domenica 31 ottobre 2010

Piccolo innocuo antidoto per Halloween...


Lo ammetto, gli anni scorsi avevo preso Halloween molto più sul ridere, ma mi sto ricredendo mano a mano che ho visto quanto stia dilagando una mentalità impregnata di morte. Non credo però che il rimedio sia scagliarsi a testa bassa contro questa "festa" (chiamiamola così: che cosa ci sia da festeggiare negli scheletri, nelle tombe e nei fantasmi proprio non lo so).

Personalmente ho trovato un piccolo rimedio, o meglio mi è capitato di trovarlo senza pensarci. Avevo notato che da molti anni ormai non ci si fanno più gli auguri di Buon Onomastico per la Festa di Ognissanti. E allora ieri, prima che la scuola chiudesse per un paio di giorni, ho augurato Buon Onomastico a tutti i colleghi che ho incontrato e alle classi dove sono stato presente.

Ho visto negli occhi di tutti un breve lampo di meraviglia, ma nessuno, dico nessuno, si è mostrato scontento o si è offeso. I più anzi mi hanno ricambiato di cuore l'augurio, quasi con gratitudine perché qualcuno si è ricordato di loro e gli ha fatto capire che erano importanti, e che la loro presenza era una cosa buona.


A quale punto di deserto spirituale siamo arrivati, ho riflettuto, se nessuno ormai si aspetta più niente? O meglio, siamo noi cristiani ad aver dimenticato che il cristianesimo è innanzitutto positività, non moralismo. Un augurio vale più di mille prediche, perché ci sono molti più cuori addormentati che cuori cattivi. E c'è bisogno di risvegliarli.
Giovanni Romano

venerdì 29 ottobre 2010

Il relativismo è scuola di indifferenza verso la vita umana: la "lectio magistralis" dell'Arcivescovo di Denver






Dal sito Catholicnewsagency.com propongo questa riflessione impietosa e coraggiosamente controcorrente dell'Arcivescovo di Denver durante un seminario di studi tenuto in Canada. Certe esperienze d'oltreoceano meritano di essere conosciute anche qui perché la situazione è ormai identica. Buona lettura.



Oggi i giovani hanno perso “il vocabolario morale”,
dice l'arcivescovo Chaput



VICTORIA, Canada, 16 ottobre 2010 / 06:08 (CNA/EWTN News) – Parlando a una conferenza nella Columbia Britannica, l'arcivescovo di Denver Charles Caput ha affermato che i cattolici oggi hanno mancato di trasmettere la fede alla prossima generazione, il che ha avuto come risultato che i giovani hanno perso il loro “vocabolario morale”.

Il prelato di Denver ha pronunciato le sue osservazioni il 15 ottobre durante il seminario “La fede nello spazio pubblico” sponsorizzato dalla Diocesi di Victoria, aprendo il suo discorso con un riferimento al famoso racconto breve di Shirley Jackson “La lotteria”.

Il racconto della Jackson – ambientata nell'America rurale degli anni '40 – racconta la storia di una piccola città che si riunisce ogni anno per implorare una forza senza nome affinché conceda alla gente un buon raccolto di granturco. Ogni anno gli abitanti della cittadina estraggono un pezzo di carta da una scatola di legno per vedere chi sarà scelto per un sacrificio umano. Una giovane madre finisce per estrarre il funesto biglietto nero e viene lapidata dalla comunità come parte del rituale annuale.

Riflettendo sul brano della Jackson, l'arcivescovo Chaput ha citato l'analisi della professoressa Kay Haugaard sul modo in cui nei decenni scorsi i giovani universitari avrebbero reagito con passione al racconto, coinvolgendosi in intensi dibattiti e discussioni in classe.

“Lei ha detto che nei primi anni '70 gli studenti che leggevano il racconto esprimevano shock e indignazione”, ha puntualizzato l'arcivescovo Chaput. “Il racconto provocava dibattiti veementi su argomenti di grande importanza: il significato del sacrificio e la tradizione, i pericoli del pensiero conformista e la cieca obbedienza al capo, le esigenze della coscienza e le conseguenze della vigliaccheria”.

“Ma a partire dalla metà degli anni '90, tuttavia, le reazioni hanno cominciato a cambiare”, ha proseguito l'arcivescovo.

“La Haugaard ha descritto una discussione in classe che – per me – è stata più inquietante dello stesso racconto. Gli studenti non avevano nulla da dire se non che la storia li annoiava. Così la Haugaard gli chiese cosa pensassero sugli abitanti del villaggio che sacrificavano ritualmente uno dei loro per il bene del raccolto”.

“Uno studente, che parlava in tono molto razionale, ha sostenuto che molte culture hanno tradizioni di sacrificio umano”, ha proseguito l'arcivescovo. “Un altro ha detto che la lapidazione potrebbe essere stata parte di 'una religione stabilita da molto tempo' e quindi accettabile e comprensibile”.

Un'altra studentessa ha sollevato l'idea della “sensibilità multiculturale”, dicendo di aver appreso a scuola che “se fa parte della cultura di una persona, ci è stato insegnato che non dobbiamo giudicare”.

“Mi è tornata in mente l'esperienza della Haugaard con 'La lotteria' mentre mi preparavo per questa breve conversazione”, ha spiegato il prelato.

“La nostra cultura ci catechizza ogni giorno. Funziona come acqua che cade goccia a goccia su una pietra, erode le sensibilità morali e religiose, e lascia un buco dove solevano esserci le loro convinzioni”

“L'esperienza della Haugaard”, ha aggiunto, “ci insegna che ci è voluta meno di una generazione perché questa catechesi producesse un gruppo di giovani adulti che non sono più in grado di prendere una posizione morale contro l'assassinio rituale di una giovane donna. Non perché fossero codardi, ma perché hanno perso il loro vocabolario morale”.

“I cristiani nel mio paese e nel vostro – e in tutto l'Occidente, in generale – hanno compiuto un lavoro immenso per trasmettere la nostra fede ai nostri figli e alla cultura in generale”, ha osservato l'arcivescovo Chaput.

“Invece di cambiare la cultura intorno a noi, noi cristiani abbiamo lasciato di farci cambiare dalla cultura. Abbiamo fatto un compromesso troppo al ribasso. Non vedevamo l'ora di assimilarci e di adattarci. E nel processo siamo stati sbianchettati e assorbiti dalla cultura alla quale eravamo stati mandati per santificarla”.

“C'è bisogno che lo riconosciamo ad alta voce, e c'è bisogno che corriamo ai ripari”, ha affermato. “Per troppi di noi, il cristianesimo non è una relazione filiale con il Dio vivente, ma un'abitudine e un'eredità acquisita. Siamo diventati tiepidi nella nostra fede, e ingenui nei confronti del mondo. Abbiamo perduto il nostro zelo evangelico, e abbiamo mancato di trasmettere la nostra fede alla prossima generazione”.

Rinnovare la catechesi cattolica allora, ha aggiunto l'arcivescovo Chaput, “ha poco a che fare con le tecniche, o le teorie, o i programmi, o le risorse. La questione centrale è se noi crediamo davvero o no. La catechesi non è una professione. E' una dimensione di sequela. Se siamo cristiani, siamo chiamati tutti a essere maestri e missionari”.

Tuttavia, ha osservato il prelato di Denver, “Non possiamo condividere ciò che non possediamo. Se gli insegnamenti della Chiesa ci imbarazzano, o se siamo in disaccordo, o se abbiamo deciso che sono troppo difficili per essere vissuti, o troppo ardui da spiegare, allora ci siamo già sconfitti da soli”.

“Abbiamo bisogno di credere davvero in quel che sosteniamo di credere”, ha ribadito. “Bisogna che smettiamo di chiamarci 'cattolici' se non stiamo con la Chiesa nei suoi insegnamenti - nessuno escluso”.

Nelle sue osservazioni conclusive, l'arcivescovo Chaput ha aggiunto che “Se siamo realmente cattolici, o quanto meno se vogliamo esserlo, allora c'è bisogno che agiamo da cattolici con zelo e obbedienza, e il fuoco di Cristo nei nostri cuori”.

“Dio ci ha dato la fede per condividerla. E per questo ci vuole coraggio. Ci vuole una deliberata demolizione della nostra vanità. Quando lo facciamo, la Chiesa è forte. Quando non lo facciamo, diventa debole. Tutto qui”.

Copyright © CNA

Unauthorized transation by
Giovanni Romano

giovedì 28 ottobre 2010

L'ombrellaio, un mestiere irrazionale


Con l'arrivo della cattiva stagione si tirano fuori gli ombrelli, e prima o poi si presenta la necessità di ripararli. Qualche folata di vento che lascia una stecca deformata, il puntale che si piega, un fermo della tela che si stacca, ed ecco che l'ombrello diventa quasi inutilizzabile se non interviene una riparazione.

Il problema è trovare dove ripararli. Gli ombrellai sono praticamente spariti, e solo rarissimamente, non più di una volta all'anno, passa dalle mie parti un ambulante in macchina, che chiama i clienti col megafono. Ma come fa uno che abita al quinto o al settimo piano a precipitarsi in strada nei trenta secondi scarsi che quello resta ad aspettare? Non può certo mettersi a inseguirlo! Va a finire invariabilmente così: l'ambulante passa oltre perché non dà a nessuno il tempo di rispondere, e torna sempre meno perché crede che nessuno abbia bisogno di lui. Un circolo vizioso che ha fatto sparire un mestiere.

Quali possono essere le cause? Probabilmente la nostra abitudine allo spreco e gli affitti troppo alti dei locali che hanno costretto gli ombrellai a diventare girovaghi. Ci potrebbero essere dei rimedi? Forse uno o due: l'ambulante potrebbe usare il megafono per dare un numero di cellulare dove raggiungerlo, o meglio ancora potrebbe lasciare dei volantini con le indicazioni su come contattarlo.

Perché mi occupo di un problema in apparenza tanto marginale? Perché l'ombrello, almeno per me, è un oggetto che ci appartiene più profondamente di molti altri. Quando piove lo sentiamo protettivo più di un impermeabile o di un cappuccio. Ci appartiene anche perché, volenti o nolenti, dobbiamo averne cura e siamo costretti a non dimenticarlo. Il suo aspetto e il suo stile sono un messaggio anche nei confronti degli altri, comunicano a distanza quello che siamo. Quando si guasta o lo dobbiamo buttare, credo che nessuno lo faccia con l'indifferenza con cui si butta via uno stuzzicadenti.

Non dobbiamo infine dimenticare che con la crisi diventa più conveniente ripare che buttare. Del beneficio ambientale, e del cambiamento positivo di mentalità che viene dal rifiutare l'usa-e-getta, non è nemmeno il caso di parlare tanto la cosa è evidente.

Giovanni Romano

Una modesta proposta ai baristi...

Sinceramente non so come facciano i baristi a vivere tutto il giorno con la musica a tutto volume. Forse bisognerebbe condurre degli studi di psicologia e di medicina del lavoro per esaminare le conseguenze di un'esposizione tanto prolungata e incontrollata.

Quello che so è che a me, entro certi limiti, piacciono i posti animati e pieni di vita. Si fanno tante lodi del silenzio ma, nella mia vita almeno, il silenzio ha significato solo il vuoto, il deserto affettivo o l'abbandono delle persone alle quali ho voluto bene.

Ma una cosa è l'animazione spontanea di una compagnia, un'altra è il chiacchiericcio interminabile della radio o peggio ancora della TV. Per questo proporrei a qualche barista coraggioso di istituire dei locali "radio/TV-free" dove dovrebbe esserci posto solo per le voci umane, o al massimo per la musica dal vivo. Locali del genere dovrebbero già essere presenti soprattutto al Nord. Chissà cosa succederebbe se ci liberassimo dalla paura nevrotica non del silenzio, ma di ascoltarci come veramente siamo.

Giovanni Romano