sabato 25 ottobre 2025

Il Sud non ha vinto, però combatte

 

Il primo pensiero che mi è venuto in mente, quando ho preso in mano questo libro, è che in un paese meno diviso del nostro un’opera del genere non sarebbe stata necessaria. Definire il rapporto tra Nord e Sud in termini di vittoria e sconfitta è il sintomo di un disagio grave, di una ferita non sanata. Libri del genere nascono in paesi nati non pacificamente, ma da un evento assai traumatico quale fu il nostro cosiddetto “Risorgimento”. Per fortuna, l’Autore ha meritevolmente evitato i due pericoli analoghi ma opposti che si presentano puntualmente quando si viene a trattare l’ormai incancrenita “questione meridionale”: da un lato, non ha chiamato in causa la retorica patriottarda neo-risorgimentale “alla Ciampi” che ha soltanto nascosto la polvere sotto il tappeto senza risolvere nessun problema reale; dall’altro, ci ha giustamente risparmiato le geremiadi dei neoborbonici, cantori illusi di un Regno delle Due Sicilie ricco, felice e bene amministrato, che in realtà non è mai esistito. Altrimenti non sarebbe crollato come un castello di carte nel giro di sei mesi o poco più.


Consentitemi di fare un passo indietro. Alla mia generazione hanno insegnato ad accendersi di sacro furore patriottico davanti a quel che dichiarò il primo ministro austriaco Metternich al Congresso di Vienna: “L’Italia è solo un’espressione geografica”. Solo molti anni dopo, grazie ai miei studi di scienze politiche e a mature riflessioni, mi è stato chiaro che - fatta la tara per la volontà di dominio dell’Impero austriaco sul Nord Italia - la frase non era affatto offensiva, era una semplice presa d’atto della realtà. Uno svedese, un norvegese, un finlandese o un danese si sono mai offesi nel sentir definire la Scandinavia “una espressione geografica”? Elementi di affinità tra le varie parti del nostro paese esistevano senz’altro anche prima dell’Unità, si poteva parlare a giusto titolo di “Italia” fin dai tempi di Dante e di Petrarca, ma i regimi politici erano differenti, le economie erano differenti, le strutture sociali erano differenti. La faglia Nord/Sud esiste davvero, e non serve a niente né esorcizzarla a forza di discorsi né invelenirla a forza di lamenti.


Che il Sud sia stato conquistato e occupato manu militari è fuori di dubbio. Che le attese di un cambiamento sociale e di un miglioramento delle condizioni di vita del popolo meridionale siano state disattese e tradite già durante la conquista garibaldino-piemontese, anche questo è fuori di dubbio. Che il Sud sia stato adoperato fin dall’inizio dell’Unità come vacca da mungere a forza di tasse, e soprattutto serbatoio di carne da cannone per le velleitarie e disastrose ambizioni della cricca “liberale” che giocava alla grande potenza, anche questo è un fatto. Il “problema” del Sud è stato sistematicamente “risolto” con l’emigrazione, sia verso altri paesi che verso il Nord, il che ha comportato depressione economica, drenaggio dei talenti e impoverimento demografico. Che dal momento della conquista piemontese in poi il Sud sia stato funzionale allo sviluppo del Nord, e per giunta continuamente vituperato e rimproverato per la sua “arretratezza”, anche questo è incontrovertibile, ed è il paradosso che Patruno ha messo giustamente in luce. Ma questo non fa altro che confermare il deterioramento di un rapporto già nato con il piede sbagliato.


E tuttavia, prima di affrontare il libro nel merito, mi sia consentito di puntualizzare due elementi che forse aiutano a chiarire la questione. Il primo è che il Sud non ha mai conosciuto i liberi comuni, ma solo la prepotenza di feudatari tanto oppressivi contro la popolazione quanto incapaci di difenderla contro le incursioni esterne, in particolare quelle provenienti dai paesi islamici. Il Sud non ha mai avuto una classe dirigente, solo una classe dominante. Di conseguenza è mancato - e in gran parte ancora manca - il senso civico che nasce dall’essere cittadini e non sudditi, dall’avere voce in capitolo nell’amministrazione della propria città, dal sentirsi responsabili per le cose che non vanno e non limitarsi al lamento. Senso civico che invece è ancora in gran parte presente al Nord. Pensiamo ad esempio alla diversa reazione nei confronti dell’ondata di furti che sta imperversando nel nostro paese: al Sud si chiede l’intervento dello Stato, percepito però come una entità remota, indifferente, dalle risorse perennemente insufficienti e sempre dirottate a settentrione. Al Nord invece, e non al Sud, si organizzano le ronde, i negozianti segnalano i truffatori nelle chat di quartiere o degli ordini professionali. Al Nord, e non al Sud, sono nate le società di mutuo soccorso e le Misericordie, un modello fortunatamente imitato anche qui.


Il secondo elemento, conseguente al primo, è che il Sud è stato sempre terra da invadere, una terra che - brigantaggio a parte - non ha mai opposto una significativa resistenza agli invasori, e anzi più di una volta ha sconsideratamente aperto le braccia a chiunque lo volesse occupare, fossero i bizantini gli arabi, i normanni, gli svevi, gli angioini, i Borboni, gli austriaci o i sabaudi, gli americani o i clandestini islamici. Tutti quanti hanno spadroneggiato più che governare, di fronte a una società civile praticamente inesistente, che peggio ancora si è sempre attesa la soluzione dei problemi proprio da chi veniva a crearcene altri. Al Sud è mancata una Pontida, una lega che si scrollasse di dosso dominatori dispotici e arroganti, anche perché le nostre classi dominanti - dominanti, insisto, non dirigenti! - si sono sempre mostrate disposte a qualunque compromesso con gli invasori pur di mantenere il proprio potere: Gattopardo docet. È vero che anche il Nord ha conosciuto dominazioni straniere - spagnoli e austriaci in primis - ma a fare da contrasto, a diventare egemone e ultimamente a vincere, c’era uno strato sociale che il Sud non ha avuto se non in misura irrisoria: una borghesia produttiva ed economicamente indipendente. Ci piaccia o meno, da noi al Sud è stato il feudalesimo ad affermarsi. Nei favoritismi, nell’inerzia burocratica, nello scarso senso civico, nell’aspettarsi la soluzione dei problemi sempre dall’intervento altrui.


E allora, dove sarebbe la vittoria del Sud? Qui stanno l’utilità e il valore del libro di Lino Patruno. La vittoria passa prima di tutto dalla presa di coscienza di noi meridionali sui rapporti di forza e sugli scopi che condizionano il rapporto squilibrato tra il Settentrione e il Meridione. Non ci vuole un corso di scienze politiche per capire che il sottosviluppo del Sud è funzionale allo sviluppo del Nord. Ma è proprio questo il punto della riscossa: il Sud non deve diventare la brutta copia del Nord. Il Sud possiede una storia propria, valori propri, e soprattutto un modo diverso di vivere: quel che Patruno chiama “la lentezza”.


Bisogna subito chiarire le idee: “Lentezza” non è sinonimo di apatia o di pressapochismo. È l’opposto della nevrosi da accumulo, della corsa affannosa dietro il profitto e il denaro, dell”efficienza” e dello sgobbare a tutti i costi, tre patologie che finiscono per isolare l’individuo e distruggono la sua personalità. Una volta ebbi l’occasione di incontrare una mia amica che da qualche anno era impiegata presso la segreteria del tribunale in una prospera provincia veneta. Mi raccontò che proprio nella sua circoscrizione, dove la gente si ammazza di lavoro durante la settimana e va a ubriacarsi nel weekend, e dove il lavoro fagogita tutta l’esistenza e non c'è posto per altri interessi - men che mai la cultura - è una delle zone con il più alto tasso in assoluto di malattie mentali e di esaurimenti nervosi in Italia. Non è questo il “modello di sviluppo” che ci interessa.


Lentezza” è dunque capacità di appassionarsi a quello che si sta facendo ma con un minimo di distacco e ironia, significa trovare tempo per guardare in faccia gli altri e coltivare i rapporti umani, non lasciarsi travolgere da ritmi insensatamente accelerati che alla fine non conducono da nessuna parte. L’Autore cita opportunamente un sociologo e filosofo che ho avuto la fortuna di avere come docente all’Università di Bari, il professor Franco Cassano. Uno studioso che come pochi altri ha saputo conciliare il rigore e l’approfondimento della sua disciplina con l’attenzione a ciascuno dei suoi studenti come persone. Lino Patruno cita una mole impressionante di dati, chiama in causa gli autori più disparati per dimostrare che la vita a misura d’uomo caratteristica del “pensiero meridiano” (ottima definizione elaborata dal professor Cassano) non solo è possibile ma anche necessaria, ultimamente più produttiva di una spasmodica e inconcludente corsa al denaro e alla carriera, che troppo spesso - aggiungo io - oggi si conclude solo col licenziamento.


A questo proposito, però, vorrei fare un’osservazione critica. Né Patruno né uno solo degli autori citati propongono quello che ai miei occhi è il sistema più pratico per reintrodurre concretamente, almeno in parte, un ritmo di vita più “lento”: l’abolizione dell’ora legale e il ritorno all’ora solare per tutto l’anno. Non voglio dilungarmi in polemiche, anche se sono più che pronto ad affrontarle, ma mi meraviglio che un provvedimento del genere non sia mai stato preso in considerazione, anzi che si proponga insensatamente il contrario. L’ora legale è l’ora dei padroni, un’alterazione violenta dei nostri ritmi biologici che non rende più lunga la giornata, se mai la rende più convulsa (“Come, sono già le otto?”), ci toglie il riposo ed è funzionale solo allo sfruttamento dei lavoratori. Ben lo sapevano gli operai della FIAT che negli anni ‘20 scioperarono invano contro di essa (il dimenticato “sciopero delle lancette”) solo per venire abbandonati dai loro stessi sindacati.


Questa però è una questione tutto sommato secondaria. L’interesse dell’Autore si focalizza giustamente su tre categorie di atteggiamenti, la ritornanza, la restanza e la resistenza, cui se ne aggiunge un quarto: la decisione di alcuni - purtroppo pochi - “nordici”, arrivati qui per scelta o più spesso per matrimonio o per lavoro, di trasferirsi definitivamente al Sud perché vi hanno trovato una qualità di vita migliore, e rapporti umani quasi assenti al Nord.


Ci sono due tipi di ritornanza, uno solo dei quali interessa l’Autore, e non a torto. Ritornanza non è il ritorno sconsolato dei vinti, di quelli sconfitti dal naufragio dei loro sogni oppure espulsi da un costo della vita ormai proibitivo, specialmente per gli insegnanti e gli impiegati, (due categorie alle quali il Nord attinge ampiamente se non esclusivamente dai meridionali, data la cattiva divisione del lavoro che caratterizza il nostro paese). La vera ritornanza è una scelta. È la decisione di quei meridionali che hanno studiato al Sud, sono andati a lavorare al Nord o all’estero, vi hanno maturato competenze ed esperienze lavorative e decidono di ritrasferirsi nella loro terra d’origine, aprendo attività artigianali, lavorando in ricerche di avanguardia nelle Università - a proposito, lo sapevate che l’Università della Calabria e quella di Napoli, per fare solo due esempi, possiedono istituti di ricerca scientifica a livello mondiale? -, rivitalizzando aziende agricole con procedimenti innovativi e rispettosi dell’ambiente, e soprattutto creando lavoro e occupazione in loco con le imprese da loro aperte.


Di questi esempi Lino Patruno fa un lunghissimo elenco, con nomi, cognomi, curricola, e sono storie affascinanti. Per questi uomini e donne (molto numerose e coraggiose queste ultime, davvero l”anello forte”) non è la nostalgia del paesello la spinta a ritornare, ma gratitudine e fierezza verso le proprie radici, senso di appartenenza e al tempo stesso di responsabilità, ricerca di un modo di vivere più umano che non gli sfibranti e assurdi ritmi lasciati al Nord o all’estero, e soprattutto voglia di contribuire, di infondere vita nuova a un Meridione lasciato deliberatamente indietro, inconsapevole della propria forza e dei propri meriti.


Altrettanto dicasi per le altre categorie: la restanza e la resistenza. La restanza è di coloro che scelgono di non partire, di non sentirsi sconfitti o inferiori prima ancora di aver tentato a intraprendere sul proprio territorio. E anche in questi casi sono citate storie di impegno, di fatica, di successo nonostante le tre gravi tare del Sud: una burocrazia pletorica, lenta e scarsamente efficiente, un fisco assurdamente punitivo e soprattutto la presenza della malavita organizzata (un tema a mio parere toccato troppo poco da Patruno, anche se forse l’Autore ha giustamente voluto evitare le scontate denunce di fenomeni già abbondantemente noti). Anche a questo proposito vorrei fare un’osservazione decisamente controcorrente: non la miseria crea la malavita, ma la malavita crea la miseria. Se fosse vero il contrario, le regioni più malavitose e pericolose d’Italia dovrebbero essere il mio Molise e la Basilicata, zone storicamente poverissime ma che non hanno mai conosciuto la criminalità mafiosa, mentre la malavita organizzata imperversa in regioni di per sé potenzialmente molto ricche come la Sicilia, la Campania e la Calabria.


E dunque, il Sud ha vinto? Personalmente la mia risposta è no, non ancora. Le iniziative descritte da Patruno sono molte e al di sopra di ogni elogio, ma la strada da percorrere è ancora lunga, passa soprattutto per un cambiamento di mentalità a livello politico: sarà un’impresa da giganti passare da una classe puramente dominante a una classe passabilmente dirigente. Però si sta silenziosamente creando una nuova società civile, un ceto produttivo che può cominciare a erodere la mentalità dello sconforto rassegnato, del clientelismo amorale, della deleteria abitudine di aspettare che qualcun altro venga a risolvere, miracolisticamente, i problemi al posto nostro.


Questo Meridione vincente, così ben descritto da Lino Patruno, combatte una guerra silenziosa, perseverante, quotidiana tanto all'interno, contro la sfiducia, l’arretratezza e l’apatia, quanto all’esterno, contro il pregiudizio e la sufficienza con cui il Sud è stato troppo a lungo considerato. Un libro come il suo è al tempo stesso una rivendicazione culturale, un bilancio dei risultati già raggiunti e un'indicazione per il futuro. Mi auguro, come ho scritto all’inizio, che prima o poi libri del genere non siano più necessari, ma nel frattempo c’è soltanto da desiderare che Il Sud ha vinto sia letto tanto al Sud, per farci riprendere coscienza della nostra identità e delle nostre potenzialità, quanto soprattutto al Nord, per contribuire a sfatare almeno qualche pregiudizio.


Giovanni Romano


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