lunedì 16 luglio 2007

Il mistero di Yamamoto

Il 18 aprile 1943, sulle isole Salomone, un agguato di caccia americani abbatteva l’aereo dove viaggiava l’Ammiraglio Isoroku Yamamoto, comandante in capo della flotta giapponese. I potenti bimotori P-38 Lightning, decollati da Guadalcanal, compirono un’impresa ai limiti dell’impossibile: un volo di quasi 2.000 km tra andata e ritorno, grazie all’installazione di serbatoi supplementari inviati appena la sera precedente, e un’intercettazione estremamente precisa, nel posto e nel momento esatto. L’attacco fu fulmineo e spietato. Vennero abbattuti sia l’aereo di Yamamoto che quello del suo capo di stato maggiore, l’ammiraglio Ugaki (che però sopravvisse, pur gravemente ferito), oltre a tutti e sei i caccia Zero della scorta. Dal canto loro gli americani persero un solo pilota sui diciotto inviati. Altri sei aerei più o meno gravemente danneggiati riuscirono comunque a tornare alla base. Il conto con l’uomo di Pearl Harbor era stato saldato.

Su questo abbattimento e sulle sue conseguenze si è detto e scritto di tutto (la mia fonte è il libro un po’ datato di Bernard Millot, “La guerra nel Pacifico”, 1968). Si sa perfettamente, ormai, che l’intercettazione poté avvenire perché gli americani avevano decifrato il codice segreto della marina giapponese (il che, tra l’altro, li aveva condotti alla vittoria nella decisiva battaglia di Midway nel giugno dell’anno precedente). Quel che resta però un mistero è una domanda ovvia: com’è possibile che i giapponesi, dopo una simile débacle, non si fossero resi conto che il loro codice era stato violato, e che l’abbiano mantenuto inalterato fino alla fine della guerra, con conseguenze calamitose per loro? Eppure un’intercettazione tanto precisa, a così grande distanza dalle basi, con forze più che sufficienti ad annientare la scorta dei caccia, non poteva essere semplicemente un colpo di fortuna, e avrebbe ben dovuto mettere in allarme!

Osserviamo, di passaggio, che gli Alleati vinsero a mani basse la guerra dell’intelligence, sia a livello di spie che a livello di cifrari. Gli inglesi, con il computer ULTRA, violarono la crittatrice tedesca ENIGMA (adoperata anche dalle forze armate italiane, purtroppo per noi). Gli americani riuscirono a decifrare i codici della marina giapponese (non quelli dell’esercito, però, il che li espose a più di una amara sorpresa). Gli stati maggiori dell’Asse, dal canto loro, sospettarono la presenza di traditori nelle loro file, ma non giunsero mai a immaginare che il nemico fosse arrivato a leggere in chiaro tutti i loro dispacci (sull’argomento si veda l’opera ormai classica del professor Alberto Santoni “Il vero traditore”).

Può darsi che nel caso dell’Ammiraglio Yamamoto giocasse un fattore al quale fa cenno Millot, pur se a proposito di altre battaglie: la tradizionale rigidezza giapponese, la riluttanza ad allontanarsi dagli schemi prestabiliti elaborati con tanta cura. Credo però che questa non sia soltanto una caratteristica nipponica bensì di tutti i regimi autoritari, dove non esiste circolazione di idee e di esperienze. Se non è permesso osservare liberamente la realtà, né trarre le conclusioni appropriate senza timori reverenziali, fatalmente si finisce per bloccarsi in una rete di schemi prestabiliti. L’Ammiraglio Yamamoto, una persona ammirevole quanto a preparazione, serietà e perspicacia, era però vincolato anch’egli ai limiti propri della sua cultura: assai rigido nei suoi piani e quasi incapace di cambiarli se la situazione evolveva come lui non aveva previsto (lo si vide a Midway). Come ogni “primo della classe” pensava di dare il buon esempio ai subordinati esigendo il massimo da se stesso, specialmente in fatto di puntualità. Ma fu proprio la sua leggendaria puntualità a costargli la vita. Gli americani poterono giocare d'azzardo all'estremo perché erano sicuri che Yamamoto avrebbe rispettato al minuto i tempi previsti. Per un capo in tempo di guerra, paradossalmente, questo è più un pericolo che una virtù (Hitler, ad esempio, volutamente non rispettava mai i suoi orari, il che lo salvò da più di un attentato). Lo stesso rifiuto di allontanarsi dagli schemi prestabiliti, probabilmente, operò anche dopo la morte dell’Ammiraglio. Non si volle nemmeno prendere in considerazione che il nemico avesse il completo dominio dell’intelligence.

Del tutto opposta la situazione nel campo americano (che, non dimentichiamolo, era una democrazia). Il messaggio relativo al viaggio di Yamamoto fu intercettato alle 6,36 del 17 aprile da una postazione nelle isole Aleutine (!), ritrasmesso con precedenza assoluta a Washington e immediatamente decifrato. Il segretario di stato Frank Knox ne venne a conoscenza alle 11 del mattino, e dopo una breve riunione con gli esperti dell’aviazione la decisione venne presa alle 15,35. Un messaggio urgente e segretissimo scavalcò tutta la trafila dei comandi e pervenne direttamente al 339° gruppo caccia di Guadalcanal, che avrebbe dovuto abbattere l’ammiraglio. Un altro messaggio inviato in Australia richiese l’invio immediato dei serbatoi supplementari alla base dei caccia. Entro le 17,10 i piloti americani erano a conoscenza della loro missione e del piano giapponese completo in tutti i dettagli. Alle 18,45 tutte le decisioni operative erano già state definite. Alle 21 arrivarono dall’Australia 4 grossi quadrimotori Liberator carichi dei serbatoi supplementari. I meccanici lavorarono fino alle 5 del mattino per installarli. Il decollo avvenne alle 6,20, e alle 9,35, con precisione cronometrica, i giapponesi si presentarono al tragico appuntamento sopra l’isola di Bougainville (cfr. Millot, op.cit., pp.479-481).

Riassumendo, dall’intercettazione del messaggio fino all’abbattimento di Yamamoto passarono appena ventisette ore. In un lasso di tempo tanto breve era stato possibile decifrare il messaggio, riunire gli esperti, prendere decisioni al massimo livello, individuare e mobilitare le forze sul campo a mezzo mondo di distanza, elaborare un piano operativo senza precedenti e mettere in grado di eseguirlo uomini e mezzi che mai prima avevano fatto niente del genere. Un tour de force di coordinazione informale, comunicazioni rapide ed efficaci, superiorità tecnica e logistica che probabilmente resterà unico nella storia delle guerre. Una vittoria non solo dell’intelligence, ma dell’intelligenza di chi, per fortuna, poteva prendere decisioni con la massima libertà e rapidità, senza i condizionamenti di un sistema militarista e autoritario.

Vista da questa prospettiva, Bougainville fu anche una tra le fin troppo rare vittorie della libertà.

Giovanni Romano

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