venerdì 13 luglio 2007

Uomini e ratti (neri)

Ieri sera ascoltavo distrattamente l'intramontabile "Superquark" con l'altrettanto intramontabile Piero Angela. Nel suo genere, è un esempio perfetto di divulgazione scientifica. Il mio, però, non è del tutto un complimento. Divulgare la scienza è certamente meritorio, specie in un paese a elevato analfabetismo matematico-scientifico come il nostro; tuttavia c'è il rischio -e Piero Angela condivide in pieno questa impostazione- di fare della scienza una panacea che, mentre dà l'impressione di poter rispondere a tutte le domande, in realtà ne mette a tacere altre, molto più fondamentali. Senza contare che la scienza si costruisce a partire da quel che si sa per andare verso quel che non si sa. In altre parole, la divulgazione è necessaria e utile, ma troppo spesso trasforma la scienza in una vetrina scintillante, mettendo in ombra invece il suo carattere fondamentale che è quello non dare niente per scontato e interrogarsi continuamente (interrogarsi, notiamo tra parentesi, è altro rispetto al "dubitare" che va di moda oggi).

Un buon esempio di questa indifferenza alle domande l'ho visto in questa trasmissione. tra i brevi servizi nella seconda parte ce n'erano alcuni veramente interessanti, come il rivoluzionario sistema di trasporti pubblici "TransMillennio" di Bogotà, il relitto di una Fortezza Volante sommerso poco distante il porto di Calvi n Corsica, una pudica pubblicità ai preservativi (e meno male che non hanno preso in giro chi sceglie la strada dell'astinenza, anche se l'hanno considerata una possibilità remota quanto un viaggio su Plutone), un servizio sulla bioinformatica (che sia la strada per rendere pensanti i computers?) e infine un'indagine sulle cause e le conseguenze delle grandi pestilenze che hanno imperversato in Europa fino alle soglie del secolo XVIII.

Proprio di queste vorrei parlare. Era invitato in studio un giovane docente universitario, elegante, garbato, sicuro di sé (come è giusto che sia), ma quasi con un'aria di divertito distacco. L'argomento invece era drammatico: le epidemie di peste, specialmente la Peste Nera, che praticamente dimezzarono la popolazione europea, ed ebbero conseguenze che andarono persino oltre quelle medico-sociali. Fu la Peste Nera, infatti (cosa che il docente non ha ricordato) a scuotere la fede in Dio dell'uomo medievale. Lo spettacolo continuo e spietato di una morte atroce, di fronte alla quale i superstiti erano assolutamente impotenti; la casualità con cui la malattia colpiva e risparmiava, non solo favorirono i movimenti millenaristi, ma ancora più a fondo fecero venir meno la convinzione che esistesse un Dio buono e provvidente.

Di queste cose però non si è parlato. Si è parlato piuttosto delle probabilità di una nuova pandemia (il professore ha ammesso allegramente che potrebbe fare più vittime della Spagnola), si è fatto osservare -e questo era veramente interessante- che le epidemie di peste sono scoppiate nel Mediterraneo quanto erano più intensi gli scambi commerciali pacifici con le civiltà orientali e specialmente con l'islam, mentre in tempo di guerra la peste non passava perché le frontiere erano chiuse. Infine si è parlato delle conseguenze, non necessariamente tutte negative, delle grandi epidemie: la manodopera disponibile diminuisce di molto, così che i lavoratori superstiti si fanno pagare di più, e il tenore di vita aumenta.

A parte la confutazione dell'idea "politicamente corretta" secondo cui l'apertura delle frontiere e la "contaminazione" sarebbero un bene in sé; a parte la constatazione che nel Medioevo è stato il mondo islamico a regalarci malattie nate dalla totale trascuratezza dell'igiene (ma non erano gli Arabi ad avere inventato i bagni pubblici e gli ospedali, come dice la vulgata scientista? Ma può darsi che fosse il rozzo Occidente a essere più vulnerabile alle epidemie, più o meno come gli indios nei confronti del morbillo), una cosa mi ha particolarmente colpito: a un certo punto il professore è uscito in una frase che in un attimo mi ha svelato tutta una mentalità: "Sembra proprio che nella storia ci sia una costante: non appena la popolazione diventa eccessiva, interviene un'epidemia a riequilibrare la situazione". Al che Piero Angela ha assentito entusiasta.

E' l'ideologia dell'"uomo-cancro-del-pianeta". La stessa ideologia che ha fatto dire al Principe Filippo di Edimburgo, presidente mondiale del WWF, nonché noto massone e occultista, che se dovesse rinascere (da bravo occultista, è logico che creda nella reincarnazione) vorrebbe essere un virus mortale "per contribuire a risolvere il problema della sovrappopolazione". E non era, purtroppo, una delle sue solite gaffes. Faceva specie la freddezza assoluta con cui il professore e il giornalista consideravano che fosse "naturale" che un'epidemia sterminasse metà della popolazione del pianeta, quasi un mezzo naturale di regolazione, certo più efficace del controllo delle tanto odiate nascite.

Poniamo però il caso che l'epidemia scoppi per davvero e colpisca anche loro, non direttamente però, ma nelle loro famiglie. Cosa penserebbe Piero Angela se –ai cani dicendo- gli morisse prematuramente il figlio Alberto? Cosa penserebbe il giovane professore se vedesse agonizzare sotto i suoi occhi un suo bambino o una sua bimba piccola? Penserebbero anche in questo caso che si tratta solo di "popolazione superflua" che è giusto far scomparire? O l'eventualità di cui si parla tanto alla leggera in questo talk-show scientista diventerebbe una realtà da strappare le viscere, e li metterebbe di fronte a dimensioni della loro personalità e a domande alle quali, grazie alla Scienza, non pensano nemmeno?

Giovanni Romano

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