“Ora di religione”? No, dogma laicista!
“Denaro e santità, metà della metà”, così recita una cinica massima laica. Probabilmente a questo pensava Marco Bellocchio quando ha girato il suo ultimo film, “L’ora di religione”. Sarebbe troppo facile liquidarlo come un pastiche di luoghi comuni, pregiudizi e insofferenze verso la Chiesa. Bisogna invece analizzarlo a fondo, se non altro perché l’impostazione ideologica del regista rispecchia un modo di pensare sempre più diffuso e sempre più apertamente ostile al cristianesimo.
La trama è piuttosto lineare ma ricca di risvolti: Picciafuoco, pittore famoso, ateo intransigente, in crisi di matrimonio e di creatività viene a sapere che i fratelli hanno promosso la causa di beatificazione della madre, donna religiosissima, uccisa molti anni prima dal figlio maggiore che non sopportava più di sentirsi rimproverare le continue bestemmie. Da questo momento comincia una lotta senza quartiere tra lui e il resto della famiglia spalleggiato dalla Chiesa, che vogliono coinvolgerlo a tutti i costi in un sordido business di fatto di denaro, menzogne e imbrogli. Si inventa una santità di sana pianta a colpi di siti Internet, di opuscoli, di santini disgustosamente kitsch per ottenere denaro, fama, potere. Ma i ricordi del pittore sono ben diversi: di santo la vita della madre non aveva proprio nulla. Era soltanto una mediocre devota, fin troppo rassegnata ai mali della vita, che aveva intristito i figli (e il maggiore in particolare, fino a farlo impazzire) con gli scrupoli e i sensi di colpa derivati dalla religione. Da qui il costante rifiuto dell’artista a partecipare alla sceneggiata, la lotta –vittoriosa, purtroppo– per strappare suo figlio dall’influenza della madre, del parentado e dell’“ora di religione”, l’abbraccio doloroso con il fratello pazzo che urla ancora più forte le sue bestemmie quando tutti si aspettano da lui la scena madre del grande pentimento.
Il film si chiude con un parallelo significativo: mentre la famiglia si reca tutta tronfia all’udienza privata con il Papa, il pittore accompagna suo figlio a scuola –una scuola laica e statale, beninteso– e il bambino passa trionfalmente accanto a una grande, palpitante bandiera dell’Unione Europea (quella stessa UE che ha “dimenticato” ogni riferimento al cristianesimo nella carta dei suoi diritti fondamentali). E’ inutile dire che la vicenda, per alcuni precisi riferimenti del regista, è ambientata nel 2000, l’anno del Grande Giubileo.
Una pellicola del genere pare la trasposizione cinematografica del libro dissacratore di Giordano Bruno Guerri contro Santa Maria Goretti “Povera santa, povero assassino”. Ma oltre ai temi famigliari dei film di Bellocchio (l’odio contro la famiglia considerata un inferno di frustrazioni e di alienazione, la sete d’amore destinata a non trovare risposta, l’impossibilità di liberarsi da un passato che pure si rifiuta con tutte le forze) qui c’è dell’altro: il desiderio di esorcizzare la Grazia, di ridurre il comportamento umano al gioco dell’istinto e del calcolo, di deridere chi si gioca la vita su un orizzonte più grande di sé. Come se avesse paura di farsi mettere in discussione dalle incursioni del Totalmente Altro… Non è successo niente, circolare, circolare!
Da questo punto di vista mi è parsa molto inopportuna la menzione speciale della giuria ecumenica al festival di Cannes, in quanto il film corrisponderebbe a “un interrogativo moderno di Dio che deve essere ascoltato [l’interrogativo, si badi bene: ad ascoltare Dio ci pensano in pochi, N.d.R.] perché il suo protagonista si oppone a tutti compromessi ed è l’espressione di una ricerca di identità e di verità”. No, è l’espressione soltanto di se stesso e dei suoi pregiudizi antireligiosi!
Contro tutte le apparenze, “L’ora di religione” è un film assai moralista. Bellocchio è dalla parte dei farisei che schernivano e minacciavano il cieco nato perché, imperfetto e peccatore com’era, osava testimoniare che Cristo l’aveva guarito. Lo si vede con grande evidenza dal modo in cui tratta il personaggio del miracolato, un ometto ingenuo, pasticcione e meschino, ma che non rinuncia all’unica evidenza grande della sua vita: è stata la preghiera indirizzata alla madre di Picciafuoco a salvarlo: questa certezza è più forte di ogni suo peccato e di ogni suo errore. Una cosa del genere per Bellocchio non può e non deve accadere. Certe domande non devono neppure essere poste. Questo forse aiuta a spiegare il motivo per cui il film è stato girato: è un attacco a quell’Italia che tenacemente resiste alla secolarizzazione, un attacco all’influenza e al prestigio della Chiesa, più o meno come lo scandalo dei preti pedofili negli USA è scoppiato –guarda caso– proprio quando i rapporti con la presidenza Bush non potevano essere migliori, e il rispetto per i cattolici mai era stato così alto, specialmente dopo l’11 settembre.
Se Bellocchio ha gli anni del ’68, in questo film li dimostra tutti, e specialmente nella seconda parte, quando la tensione rigorosamente costruita dall’inizio si dissipa in troppi episodi del tutto improbabili e fini a se stessi (l’assurdo duello, l’amplesso con la finta insegnante di religione). E’ questo, probabilmente, il destino di ogni film a tesi: quando si esauriscono i discorsi si deve chiudere tutto in fretta e furia, come capita capita, e tanto peggio per la verosimiglianza.
Due scene mi sono rimaste particolarmente impresse. La prima è quando la moglie di Picciafuoco, verso la fine, entra in punta di piedi nella stanza del bambino e lo battezza di nascosto. Un gesto di fanatismo? Forse no, perché in un film dove la santità è platealmente ostentata nessuno ne viene a sapere nulla, nemmeno il marito. Che sia un’immagine del futuro della nostra cristianità, vivere in un mondo dove un segno di croce dà fastidio, dove il cristianesimo è talmente estraneo e combattuto da costringere le madri a trasmetterlo di nascosto, come ai primi tempi? L’altra scena è il colloquio di Picciafuoco con un cardinale postulatore della causa di beatificazione che lo interroga sui fatti (almeno lui vuole saperli veramente!). A un certo punto Picciafuoco sbotta: “Ma insomma! Mia madre non faceva altro che dire: ‘Non fate questo, non fate quello!’ Mai una volta che dicesse cosa avremmo dovuto fare, invece che bestemmiare!”. Mi sembra uno dei pochi spunti veri del film: non appiattire la fede sulle proibizioni ma domandare sempre un di più per la vita.
Un’ultima nota sulla realizzazione: impeccabile e molto ben realizzata la fotografia, di buon livello gli attori, (in particolare l’interprete del fratello ex-terrorista). Nei panni di Picciafuoco un Sergio Castellitto in gran forma che però, verso la fine del film, per l’assurdità della trama perde colpi e passa da un’espressione intensa a una banale faccia stralunata.
La trama è piuttosto lineare ma ricca di risvolti: Picciafuoco, pittore famoso, ateo intransigente, in crisi di matrimonio e di creatività viene a sapere che i fratelli hanno promosso la causa di beatificazione della madre, donna religiosissima, uccisa molti anni prima dal figlio maggiore che non sopportava più di sentirsi rimproverare le continue bestemmie. Da questo momento comincia una lotta senza quartiere tra lui e il resto della famiglia spalleggiato dalla Chiesa, che vogliono coinvolgerlo a tutti i costi in un sordido business di fatto di denaro, menzogne e imbrogli. Si inventa una santità di sana pianta a colpi di siti Internet, di opuscoli, di santini disgustosamente kitsch per ottenere denaro, fama, potere. Ma i ricordi del pittore sono ben diversi: di santo la vita della madre non aveva proprio nulla. Era soltanto una mediocre devota, fin troppo rassegnata ai mali della vita, che aveva intristito i figli (e il maggiore in particolare, fino a farlo impazzire) con gli scrupoli e i sensi di colpa derivati dalla religione. Da qui il costante rifiuto dell’artista a partecipare alla sceneggiata, la lotta –vittoriosa, purtroppo– per strappare suo figlio dall’influenza della madre, del parentado e dell’“ora di religione”, l’abbraccio doloroso con il fratello pazzo che urla ancora più forte le sue bestemmie quando tutti si aspettano da lui la scena madre del grande pentimento.
Il film si chiude con un parallelo significativo: mentre la famiglia si reca tutta tronfia all’udienza privata con il Papa, il pittore accompagna suo figlio a scuola –una scuola laica e statale, beninteso– e il bambino passa trionfalmente accanto a una grande, palpitante bandiera dell’Unione Europea (quella stessa UE che ha “dimenticato” ogni riferimento al cristianesimo nella carta dei suoi diritti fondamentali). E’ inutile dire che la vicenda, per alcuni precisi riferimenti del regista, è ambientata nel 2000, l’anno del Grande Giubileo.
Una pellicola del genere pare la trasposizione cinematografica del libro dissacratore di Giordano Bruno Guerri contro Santa Maria Goretti “Povera santa, povero assassino”. Ma oltre ai temi famigliari dei film di Bellocchio (l’odio contro la famiglia considerata un inferno di frustrazioni e di alienazione, la sete d’amore destinata a non trovare risposta, l’impossibilità di liberarsi da un passato che pure si rifiuta con tutte le forze) qui c’è dell’altro: il desiderio di esorcizzare la Grazia, di ridurre il comportamento umano al gioco dell’istinto e del calcolo, di deridere chi si gioca la vita su un orizzonte più grande di sé. Come se avesse paura di farsi mettere in discussione dalle incursioni del Totalmente Altro… Non è successo niente, circolare, circolare!
Da questo punto di vista mi è parsa molto inopportuna la menzione speciale della giuria ecumenica al festival di Cannes, in quanto il film corrisponderebbe a “un interrogativo moderno di Dio che deve essere ascoltato [l’interrogativo, si badi bene: ad ascoltare Dio ci pensano in pochi, N.d.R.] perché il suo protagonista si oppone a tutti compromessi ed è l’espressione di una ricerca di identità e di verità”. No, è l’espressione soltanto di se stesso e dei suoi pregiudizi antireligiosi!
Contro tutte le apparenze, “L’ora di religione” è un film assai moralista. Bellocchio è dalla parte dei farisei che schernivano e minacciavano il cieco nato perché, imperfetto e peccatore com’era, osava testimoniare che Cristo l’aveva guarito. Lo si vede con grande evidenza dal modo in cui tratta il personaggio del miracolato, un ometto ingenuo, pasticcione e meschino, ma che non rinuncia all’unica evidenza grande della sua vita: è stata la preghiera indirizzata alla madre di Picciafuoco a salvarlo: questa certezza è più forte di ogni suo peccato e di ogni suo errore. Una cosa del genere per Bellocchio non può e non deve accadere. Certe domande non devono neppure essere poste. Questo forse aiuta a spiegare il motivo per cui il film è stato girato: è un attacco a quell’Italia che tenacemente resiste alla secolarizzazione, un attacco all’influenza e al prestigio della Chiesa, più o meno come lo scandalo dei preti pedofili negli USA è scoppiato –guarda caso– proprio quando i rapporti con la presidenza Bush non potevano essere migliori, e il rispetto per i cattolici mai era stato così alto, specialmente dopo l’11 settembre.
Se Bellocchio ha gli anni del ’68, in questo film li dimostra tutti, e specialmente nella seconda parte, quando la tensione rigorosamente costruita dall’inizio si dissipa in troppi episodi del tutto improbabili e fini a se stessi (l’assurdo duello, l’amplesso con la finta insegnante di religione). E’ questo, probabilmente, il destino di ogni film a tesi: quando si esauriscono i discorsi si deve chiudere tutto in fretta e furia, come capita capita, e tanto peggio per la verosimiglianza.
Due scene mi sono rimaste particolarmente impresse. La prima è quando la moglie di Picciafuoco, verso la fine, entra in punta di piedi nella stanza del bambino e lo battezza di nascosto. Un gesto di fanatismo? Forse no, perché in un film dove la santità è platealmente ostentata nessuno ne viene a sapere nulla, nemmeno il marito. Che sia un’immagine del futuro della nostra cristianità, vivere in un mondo dove un segno di croce dà fastidio, dove il cristianesimo è talmente estraneo e combattuto da costringere le madri a trasmetterlo di nascosto, come ai primi tempi? L’altra scena è il colloquio di Picciafuoco con un cardinale postulatore della causa di beatificazione che lo interroga sui fatti (almeno lui vuole saperli veramente!). A un certo punto Picciafuoco sbotta: “Ma insomma! Mia madre non faceva altro che dire: ‘Non fate questo, non fate quello!’ Mai una volta che dicesse cosa avremmo dovuto fare, invece che bestemmiare!”. Mi sembra uno dei pochi spunti veri del film: non appiattire la fede sulle proibizioni ma domandare sempre un di più per la vita.
Un’ultima nota sulla realizzazione: impeccabile e molto ben realizzata la fotografia, di buon livello gli attori, (in particolare l’interprete del fratello ex-terrorista). Nei panni di Picciafuoco un Sergio Castellitto in gran forma che però, verso la fine del film, per l’assurdità della trama perde colpi e passa da un’espressione intensa a una banale faccia stralunata.
Giovanni Romano
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