Quando le feci osservare che compravo più libri di quanti riuscissi a leggere, una mia amica libraia mi rispose con una frase che non ho mai dimenticato: “Ma i libri sanno aspettare”. Niente di più vero, e col tempo ho capito che i libri sanno aspettare anche nella mente, dopo essere stati letti, perché una frase, una scena, un pensiero possono riaffacciarsi a distanza di anni e rivelare significati ai quali sul momento non si era minimamente pensato.
Ma anche per la pagina bianca è così. Anche una pagina bianca sa aspettare che un pensiero prenda forma e maturi. Certo, il bianco nella sua deserta impassibilità può far paura. Ma confesso di non aver provato tanto il panico della pagina bianca quanto quello della pagina tormentata e imbrattata dalle cancellature. Se non fosse stato per il computer e per la sua infinita pagina bianca virtuale, per il testo che si presenta sempre pulito e ordinato anche dopo centinaia di correzioni, avrei smesso di scrivere da un bel pezzo. Quando scrivo sono incontentabile, e anche quando ho finito spesso il risultato mi delude, o quantomeno mi lascia dubbioso. Dentro di noi c’è infatti un libro perennemente non scritto, che in tantissimi non scriveremo mai, i pensieri più profondi, le immagini più vivide, le impressioni più forti che non riusciamo a esprimere. Un po’ come i musulmani parlano di una copia perfetta, increata del Corano custodita in cielo, della quale quelle sulla terra sono solo una pallidissima approssimazione.
E intanto la pagina bianca aspetta, e noi passiamo la vita illudendoci di riempirla, di spiegare una buona volta a noi stessi e agli altri il mistero che siamo, di quello che proviamo e di quello che abbiamo vissuto. Ma solo ai più grandi scrittori è dato anche solo avvicinarsi alle fonti stesse della propria umanità.
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