Caro Giulio,
ho risposto sul mio sito alla tua osservazione riguardante l’accanimento terapeutico, qui invece rispondo per esteso al tuo post, nel quale - come ti avevo preannunciato - ho trovato ambiguità e punti non condivisibili. Avrei voluto pubblicarla direttamente sotto il tuo articolo, ma il blog non me l'ha concesso. Forse la risposta era troppo lunga. Chi volesse leggere il tuo post può cliccare qui.
E’ indiscutibile che gli uomini cerchino di vivere e soprattutto di stare bene il più a lungo possibile. Ortega y Gasset diceva che all’uomo non basta “essere” come “è” una pietra, una pianta o un animale, ma vuole il ben-essere (in tutta la densità del termine), e questo ovviamente esige la dimensione del significato.
Credo però che i casi di pazienti che “vivono attaccati alle macchine” siano tutto sommato rari (Eluana, ad esempio, non viveva attaccata a nessuna macchina, tutte le sue funzioni fisiologiche erano normali) e molto amplificati dalla propaganda dei mass media che cercano ormai apertamente di inculcare una mentalità eutanasica.
Dalle tue stesse parole, poi, emerge che il problema della sofferenza non riguarda tanto i degenti (che vogliono vivere, e vogliono qualcuno che gli stia accanto fino all’ultimo) quanto coloro che gli sono intorno, e che spesso non reggono al peso della sofferenza e soprattutto alla mancanza di speranza. Ed è proprio il termine “speranza” che va chiarito.
Dire: “Tutti gli esseri che nascono sono destinati alla morte” non è altro che un brutale truismo, e se ci fermassimo a una constatazione così ovvia e sconsolata, di fronte a un orizzonte così chiuso, dovremmo ammettere che la nostra civiltà è arrivata al capolinea. La nostra “hybris” ci ricade addosso, perché abbiamo caricato la scienza di aspettative che non può soddisfare e di una onnipotenza che non ha. Da questo punto di vista, può darsi che sia più umano e felice l’uomo cristiano, per cui la morte non è la fine di tutto, e la vita un tempo di prova in vista di una vita più grande.
Puoi certamente dire che questa è un’illusione, che il cristianesimo è una superstizione ormai superata dalla scienza, ma resta il fatto che il modo in cui guardiamo all’altro mondo determina il modo in cui viviamo in questo mondo. L’antichità pagana abbandonava gli anziani, i malati, i bambini malformati, tanto che i cristiani cominciarono a distinguersi dai pagani altri proprio perché non abbandonavano i bambini e avevano cura dei più deboli. L’ospedale è invenzione dei “secoli bui” (mai un’epoca, come l’Illuminismo, ha tanto spudoratamente calunniato un’altra).
Questo non significa - bada bene! - che la “speranza” si identifichi con la “vita a ogni costo”, bensì con la convinzione che nessun momento della vita è senza importanza, nessuna condizione è sprecata o inutile. Prima, ci si radunava tutti intorno al letto di un moribondo per ascoltare le sue ultime parole, anche nel dolore era possibile imparare e comunicare qualcosa, la morte non era semplicemente uno scandalo o una sofferenza fine a se stessa.
L’atteggiamento di Mario in ospedale ricorda invece quello di Bernard Marx in “Brave New World” (un libro da leggere assolutamente per capire il periodo che stiamo vivendo): la sua educazione scientifica, la sua vita al riparo da ogni sofferenza gli ispiravano non la pietà ma il ribrezzo di fronte a quelli che vedeva soffrire.
Chi ragiona ormai solo in termini di potere e di utilità può arrivare al sofisma di dire che ci si “accanisce contro persone inermi”. E’ possibile arrivare a mentire così tanto? Lo ripeto: sull’accanimento terapeutico la Chiesa parla chiaro, vedi art. 2278 del Catechismo:
Altre interpretazioni sono uno stravolgimento malizioso, anzi demoniaco, perché si esalta come un eroe chi vuole la morte e si accusa di crudeltà chi vuole curare e assistere.
Mi ha fatto pertanto molto dispiacere accorgermi che le ultime parole del tuo scritto suonano come una vera apologia dell’abbandono terapeutico.
Giovanni Romano
ho risposto sul mio sito alla tua osservazione riguardante l’accanimento terapeutico, qui invece rispondo per esteso al tuo post, nel quale - come ti avevo preannunciato - ho trovato ambiguità e punti non condivisibili. Avrei voluto pubblicarla direttamente sotto il tuo articolo, ma il blog non me l'ha concesso. Forse la risposta era troppo lunga. Chi volesse leggere il tuo post può cliccare qui.
E’ indiscutibile che gli uomini cerchino di vivere e soprattutto di stare bene il più a lungo possibile. Ortega y Gasset diceva che all’uomo non basta “essere” come “è” una pietra, una pianta o un animale, ma vuole il ben-essere (in tutta la densità del termine), e questo ovviamente esige la dimensione del significato.
Credo però che i casi di pazienti che “vivono attaccati alle macchine” siano tutto sommato rari (Eluana, ad esempio, non viveva attaccata a nessuna macchina, tutte le sue funzioni fisiologiche erano normali) e molto amplificati dalla propaganda dei mass media che cercano ormai apertamente di inculcare una mentalità eutanasica.
Dalle tue stesse parole, poi, emerge che il problema della sofferenza non riguarda tanto i degenti (che vogliono vivere, e vogliono qualcuno che gli stia accanto fino all’ultimo) quanto coloro che gli sono intorno, e che spesso non reggono al peso della sofferenza e soprattutto alla mancanza di speranza. Ed è proprio il termine “speranza” che va chiarito.
Dire: “Tutti gli esseri che nascono sono destinati alla morte” non è altro che un brutale truismo, e se ci fermassimo a una constatazione così ovvia e sconsolata, di fronte a un orizzonte così chiuso, dovremmo ammettere che la nostra civiltà è arrivata al capolinea. La nostra “hybris” ci ricade addosso, perché abbiamo caricato la scienza di aspettative che non può soddisfare e di una onnipotenza che non ha. Da questo punto di vista, può darsi che sia più umano e felice l’uomo cristiano, per cui la morte non è la fine di tutto, e la vita un tempo di prova in vista di una vita più grande.
Puoi certamente dire che questa è un’illusione, che il cristianesimo è una superstizione ormai superata dalla scienza, ma resta il fatto che il modo in cui guardiamo all’altro mondo determina il modo in cui viviamo in questo mondo. L’antichità pagana abbandonava gli anziani, i malati, i bambini malformati, tanto che i cristiani cominciarono a distinguersi dai pagani altri proprio perché non abbandonavano i bambini e avevano cura dei più deboli. L’ospedale è invenzione dei “secoli bui” (mai un’epoca, come l’Illuminismo, ha tanto spudoratamente calunniato un’altra).
Questo non significa - bada bene! - che la “speranza” si identifichi con la “vita a ogni costo”, bensì con la convinzione che nessun momento della vita è senza importanza, nessuna condizione è sprecata o inutile. Prima, ci si radunava tutti intorno al letto di un moribondo per ascoltare le sue ultime parole, anche nel dolore era possibile imparare e comunicare qualcosa, la morte non era semplicemente uno scandalo o una sofferenza fine a se stessa.
L’atteggiamento di Mario in ospedale ricorda invece quello di Bernard Marx in “Brave New World” (un libro da leggere assolutamente per capire il periodo che stiamo vivendo): la sua educazione scientifica, la sua vita al riparo da ogni sofferenza gli ispiravano non la pietà ma il ribrezzo di fronte a quelli che vedeva soffrire.
Chi ragiona ormai solo in termini di potere e di utilità può arrivare al sofisma di dire che ci si “accanisce contro persone inermi”. E’ possibile arrivare a mentire così tanto? Lo ripeto: sull’accanimento terapeutico la Chiesa parla chiaro, vedi art. 2278 del Catechismo:
L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'“accanimento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente.
Altre interpretazioni sono uno stravolgimento malizioso, anzi demoniaco, perché si esalta come un eroe chi vuole la morte e si accusa di crudeltà chi vuole curare e assistere.
Mi ha fatto pertanto molto dispiacere accorgermi che le ultime parole del tuo scritto suonano come una vera apologia dell’abbandono terapeutico.
Giovanni Romano
2 commenti:
Ciao Giovanni,
Dire che tutti sono destinati alla morte, può sembrare banale, ma è un evento che non si può eludere, e che tuttavia spesso si vuole rimuovere dalla nostra attenzione...
Non ritengo affatto che aver presente tale verità sia un'apologia dell'abbandono terapeutico, anzi potrebbe fare amare di più il dono della vita, e quindi rispettarla in sé stessi e negli altri.
Né è mia intenzione mettere in discussione la dottrina della Chiesa.
La mia è una semplice riflessione sulla conoscenza, che vedo strettamente connessa con la libertà e la responsabilità.
Lo sviluppo della scienza medica sta svelando e quindi modificando alcuni momenti significativi della vita, soprattutto la nascita e la morte. Tale incremento di conoscenza ci pone necessariamente difronte ad una maggiore libertà e conseguentemente ad un'ulteriore responsabilità.
Anche la Chiesa nell'art 2278 del Catechismo, da te citato, afferma che il paziente o coloro che ne hanno legalmente il diritto devono prendere la decisione di interrompere le procedure mediche... affermazione che nessuno avrebbe espresso non molto tempo addietro.
Quando devono decidere e su quali principio possono decidere? Io, banalmente affermavo nel mio post, quando si perde la speranza, ovvero quando non si intravedono cure efficaci che possono offrire delle possibilità accettabili di vita. (In realtà la speranza di vita non viene meno facilmente)
Scusami se sono banale, ma nella “banalità” spesso vedo il senso comune o il buon senso condiviso dal popolo.
A presto, Giulio.
Caro Giulio,
grazie per la risposta, ma sono ancora meno d'accordo di prima. E' precisamente l'abbandono terapeutico quello che rimuove la morte dalla nostra attenzione. Non so poi se lo sviluppo della scienza medica abbia effettivamente portato a modificare eventi come la nascita e la morte, o non ci abbia dato semplicemente l'illusione di padroneggiarli.
Se mai, per come la vedo io, ha portato a un maggiore arbitrio dell'uomo sull'uomo.
Abbiamo maggiore libertà, certo, ma un grado di responsabilità molto minore. E' notizia di questi giorni che nella "civilissima" Svezia è stato tacitamente ammesso il principio dell'aborto selettivo se il sesso del nascituro non è quello desiderato. Che cosa è questo se non eugenetica della peggiore specie?
Direi che i principi sui quali si può decidere sono quelli dell'evidenza, e qui è importante l'alleanza terapeutica tra il medico e il paziente, che invece il sedicente "testamento biologico" vuole togliere di mezzo per sostituirla con l'arbitrio del malato, per giunta molto prima che una situazione di effettiva incurabilità si sia verificata. Poi, scusami, non vedo come una colpa il fatto che la speranza di vita non venga abbandonata facilmente... ma sta' tranquillo, già su Radio 24 sentivo dei medici che si sforzavano di persuadere "amichevolmente" i pazienti terminali che la loro esistenza ormai era superflua, e che sarebbe stato un atto di grande "altruismo" acconsentire a essere tolti di mezzo.
Il "senso comune" o il "buon senso condiviso dal popolo" io l'ho visto nel dolore e nello sgomento per l'assassinio premeditato di Eluana Englaro, nello spontaneo minuto di silenzio in parlamento, nel non rassegnarsi semplicemente a morire ma nella ricerca di un senso a tutto quello che accade, morte compresa.
Sai meglio di me che Vico identificava nelle nozze, nei tribunali e nei riti funebri i tre segni di una civiltà umana. Abbiamo corrotto la giustizia, svilito il matrimonio e privata di senso la morte. Possiamo ancora definirci esseri umani, a queste condizioni?
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