venerdì 21 settembre 2007

Rutelli e il DNA: sorvegliare e (non) punire


Da qualche giorno si parla della nuova legge sul prelievo obbligatorio del DNA ai pregiudicati, con la prospettiva futura di estenderlo a tutti. Come molti altri, anche Marina Corradi, su "Avvenire" del 13 settembre scorso, aveva espresso forti preoccupazioni per un controllo sempre più invadente, capillare e carico di potenziali minacce, per il potere che mette nelle mani dello stato e dei pochi privilegiati che potranno accedere a quel che di più intimo ci appartiene.

Dall'altra parte ci sono le parole rassicuranti di Rutelli, che la Corradi definisce ironicamente "voce assolutamente moderata e democratica", il quale assicura che con questo screening sarà molto più facile identificare e arrestare i criminali, citando a esempio il caso dell'Inghilterra, in cui, a quanto pare, "l'arresto dei colpevoli è quasi raddoppiato".

Tuttavia, a me sembra che l'esempio di Rutelli non stia in piedi per due ragioni. Nemmeno in Inghilterra una sorveglianza sempre più ossessiva riesce a venire a capo della vera propria necrosi sociale che si manifesta nello sfascio delle famiglie, nella solitudine alcoolica e nella violenza gratuita delle bande giovanili (per non parlare delle minacce terroristiche).

In secondo luogo, non serve a niente moltiplicare all'infinito gli screening, le telecamere, lo spionaggio, se poi il massimo della pena che si applica ai colpevoli, pur esattamente individuati, è solo qualche mese o al massimo qualche anno di carcere, con il solito abbondante contorno di indulti, sconti di pena, uscite anticipate, licenze premio e buona condotta.

Se le premesse restano queste, l'unico effetto pratico del provvedimento sarà analago a quello delle famose "gride" di manzoniana menoria: aumentare ingiustificatamente l'oppressione nei confronti dei cittadini "pacifici e senza difesa", senza disturbare la criminalità
più di tanto.

Secondo me il gioco non vale affatto la candela.

Giovanni Romano

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