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giovedì 8 settembre 2022
L'assurdo viaggio delle pere argentine
venerdì 2 settembre 2022
Gli arzilli vecchietti che smaniano per lavorare fino a cent'anni. A nostro danno
Che questi siano tempi durissimi per i lavoratori dipendenti è risaputo. Un anno dopo l'altro, un governo "tecnico" dopo l'altro, hanno perso praticamente tutti i diritti acquistati negli anni '70-'80, e nessuno può onestamente sostenere che gli pseudo."diritti civili" di nuovo conio servano nemmeno lontanamente a migliorare la loro condizione.
Lo stesso, mutatis mutandis, sta avvenendo oggi a proposito delle pensioni. Come se non fosse bastata la "riforma" (?) fornero a prolungare ingiustamente l'età lavorativa, ora si parla di prolungare ancora l'età pensionabile fino ai 71 anni "come in Giappone" (paese anch'esso colpito da una gravissima crisi demografica).
A parte la differenza di mentalità tra i lavoratori italiani e quelli giapponesi (fissarsi troppo sul lavoro può significare privarsi di altri interessi vitali, del resto persino in Giappone è nato un movimento contro il superlavoro), è degna di nota la campagna nemmeno troppo sottile che stanno conducendo due quotidiani filo-governativi come La Stampa e Il Corriere della Sera, che hanno presentato i casi di due arzilli vecchietti ultraottantenni che ancora lavorano indefessamente. Portarli come esempio "virtuoso" ha un ovvio doppio scopo: indurre l'opinione pubblica ad accettare di lavorare più a lungo, e colpevolizzare - come nel caso dei disoccupati - chi invece sente di avere già dato abbastanza e desidera semplicemente passare in santa pace gli anni che gli restano da vivere.
Due sono gli esempi portati alla ribalta. comparsi su questi giornali con sospetto sincronismo. Il primo risale al 29 agosto scorso sul Corriere, protagonista il pluristellato e pluripremiato pasticciere ottantenne Iginio Massari. Il titolo è già tutto un programma: "La pensione? L'inizio del declino. Non sono ancora abbastanza vecchio". Segue a ruota, il giorno dopo, su La Stampa, un articolo sull'ottantaduenne barista Albino Baraldo che è tornato a lavorare nel suo bar dopo averlo dato in gestione da quattro anni. Il messaggio, nemmeno tanto subliminale, è: "Vedete? Queste persone lavorano fino agli ottant'anni e oltre, e voi vi lamentate se vi chiediamo di lavorare fino ai settanta o settantuno? Pigri, inetti e parassiti che non siete altro!"
Non sono mancati, ovviamente, i commenti critici e diffidenti - la gente non è poi così stupida come forse pensano i redattori dei due quotidiani - e qualcuno, pur nel dovuto apprezzamento per Iginio Massari, ha ribattuto: "E chi l'ha detto che la pensione è l'inizio del declino? Per tanti, al contrario, può essere un nuovo inizio, con la possibilità di dedicarsi a nuovi interessi o a una passione che hanno dovuto trascurare in tanni anni di lavoro". Concordo pienamente con questa risposta.
Questi esempi "virtuosi" fanno pensare in realtà a una manovra architettata a tavolino, a una campagna propagandistica per imbonire i lavoratori e indurli ad accettare un ulteriore aumento dell'età pensionabile, e a scordarsi del tutto di lasciare il proprio lavoro per potersi dedicare finalmente a sé stessi. Perché questi esempi, meritevoli in sé, non fanno presa in realtà sul pubblico dei lettori?
Il Corriere della Sera e La Stampa sommano furbescamente le mele con le pere, presentando esempi che sono in realtà improponibili per i lavoratori dipendenti. Sia Igino Massari che il sig. Baraldo hanno due caratteristiche in comune che la maggior parte dei lavoratori subordinati non può e non potrà mai vantare:
- Sono titolari della propria attività, perché lavoratori autonomi che possono scegliere il momento di ritirarsi.
- Sono persone che dal proprio lavoro hanno tratto e traggono non solo un consistente ritorno economico, ma anche grandi soddisfazioni morali, tra cui premi e riconoscimenti come nel caso di Iginio Massari.
martedì 23 agosto 2022
Come Yu Kung NON rimosse le montagne
Una antica favola cinese, intitolata Come Yu Kung rimosse le montagne, racconta di un vecchio che viveva tanto, tanto tempo fa nella Cina settentrionale ed era conosciuto come il "vecchio sciocco delle montagne del nord". La sua casa guardava a sud e davanti alla porta due grandi montagne, Taihang e Wangwu, gli sbarravano la strada. Yu Kung decise di spianare con l'aiuto dei figli, le due montagne a colpi di zappa. Un altro vecchio, conosciuto come il "vecchio savio", quando li vide all'opera scoppiò in una risata e disse: "Che sciocchezza state facendo! Non potrete mai, da soli, spianare due montagne così grandi". Yu Kung rispose: "Io morrò, ma resteranno i miei figli; morranno i miei figli, ma resteranno i nipoti, e così le generazioni si susseguiranno all'infinito. Le montagne sono alte, ma non possono diventare ancora più alte; ad ogni colpo di zappa, esse diverranno più basse. Perché non potremmo spianarle?" Dopo aver così ribattuto l'opinione sbagliata del vecchio savio, Yu Kung continuò il suo lavoro un giorno dopo l'altro, irremovibile nella sua convinzione. Ciò impietosì il Cielo, il quale inviò sulla terra due esseri immortali che portarono via le montagne sulle spalle.
lunedì 1 agosto 2022
"Silence": un fim girato dalla parte dei persecutori
Non ho visto il film di Scorsese e non penso che lo farò, perché le scene di tortura mi fanno molta impressione, e in questa pellicola certamente non mancano. Sono dunque costretto a scrivere, per così dire, di seconda mano e per sentito dire, ma mi è parso di capire che il film è stato salutato con grande entusiasmo dalla maggioranza dei commentatori anche cattolici, e accolto con scetticismo da una esigua minoranza. Per una più ampia presentazione del film e della trama, suggerisco l'articolo di Brad Miner pubblicato l'11 gennaio 2017 sul sito La Nuova Bussola Quotidiana (www.lanuovabq.it) al link http://tinyurl.com/hvdkzg4.
Credo sia necessario fare tre premesse.
In primo luogo, il film viene a colmare una secolare lacuna storica, anzi una vera e propria congiura del silenzio sulle persecuzioni e i massacri dei cattolici giapponesi nel secolo XVII, persecuzioni che furono addirittura giustificate e applaudite nientemeno che dall'Apostolo della Tolleranza, Voltaire (vedi alla voce «Giappone» nel suo «Dizionario filosofico»). Proprio su questo punto, tra parentesi, il titolo del film si rivela in tutta la sua pregnanza: le persecuzioni furono così feroci da ridurre effettivamente al silenzio la cristianità giapponese per oltre due secoli. Silenzio poi, quando non aperta connivenza (come nel caso del sopracitato Voltaire) degli intellettuali illuministi in Europa (e ne vedremo la ragione più profonda che non fu certo motivata dalla paura). Silenzio infine dalla stessa Chiesa Cattolica che forse volle nascondere lo smacco più cocente della sua attività missionaria ed esorcizzare la domanda posta dal film: è proprio vero che il cristianesimo è positivo, è un bene per tutti gli uomini, per tutte le nazioni, per tutte le culture, o è piuttosto un fattore di divisione, di turbativa delle coscienze, di ribellione all'ordine costituito e di infiacchimento dello stato? (Gibbon docet!).
Seconda premessa: siamo sicuri che il film prenda realmente le parti dei perseguitati o piuttosto giustifica indirettamente i loro persecutori attraverso il trionfo dell'apostasia? Per meglio dire: a giudicare dalla trama, il film sembra propendere a favore di coloro che abiurarono sotto la tortura o la minaccia della tortura, e tratta da fanatici irresponsabili quelli che rimasero fermi nella fede perché attirarono l'ira delle autorità sulla loro comunità ed esposero sé stessi, le loro famiglie e i loro amici a violenze di ogni genere in nome della loro "ostinazione".
Terza premessa: la misericordia. In questo film, se ne ho capito bene la trama, la misericordia e il perdono vanno non tanto ai persecutori quanto a coloro che hanno rinnegato la fede o peggio ancora tradito i loro fratelli.
Intendiamoci: qui non si tratta di giudicare nessuno, meno che mai gli uomini e le donne che dovettero affrontare quelle situazioni spaventose e i drammi di coscienza che comportavano. Si può invece, anzi si deve, prendere posizione nei confronti di chi ha girato il film, di come abbia letto quella vicenda storica e soprattutto di quale messaggio ha voluto far passare.
Cominciamo innanzitutto con il constatare che la persecuzione in Giappone fu condotta con una determinazione assolutamente spietata e con criteri quasi scientifici per l'epoca, e a differenza delle persecuzioni in Occidente, ebbe un successo quasi completo. Questo per due ragioni: in Occidente il cristianesimo riuscì a fare propria la filosofia greca che già apparteneva al mondo classico, e si trovò a operare in una struttura statuale ancora regolata dal diritto romano che temperava l'assolutismo dell'imperatore (che ad esso anzi si richiamava apertamente). Nessuno di questi due elementi esisteva in Giappone. Sotto questo aspetto Voltaire aveva ragione, a modo suo: il cristianesimo possiede effettivamente una carica di destabilizzazione sociale (sarebbe più corretto dire: di rifondazione dei rapporti umani), una carica tanto più dirompente in una società come quella giapponese in cui l'obbedienza cieca all'imperatore e alle autorità, il conformarsi all'armonia sociale mascherava il più crudo dispotismo e i rapporti sociali più iniqui. Non è un caso che al cristianesimo aderirono non solo esponenti delle classi alte ma numerosi contadini poveri e sfruttati, che per la prima volta in vita loro vedevano riconosciuta la loro dignità di esseri umani e figli di Dio.
Il cristianesimo, inoltre, desacralizzava la figura dell'imperatore (e dunque tutta la piramide sociale che ne dipendeva) trasformandolo agli occhi dei cristiani in un essere umano dotato certamente di autorità ma sottoposto anch'egli alla legge e al giudizio di Dio.
Non so se il film colga questi punti, ma a giudicare dalla trama direi che si metta piuttosto dalla parte dell'ordine costituito. Ad esempio, uno dei protagonisti del film è un ex cristiano o sacerdote che non solo ha apostatato, ma si è trasformato nel più accanito e spietato persecutore dei cattolici (il contrario di San Paolo!). Le pressioni che costui è capace di esercitare sui fedeli sono incredibili. Oltre alle più barbare torture fisiche, usa metodi di pressione più raffinati, come ad esempio la tortura psicologica contro il sacerdote che non vuole abiurare e che viene costretto ad assistere alle sevizie e all'uccisione dei suoi parrocchiani. L'inquisitore non esita a rinfacciargli la sua fede: «Perché ti ostini tanto stupidamente con il tuo orgoglio? Cosa ti costa sfiorare appena appena col piede questa immagine di Cristo?1 Fallo, e noi cesseremo le torture e lasceremo andare i tuoi amici. Se invece moriranno tra i tormenti sarà solo colpa tua!».
Un sistema degno della Gestapo e dell'NKVD, che sarebbero venute ben tre secoli dopo! Non credo che il regista, in nessun punto del film, faccia osservare che tanta crudeltà dipende dalla libera volontà dei persecutori, non certo dai perseguitati, e che non si può accettare un ricatto morale tanto grossolano. Nessuno può scaricare sugli altri la responsabilità della sofferenza che ha scientemente deciso di infliggere ai suoi simili.
Un altro argomento che probabilmente compare di frequente nel film è che il cristianesimo non sarebbe adatto alla civiltà giapponese, sarebbe anzi un corpo estraneo, un'imposizione venuta dall'esterno e teleguidata dal Vaticano. Questo naturalmente è un sofisma: se le cose stessero veramente così non sarebbe stato necessario perseguitarlo con tanta violenza, perché l'appello dei missionari non avrebbe trovato proseliti e sarebbe caduto nel vuoto come quello di San Paolo all'Aeropago. Ho già mostrato quale carica dirompente avesse il cristianesimo nei confronti di una delle società più chiuse, conformiste e repressive del mondo, una società in cui l'individuo semplicemente non esiste come persona ed è sempre spendibile nell'interesse della comunità (o meglio del potere). Qui mi interessa affermare che la vulgata del film è una piena giustificazione del relativismo e delle culture a compartimenti stagni, senza possibilità di interazione reciproca. O meglio: secondo questa vulgata sono sempre i cristiani che devono «aprirsi» alle altre culture, ma il viceversa sarebbe sempre prevaricazione e imposizione. Questo finisce per avere due conseguenze: ghettizzare il cristianesimo entro la cultura occidentale (e sappiamo quanto questa cultura sia capace di auto-denigrazione, come disse a Subiaco l'allora Card. Ratzinger nel settembre del 20052), e negare che esso sia capace di parlare all'uomo in quanto tale, sotto qualsiasi latitudine, comprendendo e abbracciando le esigenze più fondamentali del cuore umano che è il medesimo in tutti.
In ultimo la misericordia dei cristiani. Forse è questo il punto più toccante e umano del film. Uno dei protagonisti è un traditore apostata che ha fatto imprigionare e torturare un sacerdote suo amico fraterno. Continua a tradire ma torna sempre da lui a chiedere l'assoluzione perché ogni volta ammette la sua colpa, e ogni volta viene perdonato e assolto. Questo è un punto importante. La misericordia opera quando c'è almeno il riconoscimento di quello che si è e di quello che si è fatto. La misericordia invece è vana verso chi compie il male rivendicandolo come suo diritto o peggio ancora come suo merito. Se poi il film volesse insinuare che l'idea che qualunque comportamento sarà comunque perdonato, ne lascio l'eventuale responsabilità al regista e soprattutto all'autore del libro da cui il film è tratto.
Permettetemi dunque, alla fin dei conti, di non unirmi al coro di tante voci, anche cattoliche, che hanno subito gridato al capolavoro. Può esserlo quanto alla superba recitazione degli attori, ma dal punto di vista del contenuto ne sono molto meno sicuro.
Giovanni Romano
1 . Si allude al calpestamento del Crocifisso o di una immagine sacra per provare la propria rinuncia al cristianesimo.
2 . Vedi http://tinyurl.com/z4feu42
venerdì 29 luglio 2022
Il caso Meade: quando il tempo NON è galantuomo
La battaglia, però, fece un'altra vittima nel campo nordista: proprio il generale che l'aveva vinta, George G. Meade. Dapprima fu acclamato come un eroe, e quasi subito divenne bersaglio di una violenta campagna denigratoria che ne sminuì il ruolo e ne macchiò la reputazione ben oltre la morte. Solo in tempi molto recenti si sta finalmente rivalutando non solo la sua azione di comando a Gettysburg ma anche il suo valore come stratega.
Ma procediamo con ordine. Com'è noto, l'episodio culminante della battaglia di Gettysburg fu l'inutile carica dei virginiani del generale Pickett contro le linee nordiste, che si risolse in un massacro e costrinse i sudisti a ripiegare. Ma la battaglia era stata in bilico nei due giorni precedenti, con scontri estremamente sanguinosi che avevano visto vacillare i nordisti più di una volta. Un comandante nordista, in particolare, il generale Daniel Sickles, contravvenne agli ordini di Meade e fece avanzare isolatamente il suo corpo d'armata, creando un pericoloso vuoto nella linea del fronte ed esponendo le sue truppe agli attacchi dei sudisti da ogni direzione. L'intero esercito nordista si trovò in pericolo di accerchiamento, e fu solo la prontezza di Meade nell'afferrare la situazione e inviare immediatamente rinforzi nel punto critico a impedire lo sfondamento dei sudisti. In questo scontro particolarmente cruento Sickles perse una gamba per un colpo di cannone.
mercoledì 20 luglio 2022
La Chiesa e "l'effetto Mullah"
Rimasto solo in fondo al pozzo, il mullah rifletté: "Qui dentro finirò per morire di fame e di sete. Chi me l'ha fatta fare a restare diverso dagli altri? Tanto vale che anch'io mi comporti come loro, forse mi tireranno fuori di qui". Vide che sul fondo del pozzo era rimasta un po' di quell'acqua e ne bevve. Subito impazzì anche lui e si mise a ridere, a fare capriole, smorfie e boccacce come tutti gli altri.
Quando videro questo, i compaesani si dissero: "Meno male, è tornato in sé", e tra lazzi e sghignazzate lo tirarono su e lo riportarono in trionfo alla moschea, dove lui riprese il suo posto. E tutti - non c'è bisogno di dirlo - vissero felici e contenti perché era venuto a mancare l'unico che potesse farli accorgere di quanto in realtà fossero alterati.
Questo apologo, a ben guardare, va oltre la scontata affermazione secondo cui in un paese di folli l'unica persona rimasta sana di mente passa per un pazzo. La sua morale è che bisogna adeguarsi alla pazzia per essere accettati dagli altri e conservare il proprio ruolo sociale. Più a fondo, il racconto sottintende che il mondo è una gabbia di matti dove le prediche di un mullah sono considerate folli quando è serio, serie quando è folle. La verità, ammesso che esista, se c'è non ha importanza ed è completamente inefficace nelle vicende umane. Meglio adeguarsi dunque, meglio seguire la corrente fino al punto di convincersi che quella sia la normalità.
Dal punto di vista cristiano, e anche da quello più generale del primato della coscienza ereditato dalla filosofia greca (il paragone con il mito della caverna di Platone è fin troppo ovvio) questa favoletta è la più completa e coerente apologia del relativismo nella quale mi sia stato dato di imbattermi. Richiamarsi alla verità non solo è folle, non solo è controproducente ma è soprattutto inutile, perché gli uomini non sono in grado né di vederla né di capirla. Qui l'apologo mostra in modo nemmeno troppo velato il suo disprezzo tanto verso la ragione quanto verso il cuore: la sua morale è il contrario esatto del martirio perché il martire (non a caso, etimologicamente, "il testimone") non solo affida completamente e irrevocabilmente il suo destino a Uno al di fuori di sé, indipendentemente dal consenso della comunità, ma con il suo gesto fa appello alla coscienza e alla ragione di chi rimane, nella speranza che qualcuno possa almeno rimanere colpito dal suo sacrificio e interrogarsi. Grazie alla resa del mullah gli uomini del villaggio restano invece prigionieri della loro "normalità", e proprio il momento della sua accettazione e del suo trionfo apparente è il momento in cui va definitivamente perso quel poco che restava di evidenza e di ragione.
Cosa c'entra tutto questo con la Chiesa? Temo che c'entri anche troppo. La Chiesa di Papa Francesco sembra trovarsi nella stessa condizione di quel povero mullah. Due o tre secoli di continue lotte contro il libertinismo, il laicismo illuminista, il marxismo e buon ultimo il relativismo hanno forse finito per sfibrarla e demoralizzarla nella misura in cui il suo sguardo è diventato più mondano. Vistasi del tutto ignorata e vilipesa, una buona fetta dei suoi membri, e non dei meno importanti, ha deciso di adeguarsi, di accontentarsi di un ruolo di "ospedale da campo", di denunciare quel che già denunciano tutti, di condannare quel che già condannano tutti, di accettare quel che già accettano tutti. Proprio il contrario di quanto aveva intuito il genio di T. S. Eliot: "La Chiesa è dura dove gli uomini la vorrebbero tenera, e tenera dove gli uomini la vorrebbero dura".
Non è un andazzo nato con questo pontificato, anche se proprio sotto Papa Francesco è stato favorito, amplificato, esasperato fino a diventare la norma. Un prete avido di denaro, un cardinale assetato di potere sono pessimi esempi di mondanizzazione, siamo d'accordo. Ma non lo sono forse altrettanto quei preti, quelle suore, quei laici che benedicono le unioni gay e peggio ancora gli uteri in affitto? Non è forse mondanizzazione pensare - in diretto contrasto col Vangelo - che l'uomo si salva o si danna secondo quel che mangia e beve, come pensano fin troppi cattolici vegani? Non è forse mondanizzazione l'indifferenza o peggio ancora il fastidio di troppi cattolici, ecclesiastici e laici, verso chi si richiama ai principi non negoziabili: vita, famiglia, libertà di educazione?
Il problema, a ben guardare, non riguarda coloro che sono fuori dalla Chiesa e che per giunta non vengono affatto richiamati ad aderire ai suoi insegnamenti ("per non turbare le coscienze", in nome del "dialogo"). Il problema si è inasprito all'interno stesso della Chiesa. Chi ha bevuto l'acqua intossicata del relativismo pensa di essere più libero, più felice, più "aperto" rispetto a chi è rimasto "rigido", "dogmatico", "fariseo" (tutti epiteti distribuiti con grande prodigalità da questa Chiesa tanto "misericordiosa"). Ma a differenza del mullah e del suo apologo, non a caso nato in una cultura che ha come valore assoluto la sottomissione, più d'uno nella Chiesa ha rifiutato di bere quell'acqua e continuerà a farlo, consapevole che la sua dignità e il suo destino non si basano sul successo o sul consenso del villaggio, matto o ragionevole che sia.
Giovanni Romano
sabato 9 luglio 2022
"NATURE" contro natura
venerdì 22 aprile 2022
La Montaigne del dio cannibale
Avevo bisogno di rinfrescare la memoria sulla distinzione tra hostis e inimicus operata da Carl Schmitt, così ho letto un articolo su Internet – sarebbe troppo chiamarlo saggio, in verità. Quel che è scritto a proposito di Schimitt è di relativa importanza qui. Ciò che mi ha colpito è stata la sorprendente citazione finale di Montaigne, che ho trovato barbara, capziosa e menzognera. Ecco il testo:
Almeno il filosofo tedesco, come del resto il suo maestro Machiavelli, non pretendeva di fare della morale sulla pelle dell’avversario vinto e spogliato di tutti i suoi beni, come fanno i neoconservatori dell’Amministrazione repubblicana statunitense.
Così come, del resto, il “cannibale felice” di Montaigne (di cui abbiamo parlato in un recente articolo) uccideva i suoi nemici solo per mangiarseli, e non perché non era riuscito a convertirli alla sua religione o ai suoi costumi o alla sua visione della vita.”
Anche concedendo a Montaigne l’attenuante di avere scritto quella bestialità in un periodo di feroci guerre di religione, c’è da rimanere esterrefatti dalla superficialità e dal cinismo disumano di cui è stato capace questo maestro di sofismi che ha esercitato una influenza così nefasta sul pensiero occidentale dal XVI secolo in poi.
Prima di tutto, Montaigne può essere parzialmente scusato per la sua ignoranza, perché a quell’epoca non si conosceva l’antropologia moderna: Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss era ancora ben al di là da venire. Tuttavia non può essere scusato per aver proiettato una tesi filosofica – peraltro discutibile, come vedremo – su un comportamento che definire aberrante è poco, e tutt’altro che accettato tranquillamente persino all’interno delle culture che lo praticavano.
Il sofisma è sostenere che il cannibale uccidesse solo per mangiare. Che questo non sia vero lo ammette implicitamente lo stesso Montaigne quando scrive che il cannibale mangia il nemico. Dunque non mangia semplicemente per sfamarsi, come fosse la cosa più naturale di questo mondo. Soprattutto non mangia gli appartenenti alla sua tribù. L’atto di mangiare un altro essere umano è limitato all’estraneo, al nemico, in una situazione particolare come può essere la guerra. Se un essere umano divorasse normalmente i suoi simili per saziare la propria fame, non sarebbe considerato un “cannibale felice” ma un mostro, uno spirito maligno, un Wendigo, come le tribù indiane del Nordamerica definivano queste creature che si trasformavano gradualmente in spaventosi demoni.
Se ne sono avuti esempi in casi estremi come l’assedio di Leningrado: mangiare esseri umani semplicemente per fame non rende né felici né migliori: fa solo diventare mostri.
Va detto inoltre che il cannibale che uccide il nemico non lo fa mai per puro appetito materiale. Nessun nemico vinto viene mai mangiato soltanto per fame (per saziarsi ci sono i suoi beni, il suo bestiame, i suoi raccolti) bensì per annientarlo e assimilare le sue doti: il coraggio, la forza, l’astuzia. È un atto culturale, di una cultura distorta quanto si vuole, ma è un atto umano, che va molto al di là della brutale rozzezza con cui lo ha liquidato Montaigne.
Vi è poi un’altra obiezione, ancora più seria. Storicamente, sono state le tribù che praticavano il cannibalismo ad aggredire le società più pacifiche e più evolute. I Maori, ad esempio, invasero, massacrarono e divorarono fin quasi alla completa estinzione la pacifica tribù dei Moriori che, ironia della sorte, praticava la non-violenza ante litteram (Fonte: l’articolo su Nuova Italia – Accademia Adriatica di Filosofia). Il cannibalismo è sempre basato sul culto della forza e della sopraffazione: agli occhi del cannibale l’altro è solo una facile preda, forse segretamente invidiato perché, checché ne pensasse Montaigne, probabilmente è più felice di lui.
Alla luce di queste considerazioni, risulta infine inaccettabile la tesi ultima di Montaigne: perché mai cercare di convertire i cannibali sarebbe più inumano che lasciarli indisturbati a praticare le loro usanze atroci, tanto più che implicano la soppressione di altri esseri umani? È qui che il relativismo getta la maschera: non che essere umano e tollerante, finisce sempre per schierarsi dalla parte della prevaricazione, della violenza e dell’arbitrio. Peggio ancora, li giustifica come ha fatto Montaigne.
In realtà, non esistono cannibali felici, ma soltanto esseri abituati all’omicidio e alla violenza che di umano hanno ben poco. Chi lo sa, forse lo stesso Montaigne non sarebbe stato troppo tranquillo se avesse incontrato di persona un gruppo di quegli uomini così “felici”...
Di fronte al suo pretestuoso paradosso, chi ha saputo cogliere il cuore del problema e smascherare il sofisma che c’è dietro è stata la saggezza popolare di un proverbio russo citato da Aleksandr Solženicyn:
IL CANE LUPO HA RAGIONE,
MA IL CANNIBALE NO!
Giovanni Romano
giovedì 3 marzo 2022
Studiare Dostoevskij. Nonostante Dostoevskij
Qualche volta, persino nonostante lui.
1. Vedi il mio articolo del 16 marzo 2012.