- Omaggio a Callistene di Olinto -
Penso che tutti abbiamo un’idea, per quanto vaga, del famoso incontro tra Alessandro Magno e Diogene. Ma se vogliamo discutere a fondo il significato di questo aneddoto sarà bene riportarlo per intero, così come lo racconta Plutarco nelle sue Vite parallele:
Un concilio di Elleni, convocato all’Istmo (1), votò di compiere una spedizione contro i Persiani insieme ad Alessandro e lo nominò comandante supremo. Molti uomini politici e filosofi andarono a incontrarlo e a congratularsi con lui; sperò che anche Diogene di Sinope avrebbe fatto altrettanto, dal momento che viveva a Corinto. Invece il filosofo non faceva il minimo conto di Alessandro, standosene tranquillo nel sobborgo di Craneo; e Alessandro andò da Diogene. Lo trovò sdraiato al sole. Diogene, all’udire tanta gente che veniva verso di lui, si sollevò un poco da terra e guardò in volto Alessandro; questi lo salutò affettuosamente e gli domandò se aveva bisogno di qualcosa, che potesse fare per lui. “Scòstati un poco dal sole” rispose il filosofo.
Dicono che Alessandro fu molto colpito e ammirato dalla fierezza e dalla grandezza di quell’uomo. Al ripartire, mentre intorno a lui la gente derideva Diogene e se ne faceva beffe, egli disse: “Io invece se non fossiAlessandro vorrei essere Diogene”. (2)
In genere, siamo stati abituati a considerare questo aneddoto come un grande esempio di affermazione dell’indipendenza del filosofo davanti al potere. Questo è esatto, ma solo in parte. Certo, da buon filosofo cinico, Diogene si era sforzato per tutta la vita di liberarsi non solo dalla dipendenza dai beni materiali, ma soprattutto dai vincoli di ordine sociale e morale che lo legavano agli altri esseri umani (ed è questa la vera essenza della filosofia cinica, non tanto la povertà materiale). L’effetto -che forse Diogene aveva deliberatamente cercato- fu quello di far risaltare in modo scultoreo la sua indipendenza di fronte ad Alessandro e molto di più di fronte al codazzo servile dei suoi cortigiani.
Tuttavia, penso che a molti sia sfuggito un altro aspetto, forse il più importante: Diogene non aveva paura di Alessandro, ma nemmeno Alessandro aveva paura di Diogene. La sua eccentricità non metteva realmente in pericolo il suo potere, perché Diogene viveva in modo troppo diverso dagli altri, e rifiutava persino di essere imitato. Si limitava a dissociarsi dal resto dell’umanità, e la sua rivolta, se pure si trattava di una rivolta (l'anarchico vive della società che disprezza), restava sterile e confinata solo al suo privato. Ogni vera rivoluzione invece comincia quando incide e modifica i rapporti normali e quotidiani.
La controprova prova di questa affermazione è possibile trovarla nel modo barbaro e rivoltante con cui lo stesso Alessandro si comportò verso un altro filosofo suo amico che visse alla corte, l’ingiustamente dimenticato Callistene di Olinto. Dal ritratto che ne traccia Plutarco, appare chiaramente che egli non ebbe nulla da invidiare a Diogene quanto a fierezza e indipendenza di carattere:
...Callistene dava molestia a tutti i sofisti e gli adulatori di Alessandro, poiché i giovani lo seguivano con interesse e amore a causa della sua eloquenza, né piaceva meno ai vecchi per il suo modo di vivere ordinato, augusto e indipendente. (...). (3)
Ma proprio per le sue doti morali, per il suo rifiuto di adorare Alessandro come dio, proprio perché “la gioventù correva a raccogliersi intorno a lui e lo onorava come il solo uomo libero tra tante decine di migliaia di schiavi”(4) man mano che in Alessandro cresceva la smania del potere, intorno a Callistene cominciò a stringersi inesorabilmente una rete di mortali inimicizie, ed è qui che Plutarco, con uno sconcertante voltafaccia, mostra il lato cortigianesco non solo del proprio carattere, ma anche di quello di Aristotele:
Ma, oltre al fatto di essere invidiato per la reputazione di cui godeva, egli stesso offrì parecchie occasioni ai suoi avversari di calunniarlo; il più delle volte respingeva gli inviti del re; quando li accettava, a tavola non diceva una parola, dando, col proprio sussiego, l’impressione di non approvare né gradire quello che si faceva intorno a lui. (...) Non parrebbe quindi che Aristotele si sia sbagliato nel definire Callistene [di cui era anche parente, N.d.R.] filosofo di grande valore ed abile oratore, ma privo di buon senso. (5)
In altre parole, quello che in Diogene fu una virtù, in Callistene sarebbe stata una colpa. In casi del genere la conclusione è tristemente scontata. Accusato -quasi certamente a torto- di cospirare contro Alessandro, Callistene morì di una morte squallida e disonorante, che Plutarco ci descrive con gelido distacco:
Quanto alla fine di Callistene, alcuni dicono che Alessandro lo fece impiccare, altri che morì di malattia mentr’era in prigione, incatenato mani e piedi. Carete dice che fu tenuto in catene per sette mesi dopo il suo arresto, in attesa di essere giudicato dal consiglio di guerra, presente Aristotele, ma poi morì di obesità, divorato dai pidocchi, nel medesimo periodo di tempo in cui Alessandro fu ferito in India. (6)
Come mai tante lodi a Diogene e tanto disprezzo per Callistene? Il rimprovero che gli muovono Plutarco e Aristotele è di aver voluto mantenere l’indipendenza del filosofo nel bel mezzo di una corte dove l’unica legge era quella del dispotismo, e quel che poté permettersi un “cane sciolto” come Diogene, che vide Alessandro una sola volta in vita sua, non se poteva permettere un “intellettuale organico” come Callistene, che alla corte di Alessandro era di casa. Il “buon senso”, secondo Plutarco e Aristotele, sarebbe consistito nel sapersi adeguare, e ancor più nell’altrettanto celebre massima, buona per tutte le stagioni: “Non-sputare-nel-piatto-in-cui-mangi”.
Eppure, paradossalmente, proprio la sufficienza di Plutarco e di Aristotele -e molto di più l’odio e l’avversione di Alessandro- dimostrano quanto l’atteggiamento di Callistene, che non cercava la celebrità con le stranezze, che nella sua pacata “normalità” era capace di raccogliere gente intorno a sé, fosse molto più concreto, incisivo, fecondo -e quindi, dal punto di vista del potere, molto più pericoloso- che non quello di Diogene. Di fronte ad Alessandro, Diogene se la cavò con un beau geste. Callistene dovette pagare con la vita la propria coerenza.
Vi è infine, un secondo aspetto dell’incontro tra Alessandro e Diogene che varrebbe la pena di considerare. Al di là dell’apparente abisso di condizione sociale (un re che va a trovare uno straccione!), si trattò di un vero e proprio incontro al vertice, un incontro di dominatori. Davanti ad Alessandro, e a differenza di Callistene, Diogene non si pose come testimone della verità, ma semplicemente come un altro padrone. Cambiò solo la scala del dominio, non la sua natura: da una parte l’aspirante padrone del mondo, dall’altra il bisbetico padrone di se stesso. Diogene parlò la lingua del potere, e Alessandro lo poté ammirare perché, al di là delle sue stravaganze, intuì in lui una natura simile alla sua. In un certo senso, Diogene era molto più funzionale al potere che non Callistene, e la sua stessa stravaganza gli fece da fossato protettivo.
Proprio secondo la chiave del dominio dovremmo quindi leggere sia la reciproca ammirazione di Alessandro e Diogene (e sullo sfondo l’ammirazione di Plutarco, uomo innamorato del potere quanto nessun altro), sia la sufficienza dello stesso Plutarco e Aristotele verso Callistene e il suo destino. Per un mondo senza speranza come quello ellenistico e tardoromano, era il potere, di qualunque genere, e non la testimonianza alla verità, l'unico strumento che l'uomo avesse di sfuggire al Fato che lo divorava.
Un concilio di Elleni, convocato all’Istmo (1), votò di compiere una spedizione contro i Persiani insieme ad Alessandro e lo nominò comandante supremo. Molti uomini politici e filosofi andarono a incontrarlo e a congratularsi con lui; sperò che anche Diogene di Sinope avrebbe fatto altrettanto, dal momento che viveva a Corinto. Invece il filosofo non faceva il minimo conto di Alessandro, standosene tranquillo nel sobborgo di Craneo; e Alessandro andò da Diogene. Lo trovò sdraiato al sole. Diogene, all’udire tanta gente che veniva verso di lui, si sollevò un poco da terra e guardò in volto Alessandro; questi lo salutò affettuosamente e gli domandò se aveva bisogno di qualcosa, che potesse fare per lui. “Scòstati un poco dal sole” rispose il filosofo.
Dicono che Alessandro fu molto colpito e ammirato dalla fierezza e dalla grandezza di quell’uomo. Al ripartire, mentre intorno a lui la gente derideva Diogene e se ne faceva beffe, egli disse: “Io invece se non fossiAlessandro vorrei essere Diogene”. (2)
In genere, siamo stati abituati a considerare questo aneddoto come un grande esempio di affermazione dell’indipendenza del filosofo davanti al potere. Questo è esatto, ma solo in parte. Certo, da buon filosofo cinico, Diogene si era sforzato per tutta la vita di liberarsi non solo dalla dipendenza dai beni materiali, ma soprattutto dai vincoli di ordine sociale e morale che lo legavano agli altri esseri umani (ed è questa la vera essenza della filosofia cinica, non tanto la povertà materiale). L’effetto -che forse Diogene aveva deliberatamente cercato- fu quello di far risaltare in modo scultoreo la sua indipendenza di fronte ad Alessandro e molto di più di fronte al codazzo servile dei suoi cortigiani.
Tuttavia, penso che a molti sia sfuggito un altro aspetto, forse il più importante: Diogene non aveva paura di Alessandro, ma nemmeno Alessandro aveva paura di Diogene. La sua eccentricità non metteva realmente in pericolo il suo potere, perché Diogene viveva in modo troppo diverso dagli altri, e rifiutava persino di essere imitato. Si limitava a dissociarsi dal resto dell’umanità, e la sua rivolta, se pure si trattava di una rivolta (l'anarchico vive della società che disprezza), restava sterile e confinata solo al suo privato. Ogni vera rivoluzione invece comincia quando incide e modifica i rapporti normali e quotidiani.
La controprova prova di questa affermazione è possibile trovarla nel modo barbaro e rivoltante con cui lo stesso Alessandro si comportò verso un altro filosofo suo amico che visse alla corte, l’ingiustamente dimenticato Callistene di Olinto. Dal ritratto che ne traccia Plutarco, appare chiaramente che egli non ebbe nulla da invidiare a Diogene quanto a fierezza e indipendenza di carattere:
...Callistene dava molestia a tutti i sofisti e gli adulatori di Alessandro, poiché i giovani lo seguivano con interesse e amore a causa della sua eloquenza, né piaceva meno ai vecchi per il suo modo di vivere ordinato, augusto e indipendente. (...). (3)
Ma proprio per le sue doti morali, per il suo rifiuto di adorare Alessandro come dio, proprio perché “la gioventù correva a raccogliersi intorno a lui e lo onorava come il solo uomo libero tra tante decine di migliaia di schiavi”(4) man mano che in Alessandro cresceva la smania del potere, intorno a Callistene cominciò a stringersi inesorabilmente una rete di mortali inimicizie, ed è qui che Plutarco, con uno sconcertante voltafaccia, mostra il lato cortigianesco non solo del proprio carattere, ma anche di quello di Aristotele:
Ma, oltre al fatto di essere invidiato per la reputazione di cui godeva, egli stesso offrì parecchie occasioni ai suoi avversari di calunniarlo; il più delle volte respingeva gli inviti del re; quando li accettava, a tavola non diceva una parola, dando, col proprio sussiego, l’impressione di non approvare né gradire quello che si faceva intorno a lui. (...) Non parrebbe quindi che Aristotele si sia sbagliato nel definire Callistene [di cui era anche parente, N.d.R.] filosofo di grande valore ed abile oratore, ma privo di buon senso. (5)
In altre parole, quello che in Diogene fu una virtù, in Callistene sarebbe stata una colpa. In casi del genere la conclusione è tristemente scontata. Accusato -quasi certamente a torto- di cospirare contro Alessandro, Callistene morì di una morte squallida e disonorante, che Plutarco ci descrive con gelido distacco:
Quanto alla fine di Callistene, alcuni dicono che Alessandro lo fece impiccare, altri che morì di malattia mentr’era in prigione, incatenato mani e piedi. Carete dice che fu tenuto in catene per sette mesi dopo il suo arresto, in attesa di essere giudicato dal consiglio di guerra, presente Aristotele, ma poi morì di obesità, divorato dai pidocchi, nel medesimo periodo di tempo in cui Alessandro fu ferito in India. (6)
Come mai tante lodi a Diogene e tanto disprezzo per Callistene? Il rimprovero che gli muovono Plutarco e Aristotele è di aver voluto mantenere l’indipendenza del filosofo nel bel mezzo di una corte dove l’unica legge era quella del dispotismo, e quel che poté permettersi un “cane sciolto” come Diogene, che vide Alessandro una sola volta in vita sua, non se poteva permettere un “intellettuale organico” come Callistene, che alla corte di Alessandro era di casa. Il “buon senso”, secondo Plutarco e Aristotele, sarebbe consistito nel sapersi adeguare, e ancor più nell’altrettanto celebre massima, buona per tutte le stagioni: “Non-sputare-nel-piatto-in-cui-mangi”.
Eppure, paradossalmente, proprio la sufficienza di Plutarco e di Aristotele -e molto di più l’odio e l’avversione di Alessandro- dimostrano quanto l’atteggiamento di Callistene, che non cercava la celebrità con le stranezze, che nella sua pacata “normalità” era capace di raccogliere gente intorno a sé, fosse molto più concreto, incisivo, fecondo -e quindi, dal punto di vista del potere, molto più pericoloso- che non quello di Diogene. Di fronte ad Alessandro, Diogene se la cavò con un beau geste. Callistene dovette pagare con la vita la propria coerenza.
Vi è infine, un secondo aspetto dell’incontro tra Alessandro e Diogene che varrebbe la pena di considerare. Al di là dell’apparente abisso di condizione sociale (un re che va a trovare uno straccione!), si trattò di un vero e proprio incontro al vertice, un incontro di dominatori. Davanti ad Alessandro, e a differenza di Callistene, Diogene non si pose come testimone della verità, ma semplicemente come un altro padrone. Cambiò solo la scala del dominio, non la sua natura: da una parte l’aspirante padrone del mondo, dall’altra il bisbetico padrone di se stesso. Diogene parlò la lingua del potere, e Alessandro lo poté ammirare perché, al di là delle sue stravaganze, intuì in lui una natura simile alla sua. In un certo senso, Diogene era molto più funzionale al potere che non Callistene, e la sua stessa stravaganza gli fece da fossato protettivo.
Proprio secondo la chiave del dominio dovremmo quindi leggere sia la reciproca ammirazione di Alessandro e Diogene (e sullo sfondo l’ammirazione di Plutarco, uomo innamorato del potere quanto nessun altro), sia la sufficienza dello stesso Plutarco e Aristotele verso Callistene e il suo destino. Per un mondo senza speranza come quello ellenistico e tardoromano, era il potere, di qualunque genere, e non la testimonianza alla verità, l'unico strumento che l'uomo avesse di sfuggire al Fato che lo divorava.
Giovanni Romano
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(1) Di Corinto.
(2) PLUTARCO, Vita di Alessamdro, 14. In Vite Parallele, Milano 1974, p.446.
(3) PLUTARCO, op. cit., 53, p.479.
(4) PLUTARCO, op. cit., 55, p.481.
(5) PLUTARCO, op. cit., 53-54, pp.479-480.
(6) PLUTARCO, op. cit., 55, p.481.