Per due anni ho fatto il pendolare in auto tra Corato e Ruvo di Puglia. Percorrevo la strada provinciale 231, ex SS 98, e mi capitava spesso di imbattermi in ciclisti, da soli o in gruppo, attrezzati di tutto punto su biciclette da corsa, con tute e caschi degni del Tour De France.
Confesso che più di una volta mi hanno reso la vita difficile, specialmente quando li ho trovati in gruppo nei pressi di una assurda, pericolosissima strettoia alle porte di Ruvo a causa di lavori mai completati. Ma non è di questo che voglio parlare. Piuttosto, mi colpiva una riflessione: quanti di questi attrezzatissimi ciclisti usano la bici come strumento normale di spostamento all'interno della città, come invece avviene in Emilia Romagna? Praticamente nessuno. Molti di loro - c'è da scommetterci - nella vita quotidiana li ritroviamo al volante di ingombranti SUV.
E allora, a che serve questa forma di ciclismo? E' puro salutismo e poco altro, nella migliore delle ipotesi un turismo ecologico per strade di campagna poco frequentate, ma non ha nessuna incidenza sulla vita quotidiana e sulla mobilità urbana, che almeno da queste parti resta affidata interamente alle auto private, con conseguente perenne intasamento del traffico.
Lo stesso discorso si può fare per le "biciclettate". Sono iniziative estemporanee che in fondo lasciano il tempo che trovano. Si pedala allegramente tutti in gruppo, ben protetti dalla polizia urbana, su strade accuratamente predisposte e sgomberate in anticipo, ma anche qui, finita la festa, si torna alle automobili, non si crea mentalità.
E' vero che - soprattutto ai fondi del PNRR - nei nostri paesi sono state predisposte piste ciclabili, ma la bicicletta, se vuole essere un vero mezzo di trasporto, non ha bisogno di "riserve indiane". Ha bisogno di riconquistare le strade normali. Quante vie della sola Corato ridiventerebbero larghe e transitabili se solo il 20% degli automobilisti tornasse alle due ruote!
A parte l'irrealizzabilità di questo desiderio (la mentalità dell'auto come status symbol, o la pigrizia pura e semplice, è troppo radicata), vanno tenuti presenti due ulteriori ostacoli. Il primo è l'eccesso di regolazioni che minacciano l'uso della bici: si vogliono introdurre obbligatoriamente casco, ginocchiere, parastinchi, guanti e chissà quant'altro. Nemmeno si dovesse partire per un safari. Furono proprio tutte queste regole a dissuadermi dal girare in bicicletta durante un mio viaggio in Canada: poi non meravigliatevi se da quelle parti l'obesità è una piaga sociale. La bicicletta è, e deve rimanere, il mezzo di trasporto più informale che ci sia: inforchi, pedali e vai. Senza attrezzature e senza formalità.
Il secondo ostacolo, paradossalmente, è la diffusione delle pseudo-biciclette elettriche, queste sì dannose per l'ambiente sia per l'inquinamento indiretto causato dalla ricarica delle batterie, sia dai costi di smaltimento delle dette batterie una volta esaurite. Non aiutano a irrobustire il fisico per colpa della "pedalata assistita", diventano pesantissime se le batterie si esauriscono. Senza contare che spesso sono montate da giovinastri o da ragazzini in vena di bullismo. Ditemi voi se veder sfrecciare una pseudo-bici a 50 km/h col semaforo rosso, e col rischio di investire i pedoni, è ciclismo, o piuttosto la sua fine.
Giovanni Romano

 
 
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