lunedì 2 giugno 2025

Russia: un colpo devastante

 


Premessa: questo scritto contiene esclusivamente delle mie considerazioni personali, non può né vuole essere una analisi del conflitto russo-ucraino, e non ha nessuna pretesa di completezza. Era però da molto tempo che avrei voluto puntualizzare alcuni elementi di questa guerra che mi sembrano degni di considerazione. Quel che è avvenuto ieri, 1 giugno 2025, è stata la spinta decisiva a intraprendere questo lavoro.

Una cosa salta subito agli occhi di chiunque abbia osservato l’andamento del conflitto russo-ucraino da quel tragico giovedì 24 febbraio 2022: il suo carattere di stallo sanguinoso tipico di una guerra di posizione, cosa del tutto paradossale in un teatro operativo come quello ucraino quasi privo di ostacoli naturali, e dove entrambe le parti dispongono – o disponevano – di abbondanti e sofisticate forze corazzate. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il fronte ucraino vide avvicendarsi violentissimi combattimenti tra divisioni corazzate altamente mobili, durante i quali il fronte arretrava o avanzava di decine di chilometri al giorno, e città importanti come Kiev, Odessa e Sebastopoli caddero, vennero occupate e furono riprese con brillanti manovre da ambo le parti.

Come mai, a distanza di quasi ottant’anni, e con mezzi militari ben più sofisticati, questo non è avvenuto? Come mai, dopo l’iniziale avvicinamento russo a Kiev e la successiva ritirata, nessuna delle due parti ha potuto vantare un successo veramente decisivo? A parte la conquista di Mariupol da parte dei russi e la temporanea avanzata ucraina nella regione di Kursk, il fronte sembra essersi stabilizzato a tal punto che la conquista o riconquista di uno o due piccoli villaggi è stata gonfiata dalla propaganda fino ad apparire una grande vittoria, senza che poi accadesse più nulla per mesi interi, beninteso se s’intende l’espressione “non accadere nulla” come uno stillicidio atroce di vite umane che nemmeno interessa più i telegiornali.

Non è questa la sede per allargare il discorso sulla diplomazia e sugli attori a livello internazionale che stanno dietro a questa tragedia, ai fiumi di denaro e di armamenti che l’UE e fino a poco tempo fa anche gli USA hanno riversato in Ucraina e hanno permesso a questa nazione di reggere l’urto di un nemico tanto più forte – almeno sulla carta. Per i nostri scopi, sarà sufficiente indicare quel che si è rivelato il protagonista indiscusso di questo conflitto: il drone, che ha completamente obliterato quello che era il sistema d’arma che fu protagonista del conflitto mondiale, il carro armato. Questi congegni più o meno grossi, più o meno sofisticati, più o meno armati si sono dimostrati estremamente micidiali contro i veicoli e le navi, contro le persone, contro le strutture, per di più sono difficilmente rilevabili dai radar e sfuggono alla contraerea tradizionale. Soprattutto, grazie a loro e ai satelliti è diventato possibile il controllo completo del campo di battaglia: nulla di quel che si muove, uomo o veicolo, può più sfuggire, viene attaccato e distrutto immediatamente. La spiegazione dell’immobilità del fronte è tutta qui.

Sembrava che questa situazione dovesse prolungarsi all’infinito, a sentire le propagande contrapposte, ormai da anni la Russia non aveva più mezzi e l’Ucraina non aveva più soldati, ma da poche ore è accaduto qualcosa di inaspettato. Già da anni l’Ucraina si era rivelata in grado di effettuare azioni di sorpresa in territorio russo, in particolare sabotaggi e omicidi mirati di comandanti militari d’alto grado (iniziative che la controparte non è stata in gradi di replicare ai danni del nemico), ma stavolta la Russia è stata colpita come mai prima nel cuore stesso del suo territorio, con attacchi simultanei, ben coordinati e devastanti che non si sono limitati alle infrastrutture militari ma anche alle installazioni civili con perdite umane freddamente calcolate in anticipo.

A quanto ammesso anche dai russi, sono stati distrutti 40 bombardieri strategici con capacità atomiche, il che significa l’annientamento di una parte sostanziale dell’arsenale di deterrenza a disposizione della Russia, se si eccettuano i missili. Per la prima volta i droni ucraini hanno colpito località remotissime dal fronte come Murmansk, Irkutsk, Ryazan e Ivanovo. Per dare l’idea della profondità senza precedenti dell’offensiva, Munmarsk è a nord del Circolo Polare Artico, a oltre 2.000 km da Kiev, Ryazan a 744 km, Ivanovo a oltre 900 km, e soprattutto Irkutsk è a oltre 4.500 km, nel cuore della Siberia.

A parte l’audacia dell’infiltrazione delle piattaforme di lancio montate su comuni autocarri, del tutto sfuggiti al controllo dei russi, questo attacco significa qualcosa di ben più importante, non è solo un danno materiale già ingente di suo, ma è il crollo definitivo di uno dei vantaggi strategici che la Russia finora possedeva: l’immensità del suo territorio, la profondità delle sue retrovie che fino a ieri – letteralmente! – le avevano permesso di assorbire e respingere qualunque invasore proveniente da Ovest. Mai Napoleone si era sognato di andare oltre Mosca. Mai i tedeschi si erano potuti nemmeno lontanamente avvicinare ai monti Urali, al di là dei quali i Russi continuavano indisturbati a produrre enormi quantità di carri armati, aerei e pezzi d’artiglieria. Ora questo non è più vero: l’attacco di ieri ha dimostrato che la Russia può essere colpita in qualunque sua parte, quando, come e dove il nemico abbia deciso di colpire.

Penso che il contraccolpo morale sia stato enorme, tanto in patria che all’estero. L’Ucraina – che da anni aveva previsto una guerra con la Russia e si era preparata di conseguenza in segreto, con l’aiuto degli USA – si è rivelato un nemico micidiale, estremamente duro e ben equipaggiato. Con la presunzione tipica degli autocrati isolati dentro il proprio potere, Putin aveva sottovalutato il proprio avversario, la sua determinazione, le risorse e le alleanze sulle quali poteva contare. Si può discutere – ed è probabilmente vero – se l’Ucraina intendesse diventare la testa di ponte per armi a medio raggio destinate a mettere sotto pressione e ricattare la Russia. Ci si chiede cosa potrà accadere adesso al tavolo delle trattative, ammesso che siano possibili dopo un attacco del genere.

Una cosa è certa: l’Ucraina non può avere agito da sola. Si è trattato di una vittoria non soltanto sua ma soprattutto del partito della guerra a ogni costo da cui viene spalleggiata, e che sta già impoverendo l’Europa con ingentissime spese militari. Non è assolutamente un caso che l’attacco sia avvenuto alla vigilia della ripresa dei colloqui di pace. E se fosse vera la voce che gli USA non erano stati informati di questa operazione – da quando è stato eletto Trump gli USA hanno cessato di fornire intelligence agli ucraini – l’unica conclusione che si può trarre è che da questo momento l’America e la pace hanno un nemico in più: la UE.

Giovanni Romano

domenica 1 giugno 2025

Attenti ai messaggi motivazionali!

 


Mi è capitato di vedere scritto in un meme di Facebook:

Non disperare mai. Nessuna situazione è senza uscita, pensa agli astici nei serbatoi delle cucine del Titanic”.

Come già nella favola della volpe e dell’uva, l’esempio non è del tutto pertinente. È vero che probabilmente quei poveri astici saranno riusciti a scappare dalle vasche, ma può ben darsi che il sollievo sarà stato soltanto temporaneo. Prima di tutto, l’acqua dell’oceano è ben piu’ gelida di quella delle vasche, una temperatura alla quale gli astici certamente non erano abituati, e già quello sarebbe bastato a farli morire. In secondo luogo il Titanic è affondato in una fossa di 4.000 metri, e se avrà trascinato a fondo anche gli astici, questi saranno morti per la pressione dell’acqua, in un ambiente dove non potevano vivere. Infine, anche se gli astici fossero riusciti a uscire dalle vasche e nuotare in pieno oceano (cosa altamente improbabile, le vasche dovevano essere chiuse) non sarebbero stati in grado di nuotare per centinaia e centinaia di miglia fino ad arrivare alle acque poco profonde che sono il loro habitat (circa 50 metri al massimo), e quindi sarebbero morti, paradossalmente, per sfinimento e annegamento.

Una liberazione solo apparente, quindi. Ecco perché diffido di tanti messaggi “motivazionali”. La realtà è amara, molto più amara di quanto pensiamo, e tanto vale affrontarla com'è, senza illusioni. Una scialuppa a portata di mano è meglio di qualsiasi discorso d’incoraggiamento.

Giovanni Romano

sabato 24 maggio 2025

Il Serpente di Spoon River




 

Gli empi attirano su di sé la morte

con parole e con atti.
Ritenendola amica,
si consumano per essa
e con essa concludono alleanza
perché sono degni di appartenerle”
(Sap 1, 16)


Cominciarono ad accusarmi di libertinaggio,
non essendoci leggi antiblasfeme.
Poi mi rinchiusero per pazzo,
e qui un infermiere cattolico mi uccise di botte.
La mia colpa fu questa:
dissi che Dio mentì ad Adamo, e gli assegnò
di condurre una vita da scemo,
d’ignorare che al mondo c’è il bene e c’è il male.
E quando Adamo imbrogliò Dio mangiando la mela
e si rese conto della menzogna,
Dio lo scacciò dall’Eden per impedirgli di cogliere
il frutto della vita immortale.
Santo cielo, voi gente assennata,
ecco ciò che Dio stesso ne dice nel Genesi:
«E il Signore Dio disse: “Ecco che l’uomo
è diventato come uno di noi (un po’ d’invidia, vedete)
a conoscere il bene e il male» (la menzogna che tutto sia bene!);
«e allora, perché non allungasse la mano a prendere
anche dell’albero della vita e mangiarne, e non vivesse eterno;
per questo il Signore Iddio lo scacciò dal giardino dell’Eden».
(La ragione per cui credo che Dio crocifiggesse Suo Figlio,
per uscire da quel brutto pasticcio, è che ciò è proprio degno di Lui).

Wendell P. Bloyd
Antologia di Spoon River”


A questa poesia, che ritengo la più profonda e anche la più subdola bestemmia mai scritta, dedicai ampio spazio di discussione nel mio libro Invito a Spoon River, pubblicato nel 2013. Scrissi allora che Bloyd aveva manipolato le Sacre Scritture, stravolgendo deliberatamente il racconto biblico: è il Serpente a mentire, non Dio, quando si rivolge a Eva dicendo: “È vero che Dio vi ha proibito di mangiare tutti i frutti del suo giardino?...”, e il resto è noto.

Scrissi anche che una spia della malafede di Bloyd è appunto l’omissione del Serpente, perché – così mi parve di intuire – egli stesso è il Serpente, egli stesso è il tentatore che ripete puntualmente lo stratagemma diabolico: mettere l’uomo contro Dio, distruggerne il rapporto di amicizia e di fiducia, dividere la creatura dal creatore1. Aggiunsi che Adamo non stava affatto vivendo “una vita da scemo”, se è “da scemi” essere stato fatto signore di tutto l’universo. Inoltre, misi in rilievo un altro aspetto dell’inganno nella narrazione capziosa di Bloyd: perché il Serpente non aveva consigliato ad Adamo ed Eva di mangiare prima dell’albero dell’immortalità, e solo poi di quello della conoscenza del bene e del male? La risposta è ovvia: perché Adamo ed Eva dovevano gettare via per niente tutti i beni che già possedevano, inclusa forse l’immortalità, o quanto meno la mancanza di dolore anche nella morte. Lasciamo perdere, infine, il sofisma più grossolano di tutti: se Dio fosse stato così privo di scrupoli, così spietato verso le Sue creature, perché mai avrebbe dovuto avvertire il bisogno di “uscire da quel brutto pasticcio”? Lui così onnipotente doveva forse render conto a qualcuno?

Per molti anni mi sono accontentato di rispondere così a questa poesia, la più negativa in assoluto di Spoon River, quella più carica di rabbia cosmica, ma solo ora mi sono accorto del suo vero veleno, di dove si annida realmente la tentazione, tanto più insidiosa perché fa appello a un atteggiamento che chiunque avrà provato almeno una volta nella vita: “La menzogna che tutto sia bene!”.

Come possiamo dire che “tutto è bene”, in effetti, davanti ai lutti, alle malattie, ai fallimenti, alle disgrazie, alla morte? Come possiamo dirlo davanti alle ingiustizie, alle stragi, alle guerre, alle epidemie? Come si fa a definirli “bene”? Non è forse giustificata l’accusa mossa ai cristiani di “tenere una partita doppia” dove i conti tornano sempre, in spregio a ogni evidenza del contrario?2

Senza nulla togliere allo scandalo del dolore, e specialmente del dolore innocente, a questa accusa si può rispondere su due piani, uno storico e l’altro ontologico (che è il piano della risposta a Wendell P. Bloyd). Primo, il cristiano non usa la sua fede come anestesia contro il dolore ma come suo superamento, anche a livello operativo. Da dove sono nati gli ospedali, che l’antichità pagana non conosceva, abbandonando di fatto i malati a sé stessi? Da dove sono nati i brefotrofi che accoglievano i neonati, anziché lasciare esposti sulla pubblica piazza quelli scartati dalle loro famiglie? Da dove sono nate le confraternite, le mense per i poveri, gli ordini mendicanti che riscattavano gli schiavi cristiani dai saraceni? Da dove è nata la difesa della dignità dei lavoratori sfruttati dal capitale?

Tutte queste opere sono nate dallo sguardo diverso sulla vita – e qui siamo già sul piano ontologico – di chi si riconosce creatura, e non invidioso rivale del Creatore. La carità cristiana non ha nulla a che vedere con l’”altruismo” e con la filantropia di matrice laicista, men che meno con la fatica amara e senza orizzonte di un Sisifo che rinfaccia a Dio tutto il male, come ne La Peste di Camus. Pare che l’odio di Bloyd abbia voluto risparmiare almeno Cristo, che lui vede solo come una vittima cinicamente sacrificata dal Padre Suo per togliersi d’impiccio. Ma non così hanno ragionato gli apostoli, non così hanno ragionato e ragionano i cristiani. Solo una grande positività, una grande forza, una profondità e una bontà senza paragone potevano coinvolgere e trasformare la vita di chi conobbe Cristo e di chi nei secoli Lo ha seguito.

Ma soprattutto, l’accusa di Bloyd è viziata da una insanabile contraddizione interna. Se l’uomo resta giudice unico del bene e del male3, la sete di infinito di cui è fatto resterà senza risposta, la sua ricerca sarà senza approdo, il dolore non sarà eliminato ma diventerà sempre più insopportabilmente pesante. Finirà per trovare sempre meno “bene” nella realtà, sempre più motivi di scandalo, di contraddizione, di rifiuto. Diventerà sempre meno capace di positività, fino all’autodistruzione o alla violenta imposizione di un proprio progetto. Di questa sinistra entropia il nostro tempo ha già visto fin troppe testimonianze con le ideologie, con la droga e con i “nuovi diritti”, primo tra tutti il suicidio assistito.

Wendell P. Bloyd è la persona più sola di Spoon River. Ha già compiuto in sé la parabola dell’autodistruzione. Nel suo mondo non c’è niente che si possa definire un bene, tanto è ossessionato dal suo stesso risentimento4. Eppure, nell’Antologia questo epitaffio trova il suo straordinario contraltare in quello di Padre Malloy, forse l’omaggio più grande che un ateo abbia mai tributato a un sacerdote cattolico. Non fu certo per amore di par condicio che Lee Masters creò due ritratti così potenti, ma per cogliere la realtà in tutte le sue dimensioni, fino alle polarità più esasperate. Bloyd visse e morì solo, Padre Malloy viene celebrato – caso unico in tutta l’Antologia – dai suoi amici non credenti che si erano sentiti inaspettatamente guardati, compresi, stimolati a sollevare a loro volta lo sguardo.

Dai loro frutti li riconoscerete”. Sta a noi tenere aperti lo guardo, l’intelligenza e il cuore per poter dire, ogni giorno della vita e fino alla fine, “ne vale la pena”, e rifiutare i frutti avvelenati del risentimento e del rancore.


Giovanni Romano

1. Etimologicamente, “Diavolo” deriva dal greco “dià-ballèin”: dividere, separare, mettere contro.

2. Cfr. il libro di Franco Cassano Partita doppia, e molto di più l’opera di Albert Camus.

3. Questo è il significato riposto della frase “conoscerete il bene e il male”. In realtà, l’originale ebraico suona così: “Sarete voi a decidere cosa è bene e cosa è male”.

4. Hannah Arendt osservava molto acutamente che il rancore è la cifra caratteristica della modernità. L’uomo accetta solo ciò che si è fabbricato da sé, il prodotto fabbricato dalle sue mani, quello che ha già misurato e calcolato, ma si risente di fronte a quello che gli viene “semplicemente e misteriosamente dato”.

venerdì 23 maggio 2025

PEANUTS



Qual è il segreto dell’enorme popolarità dei PEANUTS, quegli adulti in miniatura che dei bambini non hanno nulla, né l’ingenuità, né lo stupore, né lo sguardo positivo sul mondo e nemmeno affetto per i loro genitori e per i “grandi”, salvo rarissime eccezioni?

La risposta è che i Peanuts sono la parodia nevrotica degli adulti, quanto meno in alcuni tratti del loro carattere (fortunatamente non conoscono l’avidità di denaro), sono un universo auto-contenuto e autoreferenziale che non guarda ai “grandi” se non come a un Fato impersonale e remoto che pilota inesorabilmente le loro vite sia che si tratti di andare ad abitare nel quartiere o di lasciarlo per sempre spezzando legami, amicizie, amori. I “grandi” sono la voce remota della società di cui un giorno faranno parte e che li giudica, come ad esempio la maestra. In ogni caso, gli adulti non compaiono mai e nemmeno parlano mai (uno dei tanti “mai” che incontreremo strada facendo, e che sono il marchio di questa saga). Sono Charlie Brown, Lucy, Schroeder e tutti gli altri a dar loro voce rispondendo alle loro implicite domande, spesso in modo furbo o umoristico. In ogni caso, gli adulti sono trattati da antagonisti, mai da esempi né tanto meno da guide.

Visti nell’insieme, i Peanuts sembrano niente altro che il ritratto, o meglio la caricatura dell’America profonda, quella delle piccole cittadine o dei sobborghi dove ciascuno vive nella sua villetta e non succede mai niente. È una vita che ruota intorno alla scuola, alla televisione, alle gite per il campeggio, alle vacanze, alle partite di baseball, ad Halloween più che al Natale. Una vita sempre uguale e senza riti di passaggio (né potrebbe essere diversamente) il che non significa che sia priva di avvenimenti. Al contrario, Schultz ha dimostrato una inventiva inesauribile per più di cinquant’anni, con infinite variazioni sui temi che cercheremo di delineare a breve.

In realtà, questa esistenza apparentemente tranquilla e scontata nasconde molte anomalie, e soprattutto è piena di frustrazioni, di traguardi non raggiunti, di amori non corrisposti, di sconfitte piccole e grandi d’ogni genere. Queste anomalie e queste sconfitte rappresentano, in verità, il motore della serie: se mai si fosse arrivati al classico “e vissero tutti felici e contenti” la striscia avrebbe non solo perso d’interesse ma la sua stessa ragion d’essere. Al massimo possono esserci degli addii, come quello della ragazzina dai capelli rossi a Charlie Brown, oppure l’addio a Charlie di Lucy e Linus, presumibilmente al termine della serie.

Non starò qui a discutere dei disegni: salta agli occhi di chiunque la differenza tra i tratti sommari e angolosi delle prime strisce degli anni ‘50 e lo stile più dolce, più espressivo, più raffinato che prese piede fino agli anni ‘70 inoltrati, e che li ha resi definitivamente celebri. Né farò cenno a personaggi secondari apparsi per brevi periodi e poi abbandonati. Mi concentrerò soltanto su quelli che tutti conoscono e che hanno accompagnato la serie dall’inizio alla fine.

Cominciamo a guardare più a fondo alle anomalie, molto spesso collegate ai “mai”, che sarebbero assurde e sconcertanti nel “mondo reale”. Snoopy, ad esempio, non dorme mai dentro la cuccia ma sempre sul tetto, non riporta mai indietro i bastoncini e la palla che gli lanciano i suoi amici umani, non vince mai i suoi epici scontri immaginari col Barone Rosso. Senza parlare dei suoi esilaranti romanzi (che cominciano immancabilmente con il più banale degli incipit: “Era una notte buia e tempestosa…”) mai accettati da nessun editore.

In verità, Snoopy è il più indipendente tra tutti i Peanuts, a volte persino ai limiti dell’opportunismo. Se gli parlaste di padroni, vi guarderebbe stranito: non sa nemmeno cosa siano. Per lui, Charlie Brown (che lui non cita mai per nome) è semplicemente “il bambino con la testa rotonda” (1). Charlie Brown è anche il suo cameriere: in una serie interminabile di vignette gli porta la ciotola con aria cerimoniosa, quasi fosse un’offerta sacrificale (e più di una volta glielo fa pesare). Snoopy esulta scompostamente quando arriva la cena; in caso contrario (altra anomalia) non esita a prendere rumorosamente a calci la porta anche nel cuore della notte. È un cagnolino simpatico e gentile, soprattutto nei suoi rapporti con l’uccellino Woodstock, con cui vive una sfilza sterminata di situazioni ben oltre il limite del surreale e ben entro il regno della poesia. Anche Woodstock, tra parentesi, ha il suo “mai”: non riesce mai a volare in linea retta, rimanendo puntualmente frustrato nel suo sogno di diventare un’aquila.

Che dire poi del personaggio più noto per antonomasia, Charlie Brown? È un perdente naturale, uno che si fa mettere i piedi in testa da tutti, parte per bontà d’animo ma anche per pusillanimità. I suoi “mai” sono grossi come montagne. Non riesce mai a farsi avanti con la ragazzina dai capelli rossi che pure lo ha capito, lo trova simpatico e gli vuol bene; non riesce mai a far volare il suo aquilone (un potente simbolo della libertà e della liberazione che sempre gli sfuggono); non viene mai ubbidito da Snoopy; la squadra di baseball di cui è allenatore non vince mai una partita, persino con un vantaggio di 50 punti. Confesso che come carattere non mi è molto simpatico. Ha una tendenza fin troppo spiccata alla pedanteria, si dilunga in pistolotti che vengono puntualmente stroncati o dal brutale cinismo di Lucy oppure dall’indifferenza di chi gli sta accanto (Snoopy si addormenta, gli altri se ne vanno e lo lasciano solo).

Eppure è l’unico capace di uno sguardo poetico sulle cose (non manca mai di notare un bel tramonto o il cielo pieno di stelle), ma anche in questo caso la sua sensibilità si scontra con l’indifferenza o le nevrosi di chi gli sta accanto. I suoi lunghi monologhi sono una sterile introspezione che troppo spesso diventa pretesto per non agire. Più di una volta gli tocca anche subire la violenza degli altri, inconsapevoli o meno, come quando una palla da baseball lo stende per terra svenuto e nessuno si occupa di lui, sono tutti a disputare di chi è la colpa del lancio sbagliato. Un pigliacalci, un perdente senza rimedio, dunque, e qui uso l’espressione nel senso più grave: senza riscatto, senza compenso, senza rivincita.

Tuttavia Charlie Brown si fa ricordare, e da molti anche amare, appunto per la sua bontà indifesa. Ha preso con sé Snoopy quando era un cucciolo quasi abbandonato, è l’unico dei Peanuts a vivere un rapporto positivo e affettuoso con suo padre, è l’unico che si dona e che dona, l’unico capace di guardare al di fuori di sé stesso quando si tratta di dare una mano.

Ho fatto menzione di Lucy, che per molti aspetti è non solo l’antagonista di Charlie Brown ma anche di tutti gli altri. È il J.R. dei Peanuts, il personaggio che amereste odiare. Prepotente, manesca, autoritaria, maldicente, bisbetica, scontrosa, meschina, cinica, dispotica, egocentrica al massimo… la lista delle sue caratteristiche negative è interminabile. Tiranneggia il fratello minore Linus, è il tormento continuo di Schroeder il pianista, che vessa con la sua corte asfissiante e importuna, si scontra spesso e volentieri con tutti gli altri. Anche lei, però, deve fare i conti con i suoi “mai”, che non sono da meno di quelli di Charlie Brown.

Primo fra tutti, non riesce mai a farsi amare da Schroeder, nonostante un vero e proprio assedio e una serie di inesauribili stratagemmi per riuscire a catturare la sua attenzione. È sempre lì, sdraiata davanti al suo pianoforte, a fissarlo con un sorriso che vorrebbe essere seducente e ammaliatore ma che il più delle volte si trasforma in una smorfia ebete di disappunto quando lui le risponde, gelidamente sincero, di non essere per niente interessato a lei, che non gli piace, che la trova brutta e niente affatto carina.

Prima di approfondire questa interminabile telenovela, è necessaria una domanda preliminare: chi è Schroeder? Non so a quale personaggio della vita reale si sia ispirato Schultz (anche lui tedesco di cognome, coincidenza forse non casuale), certo è che è il classico ragazzino che fa girare la testa all’altro sesso: bello, biondo e con gli occhi azzurri. Ma a lui le ragazzine non interessano: vive in un mondo tutto suo, completamente ripiegato sul suo pianoforte, dedito allo studio quasi maniacale di Beethoven. Non ho usato a caso la parola ripiegato: Schroeder è il secchione dello spartito, perennemente curvo sulla tastiera, ben diverso dai grandi pianisti che spesso suonano di slancio, rovesciandosi con la testa e il busto all’indietro, gli occhi chiusi. È forse l’unico dei Peanuts a non avere nessun “mai”, se non in senso oppositivo rispetto a Lucy.

Si direbbe che è una macchietta a una sola dimensione. Lasciato a sé stesso suonerebbe all’infinito, totalmente perso nel suo Beethoven, senza sentire mai (un altro “mai”!) il bisogno di rapportarsi con gli altri. È Lucy a portarlo alla ribalta come la sua meta irraggiungibile, il suo amore perduto, o meglio mai esistito. Paradossalmente, se non esistesse Lucy non esisterebbe nemmeno lui, non si sentirebbe il bisogno di un personaggio così monotono e assolutamente prevedibile.

Ma cosa vuole Lucy da lui? Cosa rappresenta ai suoi occhi? È veramente amore il suo? Si può senz’altro rispondere di no. Lucy vuole conquistare Schroeder, vuole essere lei il centro dei suoi interessi, lo vuole svuotare dall’interno e riempirlo del suo ego divoratore. Se i suoi tentativi di seduzione andassero a buon fine, Schroeder non diventerebbe altro che un fantoccio, una marionetta senz’anima di cui probabilmente Lucy sarebbe la prima a stancarsi. In realtà, lei lo odia, o meglio odia il suo mondo interiore che non le interessa, odia la bellezza di cui l’altro è partecipe e alla quale lei non accederà mai (un “mai” pesante quanto un macigno, questo). Soprattutto, lei odia lo strumento dell’indipendenza di Schroeder, il pianoforte. Vede in esso il suo rivale, e più di una volta ci sfoga contro la sua rabbia impotente: lo prende a calci, lo butta nella fogna, lo riduce in schegge. In questo modo vuole denudare Schroeder e ridurlo alla sua mercé. Ma il risultato è esattamente l’opposto: finisce sempre per cozzare contro il candore spietato di lui che nemmeno la odia, tanto gli è estranea interiormente.

Una delle strisce dove il contrasto Lucy-Schroeder supera i limiti dell’humor e tocca punte di autentica drammaticità è quella in cui lei si sdraia per l’ennesima volta davanti al piano che lui continua a suonare senza nemmeno alzare la testa (un altro “mai”: Schroeder non alza mai la testa dal piano a meno che Lucy non lo interpelli in maniera più o meno insinuante). Lucy sembra rendersi finalmente conto che Schroeder non l’amerà mai, che tutte le sue elaborate strategie di seduzione non hanno mai portato a nulla, ma anziché accettare la realtà e farsene finalmente una ragione, si lancia in una diatriba amara sui tormenti di un amore finito che secondo lei dovrebbero torturare Schroeder, per poi esplodere in un pauroso parossismo di violenza: prende a calci il piano, lo colpisce più volte, lo distrugge, lo calpesta fino a ridurlo in schegge, infine si butta a terra disperata e piange, piange con un pianto lungo, rabbioso, straziante. Un pianto così vero, così profondamente sentito da mettere a disagio chi legge, perché qui non è una bambina che piange, ma una donna col cuore spezzato che vede crollare tutte le sue illusioni. Lucy piange compatendo sé stessa, mette a nudo tutta la sua vulnerabilità, la sua insicurezza (ha sempre bisogno dell’ammirazione degli altri per esistere), la sua fragilità. Ma l’unica risposta che ottiene, come tante altre volte, è il silenzio allibito di Schroeder che in tutta la striscia non pronuncia nemmeno una parola e la guarda sgomento, paralizzato da tanta violenza.

La violenza, in effetti, è sottesa ai Peanuts tanto quanto è endemica nell’America reale. Lucy picchia spesso Linus oppure minaccia di picchiarlo, fa a botte con Snoopy (l’unico che le tiene testa, ma non sempre). Non è un mondo idillico, quello dei Peanuts: troppo spesso domina la legge del più forte, o di chi si crede tale.

Abbiamo accennato a Linus. Tra i personaggi della saga è quello che apparentemente si avvicina di più a un bambino, ma non è così. È molto meno sensibile alla bellezza che non Charlie Brown, molto spesso si rinchiude nel cerchio delle sue piccole manie e delle sue illusioni. La sua fama deriva, ovviamente, da una delle anomalie più vistose della saga: non si separa mai dalla sua leggendaria coperta, spesso si succhia il pollice. Abitudini che destano il fastidio e il risentimento dei “grandi”, a cominciare dalla sorella.

Ma la coperta cosa rappresenta? Bisogno di protezione, ovviamente. Rifiuto di crescere. Linus resiste vittoriosamente a tutti i tentativi di portargliela via, lotta per lei fino allo stremo, ricorre alle astuzie più impensate per sottrarla ai “grandi”, e scoppia in tremende crisi isteriche quando gliela seppelliscono, ne fanno aquiloni e peggio ancora una giacca per Snoopy. È così intenso il rapporto di simbiosi tra lui e la coperta che talvolta essa vive di vita propria. Diventa uno strumento punitivo contro i bulli, risponde con la violenza alle violenze di Lucy fino ad aggredirla e metterla in fuga urlando di terrore. È l’alter ego di Linus, la proiezione surreale delle sue paure, lo strumento altrettanto surreale della sua aggressività repressa e delle sue vendette.

Ma Linus, lo ripetiamo, non è un bambino. La sua coperta è simbolo d’infantilismo più che d’infanzia, e lui spesso mostra una pedanteria che ha poco da invidiare a quella di Charlie Brown, di cui non a caso è amico intimo. È anche il pretesto per un lato antipatico dei Peanuts: la satira anticristiana. Qualche volta Linus arriva a citare versetti della Bibbia per giustificare quello che gli fa comodo (qui forse Schultz fa il verso ai fondamentalisti, ma non solo a loro: è la caratteristica peculiare di una fede fondata solo sul Libro), e soprattutto vive nella mistica attesa di un’entità che nella versione italiana è stata pessimamente tradotta con “Il Grande Cocomero” mentre in inglese è indicata come “The Great Pumpkin”, “La Grande Zucca”, con ovvio riferimento ad Halloween. Questa “Grande Zucca” dovrebbe scendere sulla terra la notte di Halloween (non c’è bisogno di dire che non arriva mai, l’attesa notturna di Linus è sempre frustrata), portare la pace e distribuire doni ai bambini buoni.

È chiaro che tanto le citazioni bibliche quanto La Grande Zucca sono sarcastiche parodie della fede cristiana e del Natale. Se può essere giustificato il fastidio verso chi cita versetti biblici a proprio uso e consumo, l’attacco al Natale è tipico di coloro che si credono “illuminati” e disprezzano “i semplicioni” che hanno fede in qualcosa. Ma proprio questo è il segno del profondo pessimismo dell’Autore. Anche tenendo conto dei vincoli di una striscia dove i protagonisti devono restare perennemente uguali a sé stessi, l’impressione che si ricava da tutte queste storie senza sbocco, da tutte queste sconfitte, da tutti questi traguardi intravisti e mai raggiunti è quella di uno sguardo disincantato sulla vita, molto spesso reso esplicito nei dialoghi dei personaggi. L’esatto contrario del modo in cui i bambini guardano alla realtà.

Potrei proseguire per pagine e pagine citando tantissimi altri personaggi secondari come Piperita Patty o Sally, la sorella minore di Charlie Brown, ma ripeterei soltanto i temi che ho cercato di delineare finora: amori mancati, corteggiamenti rifiutati (c’è una gran paura di essere amati, tra i Peanuts), risultati scolastici perennemente pari a zero e giustificati con i più acrobatici contorcimenti mentali. Non sarebbe molto interessante.

Eppure, in cinquant’anni di costante presenza sui giornali e le riviste di tutto il mondo, i Peanuts non hanno mai dato nessuna impressione di monotonia. In parte grazie all’inesauribile inventiva di un genio come Schultz, in parte per un motivo più profondo. I suoi personaggi vivono in un limbo senza tempo, non sono bambini né lo sono mai stati, ma proprio avere l’apparenza dei bambini con le passioni e i sentimenti degli adulti consente di guardare con indulgente distacco alle loro vicissitudini, e al tempo stesso di rispecchiarci nelle loro idiosincrasie, nelle loro aspirazioni, nelle loro piccole gioie.

Possiamo ritrovarci nella profonda metafora della vita o nei momenti più umoristici, surreali e scherzosi che ci siamo visti sfilare davanti per mezzo secolo. Intere generazioni hanno guardato ai Peanuts e non solo ci si sono identificate, ma a loro volta questi adulti in miniatura hanno contribuito in non piccola parte a plasmare il modo in cui guardiamo alla realtà.

Che si tratti del contrario di un fumetto di evasione ma di un’opera che tratta temi importanti, primi tra tutti l’amicizia, l’amore, il tempo, è dimostrato dal fatto che mi sono sentito spinto a prendere posizione commentandolo e criticandolo, e con me un numero sterminato di critici più o meno acuti, più o meno autorevoli. 

Ma a qualunque livello vengano letti, i Peanuts fanno ridere, fanno commuovere, fanno pensare. È una simpatica, eterogenea tribù dove tutti i personaggi sono necessari e sono legati, in fondo, da un grande affetto: l’affetto del loro creatore e quello inesauribile dei lettori.

Giovanni Romano



1. Nell’originale c’è una sfumatura di disprezzo e di derisione, come a dire: “Quello stupidotto lì”.


sabato 28 dicembre 2024

RECENSIONE - Arte e Fascismo di Vittorio Sgarbi

 



Nell’arte non c’è fascismo - Nel fascismo non c’è arte”

Pur nella sua compatta brevità, questo libro ripropone una questione tanto annosa quanto fondamentale: è possibile fare arte sotto una dittatura? In che modo le opere risentono dei vincoli ideologici, economici e anche polizieschi del regime nel quale l’artista si trova a operare? Cosa ne è della sua personalità, a quali compromessi deve scendere pur di lavorare e soprattutto di creare?

La risposta non è scontata come potrebbe far credere il sottotitolo, che all’apparenza esibisce impeccabili credenziali antifasciste. Prima di tutto bisognerebbe chiedersi: dove comincia l’arte e dove finisce il fascismo? È possibile separarli in modo così netto? Non potrebbe darsi che un movimento politico sia così coinvolgente per un artista da ispirare direttamente la sua creatività? Reciprocamente: il valore di un movimento politico si misura dalla levatura degli artisti che vi aderiscono?

Prendiamo un caso eclatante di conflitto tra arte e propaganda: l’URSS, e in particolar modo l’Unione sovietica ai tempi di Stalin. È indubbio che almeno all’inizio il comunismo, o meglio la causa della rivoluzione, mobilitò il cuore, la creatività e l’intelligenza di artisti di prim’ordine come Esenin, Majakovskij, Babel’, Blok, Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, per fare solo alcuni nomi. Quasi tutti loro, però, andarono incontro a una fine tragica: perirono suicidi, morirono anzitempo, furono eliminati nel lager oppure furono condannati a una vita di sospetto ed emarginazione. E tuttavia, nonostante tutto, proprio sotto il disumano regime stalinista operarono registi come Eisenstein, musicisti come Shostakovic, e negli anni del grigiore brezneviano abbiamo avuto poeti come Evtushenko. Non sto parlando di dissidenti, sto parlando di artisti inseriti nel “sistema” pur se guardati con profondo sospetto dai custodi dell’ortodossia, costretti a vere e proprie acrobazie ideologiche pur di sopravvivere e dar vita alle loro opere. Eppure, Eisenstein ci ha lasciato capolavori come La corazzata Potemkin, Aleksandr Nevskij e la serie incompiuta su Ivan il Terribile; Shostakovic ci ha lasciato le sue sinfonie, Evtushenko i suoi poemi amari e struggenti. Al di là delle forche caudine dell’ideologia, chi oserebbe dire che queste non sono opere d’arte?

Come suo solito, l’Autore affronta la questione con la sua consueta verve di pensatore controcorrente e mette impietosamente allo scoperto delle verità scomode taciute da quella che Renzo De Felice definiva “la volgata resistenziale”.

Grazie a Pierluigi Battista che ha scritto una coraggiosa prefazione, si scopre così che un numero sorprendente di artisti che nel dopoguerra s’intrupparono nelle file della sinistra aveva partecipato con convinzione e ossequio all’arte fascista. L’elenco è lungo e impressionante, e le giustificazioni fornite a posteriori non si sa se lasciano piu’ indignati o piu’ sbalorditi. Veri e propri contorsionismi verbali di cui Battista offre un ricco campionario: “afascismo”, “sdoppiamento”, “antifascismo allusivo”, “modo antifascista di essere fascisti”, “antifascismo segreto”, “non antifascista”, fino alle vette inarrivabili di “fascisti sì, ma di malumore” e di quel grande antifascista - di cui si tace pudicamente il nome - che aveva scritto un panegirico di Mussolini “con l’inchiostro simpatico”. Direbbe Leopardi “non so se il riso o la pietà prevale”.

Molto meglio Fortunato Depero che nel dopoguerra dichiarò con brutale sincerità “dovevo pur mangiare”. Certamente meglio delle sconcertanti prese di posizione di Giulio Carlo Argan (sì, proprio lui!) che nel 1939, in occasione di un viaggio negli USA, inveiva contro “il potentissimo elemento ebraico” presente nella vita e nella cultura americana.

Ovviamente, il testo non si limita alla denuncia di questa ipocrisia. Chi volesse approfondire l’argomento si legga I redenti - gli intellettuali che vissero due volte di Mirella Serri. Sgarbi cerca piuttosto di dimostrare - ed è qui l’interesse del suo libro - che durante il fascismo l’arte sopravvisse, che furono create opere valide, che gli artisti erano interiormente liberi al di là della cappa ideologica del mussolinismo. In altre parole, l’arte contiene un elemento di creatività che sopravvive a qualsiasi dittatura. Per il solo fatto che un regime ha bisogno degli artisti, ha bisogno di qualcosa di nuovo, di persuasivo, di originale, di un contributo che solo l’artista può fornire in quanto artista e non in quanto aderente a un movimento politico. Sgarbi sottolinea un punto fondamentale: compito dell’artista è “far sentire la sua idea della realtà oltre la propaganda che gli era chiesta”. In questo senso va letto il sottotitolo: nel momento supremamente creativo nell’arte non c’è fascismo, e viceversa nessun fascismo e nessun altro totalitarismo sarà mai capace di produrre un’opera d’arte direttamente dai propri postulati ideologici. Ne abbiamo avuto una prova dalle BR che non sono riuscite a produrre un solo poeta, un solo pittore, un solo musicista ma al massimo memorialisti e scrittori di gialli, a testimonianza della sterilità di un non-pensiero continuamente avvitato sulla sola politica.

Si può dunque ammettere che durante il fascismo l’arte non si spense, anche grazie a figure organizzatrici di prim’ordine come Margherita Sarfatti, alla quale Sgarbi dedica un ottimo approfondimento. Si può anche concordare con lui sulla validità delle tante opere da lui rievocate e commentate, con l’accompagnamento di un buon corredo iconografico.

Di grande interesse sono anche i cenni biografici sulle vite tormentate di quegli artisti che aderirono con piena convinzione al fascismo e non cambiarono bandiera, nonché sui giochi di potere e sugli scontri tra le varie correnti del fascismo incarnate dai gerarchi, con mostre e contro mostre, premi e contropremi a seconda dell’allineamento o meno con l’abbraccio mortale della Germania nazista.

A mio giudizio questo è un libro stimolante che fa riflettere, di facile lettura sia per lo stile che per il testo chiaro e leggibile. Di minore interesse, almeno per me, sono i riciami alle vicende private dell’Autore, non escluse quelle giudiziarie. Forse il risultato inevitabile di un uomo che nella vita si è fatto largo a gomitate.

Tuttavia sono rimasto con una domanda e una considerazione finale: anche ammettendo la validità e la bellezza di molte delle opere create durante il Ventennio, perché nessuna di loro è mai arrivata alla validità e alla notorietà di un capolavoro universale? È solo per via della congiura del silenzio, della damnatio memoriae che ha accompagnato il fascismo, della cappa di piombo imposta dall’egemonia degli intellettuali sinistrorsi sulla nostra cultura, oppure queste opere mancavano davvero di qualcosa, di uno sguardo sulla condizione umana che può nascere solo in una atmosfera di libertà?

Un punto che non condivido, infine, è quando Sgarbi, alle pagine 20 e 21, scrive testualmente: “Nessuno si pone davanti a un’opera di Botticelli o di Michelangelo il problema del potere che ha suscitato quelle opere, i Medici, i papi. Davanti a Raffaello nelle stanze vaticane, davanti a quella gloria della Chiesa che era l’esaltazione di un potere, non ci poniamo il problema che Raffaello abbia obbedito al papa. Anzi, al papa Raffaello ha insegnato”.

Sicuramente gli avrà insegnato qualcosa sulla pittura, quanto alla teologia è opinabile… ma il punto è ben più serio. Tra Chiesa e fascismo, o meglio tra Chiesa e totalitarismo, vi è una differenza inconciliabile: la Chiesa richiedeva agli artisti di conformarsi a dei valori universali ed eterni in cui essa stessa credeva e a cui obbediva, dal Papa fino all’ultimo fedele, e per questo l’arte cristiana ha potuto creare capolavori universali ed eterni. Il fascismo invece – così come il nazismo o il comunismo – è un fenomeno profondamente diverso, un totalitarismo che non riconosce né limiti al proprio potere né stabilità ai propri valori. Forse il dramma e il provincialismo dell’arte durante il fascismo sono nati da qui.


Giovanni Romano

giovedì 9 maggio 2024

Gianrico Carofiglio, ovvero il mentitor sottile


Dico subito di essere in profondo disaccordo politico, morale e culturale con l’Autore, e tuttavia confesso che leggere il suo libro è stato un sollievo. Finalmente un volume scritto in ottimo italiano, senza le sciatte parole ripetute, senza il linguaggio offensivo, sboccato e volgare dei social che sporca anche le discussioni sugli argomenti più seri. Finalmente uno scrittore immune dal malvezzo di mettere una virgola superflua tra soggetto e verbo (il che appesantisce fastidiosamente la lettura e crea un’inutile pausa mentale). Finalmente, infine, un libro scritto da una persona veramente colta, padrona di argomenti che sa esporre con chiarezza senza mai annoiare il lettore.

I miei apprezzamenti, però, si fermano qui, perché è l’impostazione dichiaratamente “partigiana” di Carofiglio a non avermi convinto; è il suo manicheismo sinistrorso a togliere molto valore a un’opera che pure offre più di uno spunto degno di riflessione; è la sua manomissione delle parole ad avermi spinto a coniare per lui la definizione di “mentitor sottile”.

Recensire in maniera approfondita un libro come questo richiederebbe un saggio altrettanto documentato, approfondito e di ampio respiro. È un compito alla portata di soli studiosi e giornalisti professionisti perché per discutere le tesi di Carofiglio e controbattere punto per punto alle sue affermazioni occorre un lavoro di documentazione altrettanto imponente, altrettanto scrupoloso e su molteplici piani: linguistico, giuridico, letterario e filosofico.

Il libro (in realtà, la ripresa e l’approfondimento di un libro già scritto nel 2010) è un interminabile attacco non solo a Berlusconi (la bestia nera dell’ex giudice Carofiglio e di tutte le toghe rosse) ma attraverso di lui a tutto uno schieramento politico, a tutto un orientamento culturale, a tutto un corpo elettorale che nel 1994 mandò a vuoto il progetto delle sinistre che sembrava dovesse realizzarsi da un momento all’altro: andare al potere per via giudiziaria dopo aver distrutto i partiti della prima repubblica (PCI escluso) con l’inchiesta Mani Polate… pardon, Mani Pulite.

Il resto è la storia di un conflitto senza quartiere, di inchieste a raffica, di ribaltoni e golpe di palazzo che hanno appioppato al paese governi non eletti per oltre un decennio, con esiti disastrosi per i cittadini, per il sistema produttivo, per il ruolo e la credibilità internazionale del nostro paese. È la storia della costante, sistematica, odiosa denigrazione di un uomo che pur con tutti i suoi gravi difetti aveva avuto il coraggio di giocarsi in prima persona e mostrare che il re (lo statalismo, l’oppressione fiscale, una burocrazia insensata) è nudo. Non sto qui a ripetere gli episodi più grotteschi e più offensivi (come la consegna dell’avviso di garanzia a Berlusconi il giorno stesso del summit G8 a Napoli, uno schiaffo non solo a lui ma all’Italia intera).

Il libro si articola in una approfondita analisi delle parole più significative per la convivenza di una collettività, ed è su questo piano che si comprende come agisce un “mentitor sottile”: dire delle verità incontrovertibili ma tacerne altre non meno importanti. Presentare una e una sola versione dei fatti, per quanto documentata. Rivendicare per sé la libertà di critica e la coscienza etica senza mai lasciare nessuno spazio né riconoscere valore a posizioni non allineate al pensiero unico: il suo.

È vero, ad esempio, che la democrazia articola riccamente le parole mentre la dittatura le impoverisce e le svuota (a parte l’opportuna citazione di Orwell con la Neolingua di “1984”, ho trovato molto interessante aver citato gli studi di Victor Klemperer sulla non-lingua del Terzo Reich). La lingua – come chiarisce giustamente Carofiglio – diventa uno strumento di dominio quando c’è qualcuno che si arroga il potere di definire le parole, di dare ad esse il significato che vuole lui, escludendo tutti gli altri. Per questo egli cita con approvazione i sofisti che sapevano dibattere una questione da tutti i lati, sostenendo prima una tesi e poi il suo esatto contrario, beninteso a scapito della verità e a servizio del potere che contestano solo in apparenza. È vero anche che le parole creano le cose, le portano in esistenza (anche qui una bella citazione dell’incipit al Vangelo di Giovanni).

Ma il discorso di Carofiglio troppo spesso si muove solo all’interno delle parole, e preferisce sorvolare sui fatti scomodi. Ad esempio, egli accusa gli intellettuali di destra di avere manipolato e distorto Orwell citandolo fuori contesto e facendolo passare per uno dei loro, ma non spiega il perché degli attacchi così demolitori che questo autore di sinistra indirizzò ai regimi comunisti (non al comunismo in quanto tale). In verità Orwell, che in Spagna combatté contro i fascisti, assisté inorridito alle purghe dei combattenti antifascisti non allineati al partito comunista e scampò di poco egli stesso all’arresto e alla fucilazione. Cose alle quali Carofiglio non accenna minimamente.

Oppure, sempre a proposito di Orwell, Carofiglio sostiene che il mondo di “1984” è “pauroso ma fantastico, un’utopia negativa che esiste solo nella realtà della scrittura”, mentre il Terzo Reich era un mondo “pauroso e reale”. Questa è proprio menzogna sottile, è minimizzare consapevolmente la realtà per rassicurare i lettori di sinistra di essere quelli che militano sempre e comunque dalla “parte giusta”. Chiunque abbia vissuto nell’URSS di Lenin e Stalin – e soprattutto ne sia uscito vivo! – può smentire queste affermazioni, può fare migliaia di esempi della menzogna normale e quotidiana cui si era costretti a sottostare, sulle biografie e le fotografie alterate, sui fatti falsificati in spregio alla più elementare evidenza, sulle persone scomparse e assassinate senza lasciare traccia, sulla consapevole distorsione e manipolazione del linguaggio – fatti di cui, sfortunatamente, Carofiglio non ci offre nessun esempio.

Prendiamo anche un altro esempio di posizione tendenziosa. Carofiglio reagisce con disprezzo alle parole di Berlusconi dopo l’aggressione che questi subì in piazza Duomo, quando gli venne scagliata in volto una riproduzione in porfido del Duomo di Milano, ferendolo abbastanza seriamente. Berlusconi, probabilmente per calmare gli animi, fece appello a sentimenti non politici o pre-politici: “All’odio noi rispondiamo con l’amore”. L’Autore e altri intellettuali da lui citati trovano altezzosamente da ridire su questa formula, un po’ ingenua se vogliamo, facendo freddamente notare che in politica non esiste l’amore ma solo il calcolo In altre parole, invece di fare il vittimista Barlusconi avrebbe dovuto tenersi la ferita, e zitto. È già cinico così, ma Carofliglio fa di peggio: tace completamente sulla dissennata campagna di odio, di insulti, di aperte istigazioni alla violenza e all’eversione che per settimane aveva imperversato sui giornali, nei girotondi, nelle esternazioni di tutta la compagnia di giro degli intellettuali, dei giornalisti, della gente di spettacolo che si dichiarava “nauseata” e “rivoltata” da Berlusconi e da tutto quello che lui rappresentava, non esclusi i giudici. Furono loro a mettere in mano quella pietra all’aggressore; la reazione di Berlusconi, se mai, fu fin troppo mite.

Un terzo esempio è la manomissione della parola “popolo”. Il popolo, cui tanto volentieri fanno appello le destre populiste, in realtà non esiste, è totalitarismo parlare di popolo come se tutti i cittadini condividessero gli stessi valori, appartenessero alla stessa stirpe, professassero la stessa fede e la pensassero allo stesso modo. Questo è incontrovertibilmente vero. Inoltre, i populisti giocano con le cifre quando sostengono di avere vinto le elezioni, poniamo, con il 46% dei voti quando in realtà è andato a votare solo il 30% degli aventi diritto. In pratica, il paese si troverebbe governato da una minoranza molto esigua, il 13,8% del corpo elettorale. Possiamo parlare di consenso plebiscitario, in un caso come questo? Certamente no, ma come mai il 70% non si è recato alle urne? Senza scomodare la distinzione di Giovanni Sartori tra “buona” e “cattiva” apatia (una distinzione che certamente Carofiglio conosce, del resto ha citato altrove proprio il libro “Democrazia e definizioni”) la demotivazione dovrebbe essere più un problema per l’opposizione, che non è riuscita a mobilitare gli astenuti, che non per quei partiti che bene o male hanno raccolto un consenso effettivo.

Ma la menzogna sottile non sta solo in questo, c’è ben altro. È negare l’esistenza stessa di un popolo, che non è né sarà mai un’entità monolitica – su questo Carofiglio e gli autori da lui citati hanno ragione – ma la cui esistenza non può essere negata con elaborati sofismi. Il popolo non è un’invenzione: provatevi a dire che i cinesi, o gli americani, i russi o gli inglesi sono un’invenzione. Esiste una storia comune che non può essere negata, una lingua comune (a volte non è necessaria neanche quella, pensiamo agli svizzeri) un comune modo di comportarsi, un modo di reagire comune alle circostanze che riguardano tutti, che è proprio di ciascun determinato aggregato di persone. Altrimenti si si creano non tanto le persone criticamente consapevoli auspicati da Carofiglio quanto individui soli, ancor più alla mercé di potenti meccanismi di manipolazione perché non hanno nessun punto di riferimento al di fuori di discorsi, idee che diventano fin troppo facilmente ideologie disancorate dalla realtà.

Scagliarsi contro il “populismo”, inoltre, presenta il vantaggio di consolidare il potere nelle mani di chi già lo detiene senza dover rendere conto a nessuno. Protesti per l’eccessivo carico fiscale che ti costringe a chiudere la tua attività? Sei un populista! Ti rifiuti di essere trattato come una bestia da lavoro e di dover aspettare i settanta o settantadue anni per andare in pensione? Sei un populista! Sei quanto meno perplesso dal continuo afflusso di gente che arriva senza permesso, crea problemi di ordine pubblico e drena le fin troppo scarse risorse del paese? Sei un populista! E se sei un populista, devi stare zitto!

Tra le altre ambiguità di questo libro mi hanno particolarmente urtato l'abuso e la deliberata distorsione della parola “Scelta”, che non a caso è anche il titolo di uno dei capitoli più importanti. L'Autore scrive testualmente (pagg. 88-89): “Dovremmo poter scegliere come far nascere, come vivere, e, nel caso di vite che hanno esaurito la loro parabola, come lasciar andare con rispetto. Non è questa – lasciar andare – una locuzione scelta a caso. Le ultime parole di Giovanni Paolo II, riferite nel resoconto ufficiale degli Atti della sede apostolica, sono state: 'lasciatemi andare alla casa del Padre'”.

Se non è manomissione delle parole questa! Proviamo noi, allora, a esercitare l'arte del dubbio tanto lodata da Carofiglio, e andiamo ad analizzare criticamente le sue affermazioni. Chiediamoci ad esempio: cosa significa “scegliere come far nascere”? Con l'aborto eugenetico? Con la fecondazione artificiale e l'utero in affitto, per vendere i neonati a chi per natura non può averne, come le coppie omosessuali? E chi sceglie, in questo caso, il nascituro forse? Su questo punto in particolare si assiste a una clamorosa, fraudolenta manomissione delle parole, su cui Carofliglio stranamente preferisce sorvolare: la compravendita di neonati è definita eufemisticamente dai media “gestazione per altri” oppure “maternità solidale”.

Ancora: servirsi delle parole del Papa come di un manifesto a favore dell'eutanasia è semplicemente rivoltante. Non occorre essere una persona del livello culturale di Carofiglio per capire la differenza tra il procurare attivamente la morte e il rifiuto dell'accanimento terapeutico (che non si deve confondere con l'eutanasia passiva). Oltre che citare gli Atti della sede apostolica, l'Autore avrebbe potuto dare un'occhiata agli articoli 2277 e 2278 del Catechismo della Chiesa cattolica, libro che stranamente manca nella sua sterminata bibliografia. Meno male che subito dopo cita le parole di un magnifico combattente come il poeta W. E. Henley, un inno alla vita nonostante tutto. Ma la contraddizione è solo apparente: per Carofiglio la scelta di vivere o morire è semplicemente soggettiva, un atto di volontà che non deve render conto di niente a nessuno, fondamentalmente arbitrario tanto se sceglie di vivere quanto se sceglie di morire. La scelta, e non i motivi da cui scaturisce né le conseguenze che essa provoca, è il valore fine a sé stesso.

Siamo in presenza di visioni del mondo assolutamente inconciliabili, ed è qui che scatta la mia ribellione, è qui che scatta il mio NO (o più modestamente il “preferirei di no” come il Bartleby di Melville da lui citato). Non sono e non sarò mai dalla parte di Carofiglio e di chi la pensa come lui quando si tratta di difendere la vita nascente o la morte naturale. Non sono e non sarò mai dalla sua parte quando parla di “inclusione”, “rispetto”, “tolleranza” senza mai mostrare né tolleranza né rispetto per chi la pensa diversamente da lui. Non sono e non sarò mai per una ribellione a senso unico che finisce per veicolare nuove forme di asservimento e di sottile menzogna.

Infine – mi dispiace per il dottor Carofiglio – devo segnalare un suo grossolano errore a proposito della Divina Commedia (cfr. pag. 91). I suicidi non sono puniti nel secondo cerchio dell'inferno ma nel settimo, tra i violenti e non tra i lussuriosi. (1)

Questa mia recensione, per quanto prolissa, tocca soltanto di sfuggita la ricchezza di temi, di domande, di interrogativi sollevata dal libro. Un libro con cui ogni intellettuale conservatore deve assolutamente confrontarsi sia per sollevare il tono del dibattito sia per uscire più agguerrito dal confronto con un avversario di alto livello.

Giovanni Romano

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1. Per amore di verità, va detto che Carofiglio sarà stato tratto in inganno dalla presenza della suicida Didone tre i lussuriosi, assieme ad altre anime che avavano incontrato una morte violenta come Paolo e Francesca. Ma Didone è nel secondo cerchio solo perché Dante voleva mostrare le conseguenze tragiche della lussuria, non perché quel cerchio fosse destinato ai suicidi in quanto tali.