giovedì 8 ottobre 2009

Moral Minority

In questi giorni il sistema politico italiano è in fibrillazione come forse nemmeno durante gli anni di piombo. Se allora la classe politica si era compattata contro il comune nemico terrorista, ormai da anni il paese vive un contrasto sempre più drammatico tra due schieramenti che ormai si disconoscono apertamente a vicenda.

Cosa del tutto incomprensibile in un paese “normale”, più larga è stata la maggioranza con cui è stato eletto l’attuale governo e sempre più travagliato e difficile è il suo cammino. Già prima della sentenza sul lodo Alfano, lasciava sconcertati la ridda di voci sulle elezioni anticipate, sulle dimissioni, sul dopo-Berlusconi. Tutto questo con una maggioranza solida, con un programma di governo chiaro e in piena attuazione, con un consenso popolare che nessun altro governo aveva raggiunto negli ultimi anni.

In questa situazione surriscaldata, la sentenza della Consulta ha fatto l’effetto di un fiammifero in una polveriera. Incontrollatamente impulsivo come sempre, Berlusconi ha inveito contro tutto e tutti, pronunciando parole incaute anche contro il Presidente della Repubblica e aprendo una crisi istituzionale molto pericolosa. Si è comportato esattamente come i suoi avversari volevano, scagliandosi a testa bassa come un toro contro il drappo rosso. E il drappo rosso -è il caso di dirlo!- è la Presidenza della Repubblica, considerata a torto o a ragione ancora una istituzione super partes.

Quello che m’interessa qui, però, non è giudicare della sua colpevolezza, né della fondatezza della sentenza della Corte Costituzione (ineccepibile in linea di principio). I penalisti hanno fatto notare che, sul piano strettamente processuale, le conseguenze per Berlusconi potrebbero essere scarse o addirittura nulle, perché sui processi incombe la prescrizione. Ma è chiaro che l’immagine di un premier perennemente sotto processo diventa politicamente insostenibile tanto sul piano interno quanto su quello internazionale. E se è vero che nessuno, nemmeno i “poteri forti”, in questo momento vuole la sua caduta, quel che realmente interessa tutti i suoi avversari è un governo politicamente azzoppato e dunque condizionabile.

Le implicazioni della vicenda sono in realtà ben più ampie, perché attraverso Berlusconi si vuole processare tutto il suo elettorato, tutta la maggioranza del paese che lo ha eletto. E’ qui che è entrata in gioco una vera e propria “moral minority” rappresentata da giornali laici, dalla TV di stato, dal mondo dello spettacolo, dalla stragrande maggioranza degli intellettuali allineati sul “politically correct”. Una lobby abituata alle passerelle senza contraddittorio sui giornali e in TV, all’arroganza e al disprezzo contro quelli che considera gli “incolti”, i “furbi”, i “delinquenti”, i “ladri”, i teleutenti “lobotomizzati” da Mediaset che si sarebbero fatti incantare dalla propaganda berlusconiana, oppure voterebbero il centro-destra perché rispecchia e alimenta le psicosi sulla sicurezza, la xenofobia, l’avversione agli immigrati e ai “diversi” .

Come è stato giustamente osservato, se il centro-sinistra mantiene questo atteggiamento di razzismo etico non fa altro che regalare voti a Berlusconi. E’ pura utopia sperare che degli elettori trattati sistematicamente da ladri e imbecilli, dopo una campagna di stampa tanto spietatamente denigratoria quanto scopertamente orchestrata, si volgeranno d’incanto alla sinistra quasi fosseo folgorati sulla via di Damasco.

Il punto è che alla sinistra non interessa essere legittimata dal voto popolare. Quello che vuole realmente è demoralizzare l’elettore medio del Pdl, fargli sentire il peso della disapprovazione dei benpensanti nostrani ed esteri, ricattarlo coi sensi di colpa, fargli pesare tutta la sua “inferiorità morale”, e se proprio non riesce a fargli cambiare parere, indurlo almeno a disertare le urne. Solo togliendo di mezzo il paese reale si può portare a termine dall’alto la “modernizzazione”, dal momento che il popolo -quello vero, non quello delle piazze antiberlusconiane- si tiene ancora incomprensibilmente attaccato a valori come la vita e la famiglia, manifesta qualche legittima perplessità sull’invasione indiscriminata dei clandestini, e non si lascia certo incantare dalle statistiche rassicuranti anche di matrice cattolica sulla diminuzione della criminalità.

No, alla sinistra non basta governare, deve educare! La maggioranza ottusa va guidata pure a suo dispetto, verso gli interessi “superiori”. Magari a suon di tasse e leggi contro l’”omofobia” e il “razzismo”. In questa sua ansia “pedagogica”, la sinistra rassomiglia veramente a una maestra di scuola sessantottina logorata da lunghi anni di frustrazioni, perennemente scontenta e querimoniosa contro i propri scolari tenuti sempre in stato di minorità, tutti potenzialmente sospettabili. Non pensare, c’è la sinistra che pensa per te! Non conosco nessuna forma di governo più tetra. Ma se davvero si volesse governare il paese in questo modo, soffocandolo e falsificandolo, si andrebbe incontro a delle tensioni sociali difficilmente controllabili se non con un vero e proprio regime.


E’ paradossale che a incarnare il desiderio di libertà e di realizzazione da parte di tanta gente comune sia un multimiliardario. Il paternalismo che spesso ispira i ricchi? L’adorazione popolare verso chi ha raggiunto il successo? L’identificazione con Berlusconi come figura “antipolitica”, più istintivamente vicina alla gente dei bizantinismi e delle prediche del Palazzo? L’illusione dell’“erichez-vous” riservato in realtà a chi i soldi già li possiede? Non so. Quello che è certo è che Berlusconi, nel bene e nel male, è stato finora una smentita vivente all’egemonia ideologica della sinistra. Se si fosse accontentato di far soldi in santa pace probabilmente l’avrebbero lasciato stare. Ma non ha mai voluto allinearsi ai “salotti buoni”, non ha fatto riverenze a nessuno. Pur con le sue goffaggini, i suoi eccessi potenzialmente pericolosi e i suoi limiti, incarna un’Italia che semplicemente vuole esistere, senza chiedere il permesso ai soloni di casa nostra, né tantomeno al “Times” o all’”Economist”.

Giovanni Romano

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