Qual
è il segreto dell’enorme popolarità dei PEANUTS, quegli
adulti in miniatura
che dei bambini non hanno nulla, né l’ingenuità, né lo stupore,
né lo sguardo positivo sul mondo e nemmeno affetto per i loro
genitori e per i
“grandi”,
salvo rarissime eccezioni?
La
risposta è che i Peanuts sono la parodia nevrotica degli adulti,
quanto meno in alcuni tratti del loro carattere (fortunatamente non
conoscono l’avidità di denaro), sono un universo auto-contenuto e
autoreferenziale che non guarda ai “grandi” se non come a un Fato
impersonale e remoto che pilota
inesorabilmente le loro vite sia che si tratti di andare ad abitare
nel quartiere o di lasciarlo per sempre spezzando legami, amicizie,
amori. I “grandi” sono la voce remota della società di cui un
giorno faranno parte e che li giudica, come
ad esempio
la maestra. In ogni caso, gli adulti non compaiono mai e nemmeno
parlano mai (uno dei tanti “mai” che incontreremo strada facendo,
e che sono il marchio di questa saga). Sono Charlie Brown, Lucy,
Schroeder e tutti gli altri a dar
loro voce rispondendo alle
loro implicite
domande,
spesso in modo furbo o umoristico. In ogni caso, gli adulti sono
trattati da antagonisti, mai
da esempi né tanto meno da guide.
Visti
nell’insieme, i Peanuts sembrano niente altro che il ritratto, o
meglio la caricatura dell’America profonda, quella delle piccole
cittadine o
dei sobborghi dove
ciascuno vive nella sua villetta e non succede mai niente. È una
vita che ruota intorno alla scuola, alla televisione, alle gite per
il campeggio, alle vacanze, alle partite di baseball, ad
Halloween più che al Natale.
Una vita sempre uguale e senza riti di passaggio (né potrebbe essere
diversamente) il che non significa che sia priva di avvenimenti. Al
contrario, Schultz ha dimostrato una inventiva inesauribile per più
di cinquant’anni, con infinite variazioni sui
temi
che cercheremo di delineare a breve.
In
realtà, questa esistenza apparentemente tranquilla e scontata
nasconde molte anomalie, e soprattutto è piena di frustrazioni, di
traguardi non raggiunti, di amori
non corrisposti, di sconfitte
piccole e grandi d’ogni genere. Queste anomalie e queste sconfitte
rappresentano, in verità, il motore della serie: se mai si
fosse arrivati al classico
“e vissero tutti felici e contenti” la striscia avrebbe non solo
perso d’interesse ma la sua stessa ragion d’essere. Al massimo
possono esserci degli addii,
come quello della ragazzina dai capelli rossi a Charlie Brown, oppure
l’addio a Charlie di Lucy e Linus, presumibilmente
al termine della serie.
Non
starò qui a discutere dei disegni: salta agli occhi di chiunque la
differenza tra i tratti sommari e angolosi delle prime strisce degli
anni ‘50 e lo stile più dolce, più espressivo, più raffinato che
prese piede fino agli anni ‘70 inoltrati, e che li ha resi
definitivamente celebri.
Né farò cenno a personaggi secondari apparsi per brevi periodi e
poi abbandonati. Mi concentrerò soltanto su quelli che tutti
conoscono e che hanno accompagnato la serie dall’inizio alla fine.
Cominciamo
a guardare più a fondo alle anomalie, molto spesso collegate ai
“mai”, che sarebbero assurde e sconcertanti nel “mondo reale”.
Snoopy, ad esempio, non dorme mai
dentro la cuccia ma sempre sul tetto, non riporta mai
indietro i bastoncini e la palla che gli lanciano i suoi amici umani,
non
vince mai
i suoi epici scontri immaginari col Barone Rosso. Senza parlare dei
suoi esilaranti romanzi (che cominciano immancabilmente con il
più banale degli incipit:
“Era una notte buia e tempestosa…”) mai
accettati da nessun editore.
In
verità, Snoopy è il più indipendente tra tutti i Peanuts, a volte
persino ai limiti dell’opportunismo. Se gli parlaste di padroni, vi
guarderebbe stranito: non sa nemmeno cosa siano. Per lui, Charlie
Brown (che lui non cita mai
per nome) è semplicemente “il bambino con la testa rotonda” (1).
Charlie Brown è anche il suo cameriere: in una serie interminabile
di vignette gli porta la ciotola con aria cerimoniosa, quasi fosse
un’offerta sacrificale (e più di una volta glielo fa pesare).
Snoopy esulta scompostamente quando arriva la cena; in caso contrario
(altra anomalia) non esita a prendere rumorosamente a calci la porta
anche nel cuore della notte. È un cagnolino simpatico e gentile,
soprattutto nei suoi rapporti con l’uccellino Woodstock, con cui
vive una sfilza sterminata di situazioni ben oltre il limite del
surreale e
ben entro il regno della poesia.
Anche Woodstock, tra parentesi, ha il suo “mai”: non riesce mai
a volare in linea retta, rimanendo puntualmente frustrato nel suo
sogno di diventare un’aquila.
Che
dire poi del personaggio più noto per antonomasia, Charlie Brown? È
un perdente naturale, uno che si fa mettere i piedi in testa da
tutti, parte per bontà d’animo ma anche per pusillanimità. I suoi
“mai” sono grossi come montagne. Non riesce mai
a farsi avanti con la ragazzina dai capelli rossi che pure lo ha
capito, lo trova simpatico e gli vuol bene; non riesce mai
a far volare il
suo aquilone
(un potente simbolo della libertà e della liberazione che sempre gli
sfuggono); non viene mai
ubbidito da Snoopy; la squadra di baseball di cui è allenatore non
vince mai
una partita, persino
con un vantaggio di 50 punti. Confesso che come carattere non mi è
molto simpatico. Ha una tendenza fin troppo spiccata alla pedanteria,
si dilunga in pistolotti che vengono puntualmente stroncati o dal
brutale cinismo di Lucy oppure dall’indifferenza di chi gli sta
accanto (Snoopy si addormenta, gli altri se ne vanno e lo lasciano
solo).
Eppure
è l’unico capace di uno sguardo poetico sulle cose (non manca mai
di notare un bel tramonto o il cielo pieno di stelle), ma anche in
questo caso la sua sensibilità si scontra con l’indifferenza o le
nevrosi di chi gli sta accanto. I suoi lunghi monologhi sono una
sterile introspezione che troppo spesso diventa pretesto per non
agire. Più di una volta gli tocca anche subire la violenza degli
altri, inconsapevoli o meno, come quando una palla da baseball lo
stende per terra svenuto e nessuno si occupa di lui, sono tutti a
disputare di chi è la colpa del lancio sbagliato. Un pigliacalci, un
perdente senza rimedio, dunque, e qui uso l’espressione nel senso
più grave: senza riscatto, senza compenso, senza rivincita.
Tuttavia
Charlie Brown si fa ricordare, e da molti anche amare, appunto per la
sua bontà indifesa. Ha preso con sé Snoopy quando era un cucciolo
quasi abbandonato, è l’unico dei Peanuts a vivere un rapporto
positivo e affettuoso con suo padre, è l’unico che si dona e che
dona, l’unico capace di guardare al di fuori di sé stesso quando
si tratta di dare una mano.
Ho
fatto menzione di Lucy, che per molti aspetti è non solo
l’antagonista di Charlie Brown ma anche di tutti gli altri. È il
J.R. dei Peanuts, il personaggio che amereste odiare. Prepotente,
manesca, autoritaria, maldicente, bisbetica, scontrosa, meschina,
cinica, dispotica, egocentrica al massimo… la lista delle sue
caratteristiche negative è interminabile. Tiranneggia il fratello
minore Linus, è il tormento continuo di Schroeder il pianista, che
vessa con la sua corte asfissiante e importuna, si scontra spesso e
volentieri con tutti gli altri. Anche lei, però, deve fare i conti
con i suoi “mai”, che non sono da meno di quelli di Charlie
Brown.
Primo
fra tutti, non riesce mai a farsi amare da Schroeder,
nonostante un vero e proprio assedio e una serie di inesauribili
stratagemmi per riuscire a catturare la sua attenzione. È sempre lì,
sdraiata davanti al suo pianoforte, a fissarlo con un sorriso che
vorrebbe essere seducente e ammaliatore ma che il più delle volte si
trasforma in una smorfia ebete di disappunto quando lui le risponde,
gelidamente sincero, di non essere per niente interessato a lei, che
non gli piace, che la trova brutta e niente affatto carina.
Prima
di approfondire questa interminabile telenovela, è necessaria una
domanda preliminare: chi è Schroeder? Non so a quale personaggio
della vita reale si sia ispirato Schultz (anche lui tedesco di
cognome, coincidenza forse non casuale), certo è che è il classico
ragazzino che fa girare la testa all’altro sesso: bello, biondo e
con gli occhi azzurri. Ma a lui le ragazzine non interessano: vive in
un mondo tutto suo, completamente ripiegato sul suo pianoforte,
dedito allo studio quasi maniacale di Beethoven. Non ho usato a caso
la parola ripiegato: Schroeder è il secchione dello spartito,
perennemente curvo sulla tastiera, ben diverso dai grandi pianisti
che spesso suonano di slancio, rovesciandosi con la testa e il busto
all’indietro, gli occhi chiusi. È forse l’unico dei Peanuts a
non avere nessun “mai”, se non in senso oppositivo rispetto a
Lucy.
Si
direbbe che è una macchietta a una sola dimensione. Lasciato a sé
stesso suonerebbe all’infinito, totalmente perso nel suo Beethoven,
senza sentire mai (un altro “mai”!) il bisogno di rapportarsi con
gli altri. È Lucy a portarlo alla ribalta come la sua meta
irraggiungibile, il suo amore perduto, o meglio mai esistito.
Paradossalmente, se non esistesse Lucy non esisterebbe nemmeno lui,
non si sentirebbe il bisogno di un personaggio così monotono e
assolutamente prevedibile.
Ma
cosa vuole Lucy da lui? Cosa rappresenta ai suoi occhi? È veramente
amore il suo? Si può senz’altro rispondere di no. Lucy vuole
conquistare Schroeder, vuole essere lei il centro dei suoi interessi,
lo vuole svuotare dall’interno e riempirlo del suo ego divoratore.
Se i suoi tentativi di seduzione andassero a buon fine, Schroeder non
diventerebbe altro che un fantoccio, una marionetta senz’anima di
cui probabilmente Lucy sarebbe la prima a stancarsi. In realtà, lei
lo odia, o meglio odia il suo mondo interiore che non le interessa,
odia la bellezza di cui l’altro è partecipe e alla quale lei non
accederà mai (un “mai” pesante quanto un macigno, questo).
Soprattutto, lei odia lo strumento dell’indipendenza di Schroeder,
il pianoforte. Vede in esso il suo rivale, e più di una volta ci
sfoga contro la sua rabbia impotente: lo prende a calci, lo butta
nella fogna, lo riduce in schegge. In questo modo vuole denudare
Schroeder e ridurlo alla sua mercé. Ma il risultato è esattamente
l’opposto: finisce sempre per cozzare contro il candore spietato di
lui che nemmeno la odia, tanto gli è estranea interiormente.
Una
delle strisce dove il contrasto Lucy-Schroeder supera i limiti
dell’humor e tocca punte di autentica drammaticità è
quella in cui lei si sdraia per l’ennesima volta davanti al piano
che lui continua a suonare senza nemmeno alzare la testa (un altro
“mai”: Schroeder non alza mai la testa dal piano a meno che Lucy
non lo interpelli in maniera più o meno insinuante). Lucy sembra
rendersi finalmente conto che Schroeder non l’amerà mai, che tutte
le sue elaborate strategie di seduzione non hanno mai portato a
nulla, ma anziché accettare la realtà e farsene finalmente una
ragione, si lancia in una diatriba amara sui tormenti di un amore
finito che secondo lei dovrebbero torturare Schroeder, per poi
esplodere in un pauroso parossismo di violenza: prende a calci il
piano, lo colpisce più volte, lo distrugge, lo calpesta fino a
ridurlo in schegge, infine si butta a terra disperata e piange,
piange con un pianto lungo, rabbioso, straziante. Un pianto così
vero, così profondamente sentito da mettere a disagio chi legge,
perché qui non è una bambina che piange, ma una donna col cuore
spezzato che vede crollare tutte le sue illusioni. Lucy piange
compatendo sé stessa, mette a nudo tutta la sua vulnerabilità, la
sua insicurezza (ha sempre bisogno dell’ammirazione degli altri per
esistere), la sua fragilità. Ma l’unica risposta che ottiene, come
tante altre volte, è il silenzio allibito di Schroeder che in tutta
la striscia non pronuncia nemmeno una parola e la guarda sgomento,
paralizzato da tanta violenza.
La
violenza, in effetti, è sottesa ai Peanuts tanto quanto è endemica
nell’America reale. Lucy picchia spesso Linus oppure minaccia di
picchiarlo, fa a botte con Snoopy (l’unico che le tiene testa, ma
non sempre). Non è un mondo idillico, quello dei Peanuts: troppo
spesso domina la legge del più forte, o di chi si crede tale.
Abbiamo
accennato a Linus. Tra i personaggi della saga è quello che
apparentemente si avvicina di più a un bambino, ma non è così. È
molto meno sensibile alla bellezza che non Charlie Brown, molto
spesso si rinchiude nel cerchio delle sue piccole manie e delle sue
illusioni. La sua fama deriva, ovviamente, da una delle anomalie più
vistose della saga: non si separa mai dalla sua leggendaria coperta,
spesso si succhia il pollice. Abitudini che destano il fastidio e il
risentimento dei “grandi”, a cominciare dalla sorella.
Ma
la coperta cosa rappresenta? Bisogno di protezione, ovviamente.
Rifiuto di crescere. Linus resiste vittoriosamente a tutti i
tentativi di portargliela via, lotta per lei fino allo stremo,
ricorre alle astuzie più impensate per sottrarla ai “grandi”, e
scoppia in tremende crisi isteriche quando gliela seppelliscono, ne
fanno aquiloni e peggio ancora una giacca per Snoopy. È così
intenso il rapporto di simbiosi tra lui e la coperta che talvolta
essa vive di vita propria. Diventa uno strumento punitivo contro i
bulli, risponde con la violenza alle violenze di Lucy fino ad
aggredirla e metterla in fuga urlando di terrore. È l’alter ego di
Linus, la proiezione surreale delle sue paure, lo strumento
altrettanto surreale della sua aggressività repressa e delle sue
vendette.
Ma
Linus, lo ripetiamo, non è un bambino. La sua coperta è simbolo
d’infantilismo più che d’infanzia, e lui spesso mostra una
pedanteria che ha poco da invidiare a quella di Charlie Brown, di cui
non a caso è amico intimo. È anche il pretesto per un lato
antipatico dei Peanuts: la satira anticristiana. Qualche volta Linus
arriva a citare versetti della Bibbia per giustificare quello che gli
fa comodo (qui forse Schultz fa il verso ai fondamentalisti, ma non
solo a loro: è la caratteristica peculiare di una fede fondata solo
sul Libro), e soprattutto vive nella mistica attesa di un’entità
che nella versione italiana è stata pessimamente tradotta con “Il
Grande Cocomero” mentre in inglese è indicata come “The Great
Pumpkin”, “La Grande Zucca”, con ovvio riferimento ad
Halloween. Questa “Grande Zucca” dovrebbe scendere sulla terra la
notte di Halloween (non c’è bisogno di dire che non arriva mai,
l’attesa notturna di Linus è sempre frustrata), portare la pace e
distribuire doni ai bambini buoni.
È
chiaro che tanto le citazioni bibliche quanto La Grande Zucca sono
sarcastiche parodie della fede cristiana e del Natale. Se può essere
giustificato il fastidio verso chi cita versetti biblici a proprio
uso e consumo, l’attacco al Natale è tipico di coloro che si
credono “illuminati” e disprezzano “i semplicioni” che hanno
fede in qualcosa. Ma proprio questo è il segno del profondo
pessimismo dell’Autore. Anche tenendo conto dei vincoli di una
striscia dove i protagonisti devono restare perennemente uguali a sé
stessi, l’impressione che si ricava da tutte queste storie senza
sbocco, da tutte queste sconfitte, da tutti questi traguardi
intravisti e mai raggiunti è quella di uno sguardo disincantato
sulla vita, molto spesso reso esplicito nei dialoghi dei personaggi.
L’esatto contrario del modo in cui i bambini guardano alla realtà.
Potrei
proseguire per pagine e pagine citando tantissimi altri personaggi
secondari come Piperita Patty o Sally, la sorella minore di Charlie
Brown, ma ripeterei soltanto i temi che ho cercato di delineare
finora: amori mancati, corteggiamenti rifiutati (c’è una gran
paura di essere amati, tra i Peanuts), risultati scolastici
perennemente pari a zero e giustificati con i più acrobatici
contorcimenti mentali. Non sarebbe molto interessante.
Eppure,
in cinquant’anni di costante presenza sui giornali e le riviste di
tutto il mondo, i Peanuts non hanno mai dato nessuna impressione di
monotonia. In parte grazie all’inesauribile inventiva di un genio
come Schultz, in parte per un motivo più profondo. I suoi personaggi
vivono in un limbo senza tempo, non sono bambini né lo sono mai
stati, ma proprio avere l’apparenza dei bambini con le passioni e i
sentimenti degli adulti consente di guardare con indulgente distacco
alle loro vicissitudini, e al tempo stesso di rispecchiarci nelle
loro idiosincrasie, nelle loro aspirazioni, nelle loro piccole gioie.
Possiamo
ritrovarci nella profonda metafora della vita o nei momenti più
umoristici, surreali e scherzosi che ci siamo visti sfilare davanti
per mezzo secolo. Intere generazioni hanno guardato ai Peanuts e non
solo ci si sono identificate, ma a loro volta questi adulti in
miniatura hanno contribuito in non piccola parte a plasmare il modo
in cui guardiamo alla realtà.
Che
si tratti del contrario di un fumetto di evasione ma di un’opera
che tratta temi importanti, primi tra tutti l’amicizia, l’amore,
il tempo, è dimostrato dal fatto che mi sono sentito spinto a
prendere posizione commentandolo e criticandolo, e con me un numero
sterminato di critici più o meno acuti, più o meno autorevoli.
Ma
a qualunque livello vengano letti, i Peanuts fanno ridere, fanno
commuovere, fanno pensare. È una simpatica, eterogenea tribù dove
tutti i personaggi sono necessari e sono legati, in fondo, da un
grande affetto: l’affetto del loro creatore e quello inesauribile
dei lettori.
Giovanni
Romano