martedì 14 luglio 2015

Le lettere sono una repubblica...

Molti poeti odierni (o molti che si credono tali) non hanno idea della tortura alla quale sottopongono i lettori, un po' come i giacobini che ghigliottinavano la gente con la coscienza perfettamente tranquilla perche` "era per il loro bene". Accumulano immagini astruse, accostando acrobaticamente allusioni note solo a loro, saltano di palo in frasca spezzando il filo logico della poesia e costringono il lettore allo sforzo snervante di scervellarsi a rincorrere verso per verso quello che avranno voluto dire nonche` collegarlo ai versi precedenti. Il tutto nell'illusione di essere "originali".
Ma la grande poesia non cerca di essere "originale" a ogni costo, cerca di partecipare nel modo piu` autentico possibile a un'esperienza del mondo, e solo in questo modo incontra il lettore e riesce a catturarlo. Non importa quanto sia interiore questa esperienza, l'importante e` che attinga a quello che Hannah Arendt chiamava "mondo comune", un mondo di immagini, esperienze e pensieri che il poeta prova prima di tutti ma che il lettore si sorprende di avere anch`egli dentro di se`. Sotto questo aspetto Emily Dickinson, Baudelaire o Quasimodo sono perfettamente comprensibili.
La mia, pero`, non vuole essere l'ennesima, scontata presa in giro dei poeti mediocri: sarebbe come sparare alla Croce Rossa. In realta`, sto parlando di un dramma. Anche il poeta "mediocre" si sente colpito e interrogato da quello che vede e da quello che gli accade. Anche il poeta "mediocre" sente il richiamo e l'urgenza di rispondere con un verso, con un canto, con la sua sensibilita`, insomma con tutto quello che fa di lui una creatura umana tanto quanto Shakespeare. Il guaio e` che le intenzioni non bastano, la spinta c`e` ma non il risultato.
Non si tratta di una maggiore quantita` di esperienze del "grande" poeta rispetto agli altri. Ciascuno di noi, anche il piu` negato alla scrittura, nella sua vita apparentemente banale accumula esperienze e sentimenti che basterebbero per un'intera epica (come ha dimostrato Joyce nell'Ulisse). Ma le grandi opere epiche si contano sulle dita di una mano.
Non si tratta di un diverso modo di vivere o di una diversa, piu` elevata moralita`. Tra i grandi poeti abbiamo avuto assassini e ladri come Villon e individui assolutamente miti e inoffensivi come Virgilio.
Non si tratta nemmeno (o si tratta soltanto in parte) di "ispirazione" o di maggiore capacita` tecnica. Umberto Eco ha correttamente osservato ne Il nome della rosa che anche le grandi poesie uscite apparentemente piu` di getto dalla penna dell'autore, sono state in realta` lavorate, riviste innumerevoli volte, tormentosamente rielaborate fino a trovare la forma definitiva. A mio parere Eco da` un'importanza eccessiva all'aspetto tecnico, ma la sua osservazione resta valida. Un'intuizione, per raggiungere la sua piena grandezza, ha bisogno di molto lavoro. Ed e` qui che il dramma cui accennavo raggiunge il suo acme. Al poeta mediocre non manca affatto la capacita` di lavoro, ma la sua spesso e` una fatica di Sisifo. Crea, corregge, elabora e pubblica per una vita intera senza mai raggiungere quella densita`, quella intensita` bruciante, quel fulmine di immedesimazione che scatta quando leggiamo un grande autore. Supremo paradosso: il genio in poesia e` capace di raggiungermi con una tale immediatezza da farmi sentire che alcuni versi avrei potuto scriverli io. Da qui la sua apparente, ingannevole "semplicita`".
The Fool Rushes In Where Angels Fear to Tread, scriveva Alexander Pope con pesante disprezzo verso i meno dotati di lui. A me personalmente dispiace per il destino di tante persone in buona fede, tuttavia non posso fare a meno di osservare che le lettere sono si` una repubblica, ma fortunatamente non una democrazia.

Giovanni Romano

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