Confesso di appartenere alla schiera di coloro che non amano l'ora legale, ai quali non sorride affatto il pensiero di doversi alzare un'ora prima per coricarsi un'ora dopo.
Intendiamoci: tutti i sistemi per misurare il tempo sono "ore legali". Ida Magli scriveva che è l'uomo, con le feste, i riti, la misurazione del tempo, che cerca di dare il senso a quello che altrimenti sarebbe uno scorrere indifferenziato.
Lasciamo da parte la domanda sul perché l'essere umano sente questo bisogno di differenziare il tempo e di dargli un significato e concentriamoci su una risposta più pratica. Tutte le ore sono convenzionali, è vero, ma quella "solare" è più rispettosa dei ritmi dell'uomo e della natura.
Tanto per cominciare, almeno nei primi tempi alzarsi un'ora prima ci ributta nel buio e nel freddo, come ben sa chi va a lavorare la mattina presto. Inoltre, prolungare artificialmente la giornata induce stanchezza e irritabilità.
Per addolcire la pillola ci viene detto che con questo sistema "si risparmia energia energia e denaro". Quanta energia e quanto denaro, precisamente? 620 milioni di kilowattore (ma quanti ne consumiamo in una sola settimana?) e 62 milioni di Euro. 62 milioni, in vecchie lire, fanno 120 miliardi di lire circa. Ma quanto costano a noi contribuenti le sole spedizioni dei nostri soldati all'estero nel giro di un mese, Iraq escluso? Non sarebbe meglio risparmiare su queste voci, e non sulle spalle dei cittadini? Inoltre, di questi pretesi "risparmi" le famiglie italiane non vedranno nemmeno un centesimo. Al contrario, sono già in cantiere gli ennesimi aumenti delle bollette di luce e gas.
Vi è infine una ragione per così dire culturale che non mi fa accettare l'ora legale. Un sistema del genere è figlio di un'economia di guerra, della nevrosi da scarsità tipica del pensiero illuminista-utilitarista di derivazione anglosassone. Benjamin Franklin, l'"inventore" dell'ora legale, strepitava con il re di Francia perché la polizia sequestrasse tutte le candele, costringesse i bottegai ad alzarsi al canto del gallo, spegnesse i lampioni per le strade, e altre amenità. Tipico comportamento degli "illuminati" (è il caso di dirlo!) che per "convincere" della bontà delle proprie idee non trovano di meglio che farsi forti della polizia...
Qual è, in conclusione, il vero significato dell'ora legale, al di là delle bugie sul "risparmio"? Far capire al cittadino che è solo un oggetto di cui il potere può fare quello che vuole (compreso il tirarlo giù dal letto un'ora prima), e, ancora più a fondo, la pretesa dell'uomo di essere padrone e artefice del tempo, in spregio ai veri ritmi della natura.
Aveva ragione a questo proposito Hannah Arendt quando osservava che l'uomo moderno odia tutto ciò che viene dall'esterno, che gli viene semplicemente dato, e che non può manipolare. Non potendo ordinare al sole quando sorgere e quando tramontare, non resta che questo squallido espediente per illuderci di avere potere. A danno di noi stessi e della nostra salute.
Giovanni Romano
Questo non è un blog trasgressivo. E' contro i trasgressivi a buon mercato. Questo non è un blog onesto o politicamente corretto. E' contro gli onesti e i politicamente corretti di professione. Questo non è un blog fuori dal coro, perché al suo autore piace la musica corale e l'unità tra le persone che essa crea.
domenica 27 marzo 2005
mercoledì 23 marzo 2005
Visto da vicino
Il sopravvalutato film di Marco Bellocchio
“Ora di religione”? No, dogma laicista!
“Ora di religione”? No, dogma laicista!
“Denaro e santità, metà della metà”, così recita una cinica massima laica. Probabilmente a questo pensava Marco Bellocchio quando ha girato il suo ultimo film, “L’ora di religione”. Sarebbe troppo facile liquidarlo come un pastiche di luoghi comuni, pregiudizi e insofferenze verso la Chiesa. Bisogna invece analizzarlo a fondo, se non altro perché l’impostazione ideologica del regista rispecchia un modo di pensare sempre più diffuso e sempre più apertamente ostile al cristianesimo.
La trama è piuttosto lineare ma ricca di risvolti: Picciafuoco, pittore famoso, ateo intransigente, in crisi di matrimonio e di creatività viene a sapere che i fratelli hanno promosso la causa di beatificazione della madre, donna religiosissima, uccisa molti anni prima dal figlio maggiore che non sopportava più di sentirsi rimproverare le continue bestemmie. Da questo momento comincia una lotta senza quartiere tra lui e il resto della famiglia spalleggiato dalla Chiesa, che vogliono coinvolgerlo a tutti i costi in un sordido business di fatto di denaro, menzogne e imbrogli. Si inventa una santità di sana pianta a colpi di siti Internet, di opuscoli, di santini disgustosamente kitsch per ottenere denaro, fama, potere. Ma i ricordi del pittore sono ben diversi: di santo la vita della madre non aveva proprio nulla. Era soltanto una mediocre devota, fin troppo rassegnata ai mali della vita, che aveva intristito i figli (e il maggiore in particolare, fino a farlo impazzire) con gli scrupoli e i sensi di colpa derivati dalla religione. Da qui il costante rifiuto dell’artista a partecipare alla sceneggiata, la lotta –vittoriosa, purtroppo– per strappare suo figlio dall’influenza della madre, del parentado e dell’“ora di religione”, l’abbraccio doloroso con il fratello pazzo che urla ancora più forte le sue bestemmie quando tutti si aspettano da lui la scena madre del grande pentimento.
Il film si chiude con un parallelo significativo: mentre la famiglia si reca tutta tronfia all’udienza privata con il Papa, il pittore accompagna suo figlio a scuola –una scuola laica e statale, beninteso– e il bambino passa trionfalmente accanto a una grande, palpitante bandiera dell’Unione Europea (quella stessa UE che ha “dimenticato” ogni riferimento al cristianesimo nella carta dei suoi diritti fondamentali). E’ inutile dire che la vicenda, per alcuni precisi riferimenti del regista, è ambientata nel 2000, l’anno del Grande Giubileo.
Una pellicola del genere pare la trasposizione cinematografica del libro dissacratore di Giordano Bruno Guerri contro Santa Maria Goretti “Povera santa, povero assassino”. Ma oltre ai temi famigliari dei film di Bellocchio (l’odio contro la famiglia considerata un inferno di frustrazioni e di alienazione, la sete d’amore destinata a non trovare risposta, l’impossibilità di liberarsi da un passato che pure si rifiuta con tutte le forze) qui c’è dell’altro: il desiderio di esorcizzare la Grazia, di ridurre il comportamento umano al gioco dell’istinto e del calcolo, di deridere chi si gioca la vita su un orizzonte più grande di sé. Come se avesse paura di farsi mettere in discussione dalle incursioni del Totalmente Altro… Non è successo niente, circolare, circolare!
Da questo punto di vista mi è parsa molto inopportuna la menzione speciale della giuria ecumenica al festival di Cannes, in quanto il film corrisponderebbe a “un interrogativo moderno di Dio che deve essere ascoltato [l’interrogativo, si badi bene: ad ascoltare Dio ci pensano in pochi, N.d.R.] perché il suo protagonista si oppone a tutti compromessi ed è l’espressione di una ricerca di identità e di verità”. No, è l’espressione soltanto di se stesso e dei suoi pregiudizi antireligiosi!
Contro tutte le apparenze, “L’ora di religione” è un film assai moralista. Bellocchio è dalla parte dei farisei che schernivano e minacciavano il cieco nato perché, imperfetto e peccatore com’era, osava testimoniare che Cristo l’aveva guarito. Lo si vede con grande evidenza dal modo in cui tratta il personaggio del miracolato, un ometto ingenuo, pasticcione e meschino, ma che non rinuncia all’unica evidenza grande della sua vita: è stata la preghiera indirizzata alla madre di Picciafuoco a salvarlo: questa certezza è più forte di ogni suo peccato e di ogni suo errore. Una cosa del genere per Bellocchio non può e non deve accadere. Certe domande non devono neppure essere poste. Questo forse aiuta a spiegare il motivo per cui il film è stato girato: è un attacco a quell’Italia che tenacemente resiste alla secolarizzazione, un attacco all’influenza e al prestigio della Chiesa, più o meno come lo scandalo dei preti pedofili negli USA è scoppiato –guarda caso– proprio quando i rapporti con la presidenza Bush non potevano essere migliori, e il rispetto per i cattolici mai era stato così alto, specialmente dopo l’11 settembre.
Se Bellocchio ha gli anni del ’68, in questo film li dimostra tutti, e specialmente nella seconda parte, quando la tensione rigorosamente costruita dall’inizio si dissipa in troppi episodi del tutto improbabili e fini a se stessi (l’assurdo duello, l’amplesso con la finta insegnante di religione). E’ questo, probabilmente, il destino di ogni film a tesi: quando si esauriscono i discorsi si deve chiudere tutto in fretta e furia, come capita capita, e tanto peggio per la verosimiglianza.
Due scene mi sono rimaste particolarmente impresse. La prima è quando la moglie di Picciafuoco, verso la fine, entra in punta di piedi nella stanza del bambino e lo battezza di nascosto. Un gesto di fanatismo? Forse no, perché in un film dove la santità è platealmente ostentata nessuno ne viene a sapere nulla, nemmeno il marito. Che sia un’immagine del futuro della nostra cristianità, vivere in un mondo dove un segno di croce dà fastidio, dove il cristianesimo è talmente estraneo e combattuto da costringere le madri a trasmetterlo di nascosto, come ai primi tempi? L’altra scena è il colloquio di Picciafuoco con un cardinale postulatore della causa di beatificazione che lo interroga sui fatti (almeno lui vuole saperli veramente!). A un certo punto Picciafuoco sbotta: “Ma insomma! Mia madre non faceva altro che dire: ‘Non fate questo, non fate quello!’ Mai una volta che dicesse cosa avremmo dovuto fare, invece che bestemmiare!”. Mi sembra uno dei pochi spunti veri del film: non appiattire la fede sulle proibizioni ma domandare sempre un di più per la vita.
Un’ultima nota sulla realizzazione: impeccabile e molto ben realizzata la fotografia, di buon livello gli attori, (in particolare l’interprete del fratello ex-terrorista). Nei panni di Picciafuoco un Sergio Castellitto in gran forma che però, verso la fine del film, per l’assurdità della trama perde colpi e passa da un’espressione intensa a una banale faccia stralunata.
La trama è piuttosto lineare ma ricca di risvolti: Picciafuoco, pittore famoso, ateo intransigente, in crisi di matrimonio e di creatività viene a sapere che i fratelli hanno promosso la causa di beatificazione della madre, donna religiosissima, uccisa molti anni prima dal figlio maggiore che non sopportava più di sentirsi rimproverare le continue bestemmie. Da questo momento comincia una lotta senza quartiere tra lui e il resto della famiglia spalleggiato dalla Chiesa, che vogliono coinvolgerlo a tutti i costi in un sordido business di fatto di denaro, menzogne e imbrogli. Si inventa una santità di sana pianta a colpi di siti Internet, di opuscoli, di santini disgustosamente kitsch per ottenere denaro, fama, potere. Ma i ricordi del pittore sono ben diversi: di santo la vita della madre non aveva proprio nulla. Era soltanto una mediocre devota, fin troppo rassegnata ai mali della vita, che aveva intristito i figli (e il maggiore in particolare, fino a farlo impazzire) con gli scrupoli e i sensi di colpa derivati dalla religione. Da qui il costante rifiuto dell’artista a partecipare alla sceneggiata, la lotta –vittoriosa, purtroppo– per strappare suo figlio dall’influenza della madre, del parentado e dell’“ora di religione”, l’abbraccio doloroso con il fratello pazzo che urla ancora più forte le sue bestemmie quando tutti si aspettano da lui la scena madre del grande pentimento.
Il film si chiude con un parallelo significativo: mentre la famiglia si reca tutta tronfia all’udienza privata con il Papa, il pittore accompagna suo figlio a scuola –una scuola laica e statale, beninteso– e il bambino passa trionfalmente accanto a una grande, palpitante bandiera dell’Unione Europea (quella stessa UE che ha “dimenticato” ogni riferimento al cristianesimo nella carta dei suoi diritti fondamentali). E’ inutile dire che la vicenda, per alcuni precisi riferimenti del regista, è ambientata nel 2000, l’anno del Grande Giubileo.
Una pellicola del genere pare la trasposizione cinematografica del libro dissacratore di Giordano Bruno Guerri contro Santa Maria Goretti “Povera santa, povero assassino”. Ma oltre ai temi famigliari dei film di Bellocchio (l’odio contro la famiglia considerata un inferno di frustrazioni e di alienazione, la sete d’amore destinata a non trovare risposta, l’impossibilità di liberarsi da un passato che pure si rifiuta con tutte le forze) qui c’è dell’altro: il desiderio di esorcizzare la Grazia, di ridurre il comportamento umano al gioco dell’istinto e del calcolo, di deridere chi si gioca la vita su un orizzonte più grande di sé. Come se avesse paura di farsi mettere in discussione dalle incursioni del Totalmente Altro… Non è successo niente, circolare, circolare!
Da questo punto di vista mi è parsa molto inopportuna la menzione speciale della giuria ecumenica al festival di Cannes, in quanto il film corrisponderebbe a “un interrogativo moderno di Dio che deve essere ascoltato [l’interrogativo, si badi bene: ad ascoltare Dio ci pensano in pochi, N.d.R.] perché il suo protagonista si oppone a tutti compromessi ed è l’espressione di una ricerca di identità e di verità”. No, è l’espressione soltanto di se stesso e dei suoi pregiudizi antireligiosi!
Contro tutte le apparenze, “L’ora di religione” è un film assai moralista. Bellocchio è dalla parte dei farisei che schernivano e minacciavano il cieco nato perché, imperfetto e peccatore com’era, osava testimoniare che Cristo l’aveva guarito. Lo si vede con grande evidenza dal modo in cui tratta il personaggio del miracolato, un ometto ingenuo, pasticcione e meschino, ma che non rinuncia all’unica evidenza grande della sua vita: è stata la preghiera indirizzata alla madre di Picciafuoco a salvarlo: questa certezza è più forte di ogni suo peccato e di ogni suo errore. Una cosa del genere per Bellocchio non può e non deve accadere. Certe domande non devono neppure essere poste. Questo forse aiuta a spiegare il motivo per cui il film è stato girato: è un attacco a quell’Italia che tenacemente resiste alla secolarizzazione, un attacco all’influenza e al prestigio della Chiesa, più o meno come lo scandalo dei preti pedofili negli USA è scoppiato –guarda caso– proprio quando i rapporti con la presidenza Bush non potevano essere migliori, e il rispetto per i cattolici mai era stato così alto, specialmente dopo l’11 settembre.
Se Bellocchio ha gli anni del ’68, in questo film li dimostra tutti, e specialmente nella seconda parte, quando la tensione rigorosamente costruita dall’inizio si dissipa in troppi episodi del tutto improbabili e fini a se stessi (l’assurdo duello, l’amplesso con la finta insegnante di religione). E’ questo, probabilmente, il destino di ogni film a tesi: quando si esauriscono i discorsi si deve chiudere tutto in fretta e furia, come capita capita, e tanto peggio per la verosimiglianza.
Due scene mi sono rimaste particolarmente impresse. La prima è quando la moglie di Picciafuoco, verso la fine, entra in punta di piedi nella stanza del bambino e lo battezza di nascosto. Un gesto di fanatismo? Forse no, perché in un film dove la santità è platealmente ostentata nessuno ne viene a sapere nulla, nemmeno il marito. Che sia un’immagine del futuro della nostra cristianità, vivere in un mondo dove un segno di croce dà fastidio, dove il cristianesimo è talmente estraneo e combattuto da costringere le madri a trasmetterlo di nascosto, come ai primi tempi? L’altra scena è il colloquio di Picciafuoco con un cardinale postulatore della causa di beatificazione che lo interroga sui fatti (almeno lui vuole saperli veramente!). A un certo punto Picciafuoco sbotta: “Ma insomma! Mia madre non faceva altro che dire: ‘Non fate questo, non fate quello!’ Mai una volta che dicesse cosa avremmo dovuto fare, invece che bestemmiare!”. Mi sembra uno dei pochi spunti veri del film: non appiattire la fede sulle proibizioni ma domandare sempre un di più per la vita.
Un’ultima nota sulla realizzazione: impeccabile e molto ben realizzata la fotografia, di buon livello gli attori, (in particolare l’interprete del fratello ex-terrorista). Nei panni di Picciafuoco un Sergio Castellitto in gran forma che però, verso la fine del film, per l’assurdità della trama perde colpi e passa da un’espressione intensa a una banale faccia stralunata.
Giovanni Romano
Da prendere con le molle...
Un pregiudizio è una verità che gli intellettuali non sono ancora riusciti a soffocare.
martedì 15 marzo 2005
Ergastolo alla Banelli... e gli altri?
I giudici che hanno avuto la mano tanto -giustamente- pesante contro una pentita e una dissociata delle BR si trovano ora moralmente obbligati a condannare alla medesima pena anche i brigatisti non pentiti e non dissociati. Altrimenti sarebbe molto sospetta tanta severità contro chi vuole abbandonare il terrorismo.
Si direbbe che in Italia più sei canaglia e meglio ti trattano.
Si direbbe che in Italia più sei canaglia e meglio ti trattano.
I detti dei Padri del Deserto...
Strano come questi asceti, che nel deserto si ritiravano per meditare nel silenzio e nella solitudine, ci abbiano lasciato interi volumi dei loro detti... ma quando trovavano il tempo di stare zitti?
Unabomber: adesso accusano anche Berlusconi?
In occasione dell'ultimo attentato di Unabomber, il giudice Vittorio Borraccetti non si è peritato di affermare che la fiction "Ris", trasmessa di recente su Canale 5, avrebbe esaltato e gratificato il bombarolo, spingendolo a gesti sempre più audaci (cfr. l'intervista pubblicata oggi sul Corriere della Sera).
L'ipotesi è legittima, e io personalmente sarei portato a condividerla, anche se -guarda caso- è stata avanzata soltanto per una fiction di Mediaset.
Quello che mi colpisce è che se questa ipotesi fosse stata avanzata, poniamo, per spiegare un delitto a sfondo sessuale con la visione di film a forte contenuto erotico ("Eyes Wide Shut", per esempio, o "Ultimo tango a Parigi") ci sarebbe stata una sollevazione generale in nome della libertà di espressione e di stampa. Schiere di psicologi si sarebbero affrettate a spiegarci che no, questi film sono innocui, anzi benefici perché scaricano le pulsioni represse ecc. ecc. ecc. Due pesi e due misure, in nome del "politicamente corretto".
Sta' a vedere che alla fine il bombarolo è Berlusconi?
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