Tra le pene infernali alle quali immagino di essere destinato, non pensavo che potesse esserci niente di più serio della palude stigia, o al massimo del girone degli assassini. Invece proprio negli ultimi tempi mi è venuto in mente che potrei finire sbranato per l'eternità dalle cagne infernali nel cerchio dei suicidi e degli scialacquatori, a causa di scatti d'ira violentissimi che mi portano a distruggere, spaccare, calpestare tutti quegli oggetti che per un motivo o per l'altro si "rifiutano" di funzionare, o che non funzionano "come dico io". Il che, ovviamente, porta a farsi alcune domande sulla natura di un peccato così particolare, e forse così sottovalutato.
Prima di tutto, cos'ha di diverso lo scialacquatore dall'iracondo? E perché chi distrugge i propri beni è collocato peggio dell'assassino, sullo stesso piano del suicida? Non è in fondo un non-peccato, o almeno un eccesso tollerabile, fare dei propri averi quello che si vuole, senza recare alcun danno al prossimo, come fanno invece l'iracondo e l'assassino? Anche il suicida, secondo questo criterio, non dovrebbe essere punibile, dal momento che il suo gesto riguarda solo lui e su lui solo ricade e si ferma, senza coinvolgere altri.
Sarebbe scontato, e anche troppo facile, chiamare in causa la mentalità comunitaria e solidaristica del Medioevo cristiano all'epoca di Dante. Ma noi non siamo medievali, e dobbiamo rispondere con le categorie del nostro tempo alla domanda se la condanna dello scialacquatore e del suicida abbia un senso o no anche oggi.
Consideriamo prima di tutto la differenza tra l'iracondo e lo scialacquatore. Ricordiamo che per Dante questi peccati ricadono sotto due categorie diverse di gravità. L'iracondo pecca di "incontinenza", lo scialacquatore di "matta bestialità". L'incontinenza è definita come l'uso distorto di un impulso o di un istinto in sé non cattivo. L'istinto sessuale è vitale per la generazione, ed è di grande importanza per la felicità e l'intimità tra il marito e la moglie: il suo abuso è la lussuria. Per affrontare la vita una certa quantità di grinta è necessaria, così come un'aggressività ben diretta e un sano risentimento contro il male e l'ingiustizia, ma un'abitudine continua alla rissa, alla prepotenza, alla voce grossa e alle botte costituisce il peccato d'ira.
Diverso il caso della "matta bestialità": la sodomia, l'omicidio, l'usura, il suicidio e la dissipazione dei propri beni. Teniamo presente che ogni peccato grave contiene elementi dei peccati meno gravi. Così la "matta bestialità" contiene senz'altro elementi d'incontinenza, ma aggravati da un elemento di maggiore consapevolezza. Il sodomita vede l'amore dell'uomo e della donna, ma fa diversamente. L'assassino non si limita alla prepotenza ma distrugge fino in fondo l'oggetto della sua ira. L'usuraio non è solo un avaro, ma un distruttore consapevole del lavoro e della ricchezza altrui. Il suicida e lo scialacquatore distruggono entrambi le cose che conoscono di più, alle quali dovrebbero essere più attaccati e di cui sono responsabili: il proprio corpo e i propri beni.
Distruggere sé o i propri beni è il grado estremo di straniamento dalla realtà come Dio l'ha voluta. Ed è riflettendo su questo che ho capito quanto fosse grave il mio peccato. Da dove nasce, infatti, la mia rabbia così grande contro un oggetto che non funziona, o che semplicemente cade? Una volta ho rotto a pugni e scaraventato per terra una stampante che si era "piantata" in maniera apparentemente inspiegabile. Un'altra volta ho gettato nell'immondizia dei libri nuovi che erano caduti tanto rovinosamente da ammaccare o deformare la copertina. E l'ultima volta, la settimana scorsa, ho calpestato e gettato per terra, più e più volte, una batteria di palmare che mi era scivolata inavvertitamente per terra, e non mi sono fermato fino a che non l'ho vista andare in pezzi.
In tutti questi casi, ovviamente, la colpa era mia. Incompetenza, o disattenzione, non qualche "virtù" malvagia delle cose. Ma proprio questo è il pensiero che mi viene quando una cosa mi fallisce. Un senso di vergogna lancinante per l'ennesima conferma della mia incapacità e della mia inadeguatezza, e al tempo stesso un rancore altrettanto bruciante contro la forza senza volto che mi colpisce attraverso l'ottusità inanimata delle cose. Da qui un folle desiderio di vendicarmi di quella forza, distruggendo l'oggetto attraverso il quale essa agisce.
Allora questa non è semplice ira, né semplice prodigalità: è rabbia e odio per quello che è, risentimento contro la realtà così come avviene. Per questo risentimento una caduta può diventare un trauma cosmico, una contesa autodistruttiva tra me e la realtà.
Ed è questa scontentezza di fondo, questo rancore verso ciò che esiste, a rendere lo scialacquatore degno di una pena molto più grave dell'iracondo e persino dell'omicida. Questi può avere qualche ragione contro la sua vittima, lo scialacquatore e il suicida entrano in contesa contro Dio stesso. Il loro comportamento, poi, non è affatto una questione puramente individuale. E' statisticamente certo che i suicidi vanno a ondate: il disamore per la vita di alcuni (come Welby ai giorni nostri) fa perdere di coraggio molti altri. Anche per lo scialacquatore è così. Chi tratta le proprie cose con tanto selvaggio egoismo, se non rispondono alle proprie aspettative, potrà trattare le persone diversamente che da semplici oggetti?
Prima di tutto, cos'ha di diverso lo scialacquatore dall'iracondo? E perché chi distrugge i propri beni è collocato peggio dell'assassino, sullo stesso piano del suicida? Non è in fondo un non-peccato, o almeno un eccesso tollerabile, fare dei propri averi quello che si vuole, senza recare alcun danno al prossimo, come fanno invece l'iracondo e l'assassino? Anche il suicida, secondo questo criterio, non dovrebbe essere punibile, dal momento che il suo gesto riguarda solo lui e su lui solo ricade e si ferma, senza coinvolgere altri.
Sarebbe scontato, e anche troppo facile, chiamare in causa la mentalità comunitaria e solidaristica del Medioevo cristiano all'epoca di Dante. Ma noi non siamo medievali, e dobbiamo rispondere con le categorie del nostro tempo alla domanda se la condanna dello scialacquatore e del suicida abbia un senso o no anche oggi.
Consideriamo prima di tutto la differenza tra l'iracondo e lo scialacquatore. Ricordiamo che per Dante questi peccati ricadono sotto due categorie diverse di gravità. L'iracondo pecca di "incontinenza", lo scialacquatore di "matta bestialità". L'incontinenza è definita come l'uso distorto di un impulso o di un istinto in sé non cattivo. L'istinto sessuale è vitale per la generazione, ed è di grande importanza per la felicità e l'intimità tra il marito e la moglie: il suo abuso è la lussuria. Per affrontare la vita una certa quantità di grinta è necessaria, così come un'aggressività ben diretta e un sano risentimento contro il male e l'ingiustizia, ma un'abitudine continua alla rissa, alla prepotenza, alla voce grossa e alle botte costituisce il peccato d'ira.
Diverso il caso della "matta bestialità": la sodomia, l'omicidio, l'usura, il suicidio e la dissipazione dei propri beni. Teniamo presente che ogni peccato grave contiene elementi dei peccati meno gravi. Così la "matta bestialità" contiene senz'altro elementi d'incontinenza, ma aggravati da un elemento di maggiore consapevolezza. Il sodomita vede l'amore dell'uomo e della donna, ma fa diversamente. L'assassino non si limita alla prepotenza ma distrugge fino in fondo l'oggetto della sua ira. L'usuraio non è solo un avaro, ma un distruttore consapevole del lavoro e della ricchezza altrui. Il suicida e lo scialacquatore distruggono entrambi le cose che conoscono di più, alle quali dovrebbero essere più attaccati e di cui sono responsabili: il proprio corpo e i propri beni.
Distruggere sé o i propri beni è il grado estremo di straniamento dalla realtà come Dio l'ha voluta. Ed è riflettendo su questo che ho capito quanto fosse grave il mio peccato. Da dove nasce, infatti, la mia rabbia così grande contro un oggetto che non funziona, o che semplicemente cade? Una volta ho rotto a pugni e scaraventato per terra una stampante che si era "piantata" in maniera apparentemente inspiegabile. Un'altra volta ho gettato nell'immondizia dei libri nuovi che erano caduti tanto rovinosamente da ammaccare o deformare la copertina. E l'ultima volta, la settimana scorsa, ho calpestato e gettato per terra, più e più volte, una batteria di palmare che mi era scivolata inavvertitamente per terra, e non mi sono fermato fino a che non l'ho vista andare in pezzi.
In tutti questi casi, ovviamente, la colpa era mia. Incompetenza, o disattenzione, non qualche "virtù" malvagia delle cose. Ma proprio questo è il pensiero che mi viene quando una cosa mi fallisce. Un senso di vergogna lancinante per l'ennesima conferma della mia incapacità e della mia inadeguatezza, e al tempo stesso un rancore altrettanto bruciante contro la forza senza volto che mi colpisce attraverso l'ottusità inanimata delle cose. Da qui un folle desiderio di vendicarmi di quella forza, distruggendo l'oggetto attraverso il quale essa agisce.
Allora questa non è semplice ira, né semplice prodigalità: è rabbia e odio per quello che è, risentimento contro la realtà così come avviene. Per questo risentimento una caduta può diventare un trauma cosmico, una contesa autodistruttiva tra me e la realtà.
Ed è questa scontentezza di fondo, questo rancore verso ciò che esiste, a rendere lo scialacquatore degno di una pena molto più grave dell'iracondo e persino dell'omicida. Questi può avere qualche ragione contro la sua vittima, lo scialacquatore e il suicida entrano in contesa contro Dio stesso. Il loro comportamento, poi, non è affatto una questione puramente individuale. E' statisticamente certo che i suicidi vanno a ondate: il disamore per la vita di alcuni (come Welby ai giorni nostri) fa perdere di coraggio molti altri. Anche per lo scialacquatore è così. Chi tratta le proprie cose con tanto selvaggio egoismo, se non rispondono alle proprie aspettative, potrà trattare le persone diversamente che da semplici oggetti?
Giovanni Romano
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