venerdì 14 febbraio 2014

Chi ha vinto nel caso Cutrì?


È ancora fresca nella memoria la drammatica evasione del latitante calabrese Cutrì, la cui fuga è costata la vita a un suo fratello e si è conclusa con il suo arresto e quello di tutta la banda.

Fa veramente impressione vedere le riprese del covo dove si era rifugiato. Un ambiente squallido, schifosamente abbandonato, disordinato e sporco, molto peggiore di una cella. A guardarlo tornano in mente le parole di Victor Hugo sulla fuga di Jean Valejan: la “libertà” dell'evaso è fatta di ansia e di trasalimenti continui, di terrore, di ferocia, di impossibilità di inserirsi nel mondo delle persone normali.

Ne valeva la pena? Valeva la pena perdere un fratello per ritrovarsi braccato come una bestia, progressivamente isolato e poi sconfitto? Una domanda che probabilmente non avrà nemmeno sfiorato Cutrì. Per quella gente, e per quella mentalità, contano l'onore, la vendetta. E questo li trascina in una spirale di violenza senza fine. C'è poco da dubitare che, se fosse riuscito a prendere il largo, Cutrì prima o poi avrebbe organizzato un agguato o un attentato alle forze dell'ordine per vendicare il fratello morto. Come dimostra chiaramente anche l'appello di sua madre ad “andare fino in fondo”, l'importante era sfidare l'autorità, dimostrare di essere il più forte contro tutto e tutti. A questi livelli, la criminalità non è solo questione di denaro ma soprattutto di potere.

Per questo ho trovato inadeguate le parole dell'ex ministro dell'interno Alfano quando ha detto che si trattava di una “vittoria dello stato”. Avrebbe fatto meglio a dire che si trattava di una vittoria della legge. Lo stato è una macchina cieca che chiunque abbia il potere può manovrare a suo piacimento, senza rendere conto ai cittadini (come stiamo vedendo in queste ore) mentre la legge, almeno in teoria, è imparziale, vale per tutti, per il ministro come per il delinquente, e difende prima di tutto non il potere ma i pacifici cittadini che hanno diritto di essere protetti dal capriccio e dalla crudeltà di un criminale.

Giovanni Romano

giovedì 13 febbraio 2014

Snoopy. le stelle cadenti e la pretesa cristiana

Avevo scelto questa foto come immagine di copertina per il mio profilo Facebook, aggiungendovi una bella meditazione di Benjamin Franklin:





Con benevola ironia, un mio amico ateo mi ha risposto con un'altra immagine:




Sul momento ho pensato che il mio amico avesse ragione. Forse guardando il cielo guardiamo solo la proiezione di noi stessi, ma in realtà non c'è cosa stabile nell'intero universo, e le stelle meno di tutti... È illusorio aggrapparsi a segni che sono pura apparenza.

E poi, qualche ora dopo, chissà come mi è venuto in mente un versetto del Vangelo di Marco (13,31) che mi ha quasi fatto sobbalzare, tanto rispondeva a questa sfida con un'altra sfida:

Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.

Fino a quel momento non avevo colto la profondità e la radicalità della pretesa di Cristo. Chi è costui che non ha avuto paura di sfidare nemmeno le stelle cadenti, anzi l'intero universo, tutto il tempo e tutto lo spazio? O è una pretesa assolutamente folle, insensata, fatta da uno sconosciutissimo ex falegname che si era autonominato maestro, oppure la risposta è proprio lì, nell'affermazione sicura e pacata di una Presenza che non verrà mai meno, di una verità che niente potrà mai distruggere, nemmeno la caduta delle stelle. Arrivare a dire quelle parole significa affermare di essere né più né meno che il centro di tutto l'universo. Significa dichiarare di essere più essenziale per l'uomo che le stelle e il cosmo. Il cielo e la terra possono passare - e passeranno - ma la Sua presa sul cuore e sul destino dell'uomo non passerà.

Per questo è sbagliato, secondo me, che la Chiesa oggi parli continuamente di "sfide", quasi che queste vengano dal mondo e la costringano spesso sulla difensiva, o a pietosi adattamenti. No, è la Chiesa a dover sfidare il mondo con la sicurezza di Uno che non ha avuto paura nemmeno delle stelle cadenti.

Giovanni Romano