redenti - gli intellettuali che vissero due volte di Mirella Serri. Sgarbi cerca piuttosto di dimostrare - ed è qui l’interesse del suo libro - che durante il fascismo l’arte sopravvisse, che furono create opere valide, che gli artisti erano interiormente liberi al di là della cappa ideologica del mussolinismo. In altre parole, l’arte contiene un elemento di creatività che sopravvive a qualsiasi dittatura. Per il solo fatto che un regime ha bisogno degli artisti, ha bisogno di qualcosa di nuovo, di persuasivo, di originale, di un contributo che solo l’artista può fornire in quanto artista e non in quanto aderente a un movimento politico. Sgarbi sottolinea un punto fondamentale: compito dell’artista è “far sentire la sua idea della realtà oltre la propaganda che gli era chiesta”. In questo senso va letto il sottotitolo: nel momento supremamente creativo nell’arte non c’è fascismo, e viceversa nessun fascismo e nessun altro totalitarismo sarà mai capace di produrre un’opera d’arte direttamente dai propri postulati ideologici. Ne abbiamo avuto una prova dalle BR che non sono riuscite a produrre un solo poeta, un solo pittore, un solo musicista ma al massimo memorialisti e scrittori di gialli, a testimonianza della sterilità di un non-pensiero continuamente avvitato sulla sola politica.

Si può dunque ammettere che durante il fascismo l’arte non si spense, anche grazie a figure organizzatrici di prim’ordine come Margherita Sarfatti, alla quale Sgarbi dedica un ottimo approfondimento. Si può anche concordare con lui sulla validità delle tante opere da lui rievocate e commentate, con l’accompagnamento di un buon corredo iconografico.

Di grande interesse sono anche i cenni biografici sulle vite tormentate di quegli artisti che aderirono con piena convinzione al fascismo e non cambiarono bandiera, nonché sui giochi di potere e sugli scontri tra le varie correnti del fascismo incarnate dai gerarchi, con mostre e contro mostre, premi e contropremi a seconda dell’allineamento o meno con l’abbraccio mortale della Germania nazista.

A mio giudizio questo è un libro stimolante che fa riflettere, di facile lettura sia per lo stile che per il testo chiaro e leggibile. Di minore interesse, almeno per me, sono i riciami alle vicende private dell’Autore, non escluse quelle giudiziarie. Forse il risultato inevitabile di un uomo che nella vita si è fatto largo a gomitate.

Tuttavia sono rimasto con una domanda e una considerazione finale: anche ammettendo la validità e la bellezza di molte delle opere create durante il Ventennio, perché nessuna di loro è mai arrivata alla validità e alla notorietà di un capolavoro universale? È solo per via della congiura del silenzio, della damnatio memoriae che ha accompagnato il fascismo, della cappa di piombo imposta dall’egemonia degli intellettuali sinistrorsi sulla nostra cultura, oppure queste opere mancavano davvero di qualcosa, di uno sguardo sulla condizione umana che può nascere solo in una atmosfera di libertà?

Un punto che non condivido, infine, è quando Sgarbi, alle pagine 20 e 21, scrive testualmente: “Nessuno si pone davanti a un’opera di Botticelli o di Michelangelo il problema del potere che ha suscitato quelle opere, i Medici, i papi. Davanti a Raffaello nelle stanze vaticane, davanti a quella gloria della Chiesa che era l’esaltazione di un potere, non ci poniamo il problema che Raffaello abbia obbedito al papa. Anzi, al papa Raffaello ha insegnato”.

Sicuramente gli avrà insegnato qualcosa sulla pittura, quanto alla teologia è opinabile… ma il punto è ben più serio. Tra Chiesa e fascismo, o meglio tra Chiesa e totalitarismo, vi è una differenza inconciliabile: la Chiesa richiedeva agli artisti di conformarsi a dei valori universali ed eterni in cui essa stessa credeva e a cui obbediva, dal Papa fino all’ultimo fedele, e per questo l’arte cristiana ha potuto creare capolavori universali ed eterni. Il fascismo invece – così come il nazismo o il comunismo – è un fenomeno profondamente diverso, un totalitarismo che non riconosce né limiti al proprio potere né stabilità ai propri valori. Forse il dramma e il provincialismo dell’arte durante il fascismo sono nati da qui.


Giovanni Romano

giovedì 9 maggio 2024

Gianrico Carofiglio, ovvero il mentitor sottile


Dico subito di essere in profondo disaccordo politico, morale e culturale con l’Autore, e tuttavia confesso che leggere il suo libro è stato un sollievo. Finalmente un volume scritto in ottimo italiano, senza le sciatte parole ripetute, senza il linguaggio offensivo, sboccato e volgare dei social che sporca anche le discussioni sugli argomenti più seri. Finalmente uno scrittore immune dal malvezzo di mettere una virgola superflua tra soggetto e verbo (il che appesantisce fastidiosamente la lettura e crea un’inutile pausa mentale). Finalmente, infine, un libro scritto da una persona veramente colta, padrona di argomenti che sa esporre con chiarezza senza mai annoiare il lettore.

I miei apprezzamenti, però, si fermano qui, perché è l’impostazione dichiaratamente “partigiana” di Carofiglio a non avermi convinto; è il suo manicheismo sinistrorso a togliere molto valore a un’opera che pure offre più di uno spunto degno di riflessione; è la sua manomissione delle parole ad avermi spinto a coniare per lui la definizione di “mentitor sottile”.

Recensire in maniera approfondita un libro come questo richiederebbe un saggio altrettanto documentato, approfondito e di ampio respiro. È un compito alla portata di soli studiosi e giornalisti professionisti perché per discutere le tesi di Carofiglio e controbattere punto per punto alle sue affermazioni occorre un lavoro di documentazione altrettanto imponente, altrettanto scrupoloso e su molteplici piani: linguistico, giuridico, letterario e filosofico.

Il libro (in realtà, la ripresa e l’approfondimento di un libro già scritto nel 2010) è un interminabile attacco non solo a Berlusconi (la bestia nera dell’ex giudice Carofiglio e di tutte le toghe rosse) ma attraverso di lui a tutto uno schieramento politico, a tutto un orientamento culturale, a tutto un corpo elettorale che nel 1994 mandò a vuoto il progetto delle sinistre che sembrava dovesse realizzarsi da un momento all’altro: andare al potere per via giudiziaria dopo aver distrutto i partiti della prima repubblica (PCI escluso) con l’inchiesta Mani Polate… pardon, Mani Pulite.

Il resto è la storia di un conflitto senza quartiere, di inchieste a raffica, di ribaltoni e golpe di palazzo che hanno appioppato al paese governi non eletti per oltre un decennio, con esiti disastrosi per i cittadini, per il sistema produttivo, per il ruolo e la credibilità internazionale del nostro paese. È la storia della costante, sistematica, odiosa denigrazione di un uomo che pur con tutti i suoi gravi difetti aveva avuto il coraggio di giocarsi in prima persona e mostrare che il re (lo statalismo, l’oppressione fiscale, una burocrazia insensata) è nudo. Non sto qui a ripetere gli episodi più grotteschi e più offensivi (come la consegna dell’avviso di garanzia a Berlusconi il giorno stesso del summit G8 a Napoli, uno schiaffo non solo a lui ma all’Italia intera).

Il libro si articola in una approfondita analisi delle parole più significative per la convivenza di una collettività, ed è su questo piano che si comprende come agisce un “mentitor sottile”: dire delle verità incontrovertibili ma tacerne altre non meno importanti. Presentare una e una sola versione dei fatti, per quanto documentata. Rivendicare per sé la libertà di critica e la coscienza etica senza mai lasciare nessuno spazio né riconoscere valore a posizioni non allineate al pensiero unico: il suo.

È vero, ad esempio, che la democrazia articola riccamente le parole mentre la dittatura le impoverisce e le svuota (a parte l’opportuna citazione di Orwell con la Neolingua di “1984”, ho trovato molto interessante aver citato gli studi di Victor Klemperer sulla non-lingua del Terzo Reich). La lingua – come chiarisce giustamente Carofiglio – diventa uno strumento di dominio quando c’è qualcuno che si arroga il potere di definire le parole, di dare ad esse il significato che vuole lui, escludendo tutti gli altri. Per questo egli cita con approvazione i sofisti che sapevano dibattere una questione da tutti i lati, sostenendo prima una tesi e poi il suo esatto contrario, beninteso a scapito della verità e a servizio del potere che contestano solo in apparenza. È vero anche che le parole creano le cose, le portano in esistenza (anche qui una bella citazione dell’incipit al Vangelo di Giovanni).

Ma il discorso di Carofiglio troppo spesso si muove solo all’interno delle parole, e preferisce sorvolare sui fatti scomodi. Ad esempio, egli accusa gli intellettuali di destra di avere manipolato e distorto Orwell citandolo fuori contesto e facendolo passare per uno dei loro, ma non spiega il perché degli attacchi così demolitori che questo autore di sinistra indirizzò ai regimi comunisti (non al comunismo in quanto tale). In verità Orwell, che in Spagna combatté contro i fascisti, assisté inorridito alle purghe dei combattenti antifascisti non allineati al partito comunista e scampò di poco egli stesso all’arresto e alla fucilazione. Cose alle quali Carofiglio non accenna minimamente.

Oppure, sempre a proposito di Orwell, Carofiglio sostiene che il mondo di “1984” è “pauroso ma fantastico, un’utopia negativa che esiste solo nella realtà della scrittura”, mentre il Terzo Reich era un mondo “pauroso e reale”. Questa è proprio menzogna sottile, è minimizzare consapevolmente la realtà per rassicurare i lettori di sinistra di essere quelli che militano sempre e comunque dalla “parte giusta”. Chiunque abbia vissuto nell’URSS di Lenin e Stalin – e soprattutto ne sia uscito vivo! – può smentire queste affermazioni, può fare migliaia di esempi della menzogna normale e quotidiana cui si era costretti a sottostare, sulle biografie e le fotografie alterate, sui fatti falsificati in spregio alla più elementare evidenza, sulle persone scomparse e assassinate senza lasciare traccia, sulla consapevole distorsione e manipolazione del linguaggio – fatti di cui, sfortunatamente, Carofiglio non ci offre nessun esempio.

Prendiamo anche un altro esempio di posizione tendenziosa. Carofiglio reagisce con disprezzo alle parole di Berlusconi dopo l’aggressione che questi subì in piazza Duomo, quando gli venne scagliata in volto una riproduzione in porfido del Duomo di Milano, ferendolo abbastanza seriamente. Berlusconi, probabilmente per calmare gli animi, fece appello a sentimenti non politici o pre-politici: “All’odio noi rispondiamo con l’amore”. L’Autore e altri intellettuali da lui citati trovano altezzosamente da ridire su questa formula, un po’ ingenua se vogliamo, facendo freddamente notare che in politica non esiste l’amore ma solo il calcolo In altre parole, invece di fare il vittimista Barlusconi avrebbe dovuto tenersi la ferita, e zitto. È già cinico così, ma Carofliglio fa di peggio: tace completamente sulla dissennata campagna di odio, di insulti, di aperte istigazioni alla violenza e all’eversione che per settimane aveva imperversato sui giornali, nei girotondi, nelle esternazioni di tutta la compagnia di giro degli intellettuali, dei giornalisti, della gente di spettacolo che si dichiarava “nauseata” e “rivoltata” da Berlusconi e da tutto quello che lui rappresentava, non esclusi i giudici. Furono loro a mettere in mano quella pietra all’aggressore; la reazione di Berlusconi, se mai, fu fin troppo mite.

Un terzo esempio è la manomissione della parola “popolo”. Il popolo, cui tanto volentieri fanno appello le destre populiste, in realtà non esiste, è totalitarismo parlare di popolo come se tutti i cittadini condividessero gli stessi valori, appartenessero alla stessa stirpe, professassero la stessa fede e la pensassero allo stesso modo. Questo è incontrovertibilmente vero. Inoltre, i populisti giocano con le cifre quando sostengono di avere vinto le elezioni, poniamo, con il 46% dei voti quando in realtà è andato a votare solo il 30% degli aventi diritto. In pratica, il paese si troverebbe governato da una minoranza molto esigua, il 13,8% del corpo elettorale. Possiamo parlare di consenso plebiscitario, in un caso come questo? Certamente no, ma come mai il 70% non si è recato alle urne? Senza scomodare la distinzione di Giovanni Sartori tra “buona” e “cattiva” apatia (una distinzione che certamente Carofiglio conosce, del resto ha citato altrove proprio il libro “Democrazia e definizioni”) la demotivazione dovrebbe essere più un problema per l’opposizione, che non è riuscita a mobilitare gli astenuti, che non per quei partiti che bene o male hanno raccolto un consenso effettivo.

Ma la menzogna sottile non sta solo in questo, c’è ben altro. È negare l’esistenza stessa di un popolo, che non è né sarà mai un’entità monolitica – su questo Carofiglio e gli autori da lui citati hanno ragione – ma la cui esistenza non può essere negata con elaborati sofismi. Il popolo non è un’invenzione: provatevi a dire che i cinesi, o gli americani, i russi o gli inglesi sono un’invenzione. Esiste una storia comune che non può essere negata, una lingua comune (a volte non è necessaria neanche quella, pensiamo agli svizzeri) un comune modo di comportarsi, un modo di reagire comune alle circostanze che riguardano tutti, che è proprio di ciascun determinato aggregato di persone. Altrimenti si si creano non tanto le persone criticamente consapevoli auspicati da Carofiglio quanto individui soli, ancor più alla mercé di potenti meccanismi di manipolazione perché non hanno nessun punto di riferimento al di fuori di discorsi, idee che diventano fin troppo facilmente ideologie disancorate dalla realtà.

Scagliarsi contro il “populismo”, inoltre, presenta il vantaggio di consolidare il potere nelle mani di chi già lo detiene senza dover rendere conto a nessuno. Protesti per l’eccessivo carico fiscale che ti costringe a chiudere la tua attività? Sei un populista! Ti rifiuti di essere trattato come una bestia da lavoro e di dover aspettare i settanta o settantadue anni per andare in pensione? Sei un populista! Sei quanto meno perplesso dal continuo afflusso di gente che arriva senza permesso, crea problemi di ordine pubblico e drena le fin troppo scarse risorse del paese? Sei un populista! E se sei un populista, devi stare zitto!

Tra le altre ambiguità di questo libro mi hanno particolarmente urtato l'abuso e la deliberata distorsione della parola “Scelta”, che non a caso è anche il titolo di uno dei capitoli più importanti. L'Autore scrive testualmente (pagg. 88-89): “Dovremmo poter scegliere come far nascere, come vivere, e, nel caso di vite che hanno esaurito la loro parabola, come lasciar andare con rispetto. Non è questa – lasciar andare – una locuzione scelta a caso. Le ultime parole di Giovanni Paolo II, riferite nel resoconto ufficiale degli Atti della sede apostolica, sono state: 'lasciatemi andare alla casa del Padre'”.

Se non è manomissione delle parole questa! Proviamo noi, allora, a esercitare l'arte del dubbio tanto lodata da Carofiglio, e andiamo ad analizzare criticamente le sue affermazioni. Chiediamoci ad esempio: cosa significa “scegliere come far nascere”? Con l'aborto eugenetico? Con la fecondazione artificiale e l'utero in affitto, per vendere i neonati a chi per natura non può averne, come le coppie omosessuali? E chi sceglie, in questo caso, il nascituro forse? Su questo punto in particolare si assiste a una clamorosa, fraudolenta manomissione delle parole, su cui Carofliglio stranamente preferisce sorvolare: la compravendita di neonati è definita eufemisticamente dai media “gestazione per altri” oppure “maternità solidale”.

Ancora: servirsi delle parole del Papa come di un manifesto a favore dell'eutanasia è semplicemente rivoltante. Non occorre essere una persona del livello culturale di Carofiglio per capire la differenza tra il procurare attivamente la morte e il rifiuto dell'accanimento terapeutico (che non si deve confondere con l'eutanasia passiva). Oltre che citare gli Atti della sede apostolica, l'Autore avrebbe potuto dare un'occhiata agli articoli 2277 e 2278 del Catechismo della Chiesa cattolica, libro che stranamente manca nella sua sterminata bibliografia. Meno male che subito dopo cita le parole di un magnifico combattente come il poeta W. E. Henley, un inno alla vita nonostante tutto. Ma la contraddizione è solo apparente: per Carofiglio la scelta di vivere o morire è semplicemente soggettiva, un atto di volontà che non deve render conto di niente a nessuno, fondamentalmente arbitrario tanto se sceglie di vivere quanto se sceglie di morire. La scelta, e non i motivi da cui scaturisce né le conseguenze che essa provoca, è il valore fine a sé stesso.

Siamo in presenza di visioni del mondo assolutamente inconciliabili, ed è qui che scatta la mia ribellione, è qui che scatta il mio NO (o più modestamente il “preferirei di no” come il Bartleby di Melville da lui citato). Non sono e non sarò mai dalla parte di Carofiglio e di chi la pensa come lui quando si tratta di difendere la vita nascente o la morte naturale. Non sono e non sarò mai dalla sua parte quando parla di “inclusione”, “rispetto”, “tolleranza” senza mai mostrare né tolleranza né rispetto per chi la pensa diversamente da lui. Non sono e non sarò mai per una ribellione a senso unico che finisce per veicolare nuove forme di asservimento e di sottile menzogna.

Infine – mi dispiace per il dottor Carofiglio – devo segnalare un suo grossolano errore a proposito della Divina Commedia (cfr. pag. 91). I suicidi non sono puniti nel secondo cerchio dell'inferno ma nel settimo, tra i violenti e non tra i lussuriosi. (1)

Questa mia recensione, per quanto prolissa, tocca soltanto di sfuggita la ricchezza di temi, di domande, di interrogativi sollevata dal libro. Un libro con cui ogni intellettuale conservatore deve assolutamente confrontarsi sia per sollevare il tono del dibattito sia per uscire più agguerrito dal confronto con un avversario di alto livello.

Giovanni Romano

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1. Per amore di verità, va detto che Carofiglio sarà stato tratto in inganno dalla presenza della suicida Didone tre i lussuriosi, assieme ad altre anime che avavano incontrato una morte violenta come Paolo e Francesca. Ma Didone è nel secondo cerchio solo perché Dante voleva mostrare le conseguenze tragiche della lussuria, non perché quel cerchio fosse destinato ai suicidi in quanto tali.

venerdì 19 aprile 2024

L'ultimo barbaglio di vita

 


"Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera."

Nella brevissima, folgorante poesia di Quasimodo c'è un particolare che denota tutta la sua statura di poeta e la sua finezza d'animo. Si tratta dell'ultima parola che ha adoperato: «sera».

Perché, viene da domandarsi, dopo l'immagine struggente del raggio di sole il poeta non ha usato la parola «notte»? Eppure è questa la parabola più ovvia dell'essere umano, così come è stata descritta da Samuel Beckett in Aspettando Godot, con immagini solo apparentemente simili a quelle di Quasimodo: «They gave birth astride of a grave, the lights gleam an instant, then it's night once more» («Ci han fatti nascere a cavalcioni di una tomba, le luci brillano un istante, poi è notte ancora una volta»).

Il motivo di questa diversità è duplice. Dal punto di vista della tecnica poetica, la parola «notte» avrebbe fatto precipitare il verso in un brutale anticlimax: cosa c'è di più ovvio, di più inevitabile della notte? La riflessione di Beckett si salva dalla banalità solo per la potente immagine della nascita a cavalcioni di una tomba e il brillare delle luci, non per la sconsolata conclusione.

Il secondo motivo è più profondo: la sera appartiene ancora all'uomo, è il suo ultimo spazio cosciente di riflessione, il suo ultimo appiglio verso la vita che ha vissuto, la finestra aperta verso il mistero che lo attende. Basta confrontare questa poesia con altri due grandi classici sul tema: Alla sera di Ugo Foscolo e la stupenda Viene adagio la sera di Rainer Maria Rilke. La notte può essere anch'essa oggetto di grande poesia (come nello splendido Notturno di Saffo), ma è il regno di forze primigenie ormai al di fuori dell'uomo, il regno della Necessità e non più quello della Libertà.

Scrivendo Ed è subito sera, Quasimodo ha compiuto il più bel gesto di fronte al destino che un poeta agnostico potesse compiere: non ci ha consegnati alla notte, ci ha congedati con un ultimo, tenace, indimenticabile barbaglio di vita.


Giovanni Romano