sabato 25 ottobre 2025

Il Sud non ha vinto, però combatte

 

Il primo pensiero che mi è venuto in mente, quando ho preso in mano questo libro, è che in un paese meno diviso del nostro un’opera del genere non sarebbe stata necessaria. Definire il rapporto tra Nord e Sud in termini di vittoria e sconfitta è il sintomo di un disagio grave, di una ferita non sanata. Libri del genere nascono in paesi nati non pacificamente, ma da un evento assai traumatico quale fu il nostro cosiddetto “Risorgimento”. Per fortuna, l’Autore ha meritevolmente evitato i due pericoli analoghi ma opposti che si presentano puntualmente quando si viene a trattare l’ormai incancrenita “questione meridionale”: da un lato, non ha chiamato in causa la retorica patriottarda neo-risorgimentale “alla Ciampi” che ha soltanto nascosto la polvere sotto il tappeto senza risolvere nessun problema reale; dall’altro, ci ha giustamente risparmiato le geremiadi dei neoborbonici, cantori illusi di un Regno delle Due Sicilie ricco, felice e bene amministrato, che in realtà non è mai esistito. Altrimenti non sarebbe crollato come un castello di carte nel giro di sei mesi o poco più.


Consentitemi di fare un passo indietro. Alla mia generazione hanno insegnato ad accendersi di sacro furore patriottico davanti a quel che dichiarò il primo ministro austriaco Metternich al Congresso di Vienna: “L’Italia è solo un’espressione geografica”. Solo molti anni dopo, grazie ai miei studi di scienze politiche e a mature riflessioni, mi è stato chiaro che - fatta la tara per la volontà di dominio dell’Impero austriaco sul Nord Italia - la frase non era affatto offensiva, era una semplice presa d’atto della realtà. Uno svedese, un norvegese, un finlandese o un danese si sono mai offesi nel sentir definire la Scandinavia “una espressione geografica”? Elementi di affinità tra le varie parti del nostro paese esistevano senz’altro anche prima dell’Unità, si poteva parlare a giusto titolo di “Italia” fin dai tempi di Dante e di Petrarca, ma i regimi politici erano differenti, le economie erano differenti, le strutture sociali erano differenti. La faglia Nord/Sud esiste davvero, e non serve a niente né esorcizzarla a forza di discorsi né invelenirla a forza di lamenti.


Che il Sud sia stato conquistato e occupato manu militari è fuori di dubbio. Che le attese di un cambiamento sociale e di un miglioramento delle condizioni di vita del popolo meridionale siano state disattese e tradite già durante la conquista garibaldino-piemontese, anche questo è fuori di dubbio. Che il Sud sia stato adoperato fin dall’inizio dell’Unità come vacca da mungere a forza di tasse, e soprattutto serbatoio di carne da cannone per le velleitarie e disastrose ambizioni della cricca “liberale” che giocava alla grande potenza, anche questo è un fatto. Il “problema” del Sud è stato sistematicamente “risolto” con l’emigrazione, sia verso altri paesi che verso il Nord, il che ha comportato depressione economica, drenaggio dei talenti e impoverimento demografico. Che dal momento della conquista piemontese in poi il Sud sia stato funzionale allo sviluppo del Nord, e per giunta continuamente vituperato e rimproverato per la sua “arretratezza”, anche questo è incontrovertibile, ed è il paradosso che Patruno ha messo giustamente in luce. Ma questo non fa altro che confermare il deterioramento di un rapporto già nato con il piede sbagliato.


E tuttavia, prima di affrontare il libro nel merito, mi sia consentito di puntualizzare due elementi che forse aiutano a chiarire la questione. Il primo è che il Sud non ha mai conosciuto i liberi comuni, ma solo la prepotenza di feudatari tanto oppressivi contro la popolazione quanto incapaci di difenderla contro le incursioni esterne, in particolare quelle provenienti dai paesi islamici. Il Sud non ha mai avuto una classe dirigente, solo una classe dominante. Di conseguenza è mancato - e in gran parte ancora manca - il senso civico che nasce dall’essere cittadini e non sudditi, dall’avere voce in capitolo nell’amministrazione della propria città, dal sentirsi responsabili per le cose che non vanno e non limitarsi al lamento. Senso civico che invece è ancora in gran parte presente al Nord. Pensiamo ad esempio alla diversa reazione nei confronti dell’ondata di furti che sta imperversando nel nostro paese: al Sud si chiede l’intervento dello Stato, percepito però come una entità remota, indifferente, dalle risorse perennemente insufficienti e sempre dirottate a settentrione. Al Nord invece, e non al Sud, si organizzano le ronde, i negozianti segnalano i truffatori nelle chat di quartiere o degli ordini professionali. Al Nord, e non al Sud, sono nate le società di mutuo soccorso e le Misericordie, un modello fortunatamente imitato anche qui.


Il secondo elemento, conseguente al primo, è che il Sud è stato sempre terra da invadere, una terra che - brigantaggio a parte - non ha mai opposto una significativa resistenza agli invasori, e anzi più di una volta ha sconsideratamente aperto le braccia a chiunque lo volesse occupare, fossero i bizantini gli arabi, i normanni, gli svevi, gli angioini, i Borboni, gli austriaci o i sabaudi, gli americani o i clandestini islamici. Tutti quanti hanno spadroneggiato più che governare, di fronte a una società civile praticamente inesistente, che peggio ancora si è sempre attesa la soluzione dei problemi proprio da chi veniva a crearcene altri. Al Sud è mancata una Pontida, una lega che si scrollasse di dosso dominatori dispotici e arroganti, anche perché le nostre classi dominanti - dominanti, insisto, non dirigenti! - si sono sempre mostrate disposte a qualunque compromesso con gli invasori pur di mantenere il proprio potere: Gattopardo docet. È vero che anche il Nord ha conosciuto dominazioni straniere - spagnoli e austriaci in primis - ma a fare da contrasto, a diventare egemone e ultimamente a vincere, c’era uno strato sociale che il Sud non ha avuto se non in misura irrisoria: una borghesia produttiva ed economicamente indipendente. Ci piaccia o meno, da noi al Sud è stato il feudalesimo ad affermarsi. Nei favoritismi, nell’inerzia burocratica, nello scarso senso civico, nell’aspettarsi la soluzione dei problemi sempre dall’intervento altrui.


E allora, dove sarebbe la vittoria del Sud? Qui stanno l’utilità e il valore del libro di Lino Patruno. La vittoria passa prima di tutto dalla presa di coscienza di noi meridionali sui rapporti di forza e sugli scopi che condizionano il rapporto squilibrato tra il Settentrione e il Meridione. Non ci vuole un corso di scienze politiche per capire che il sottosviluppo del Sud è funzionale allo sviluppo del Nord. Ma è proprio questo il punto della riscossa: il Sud non deve diventare la brutta copia del Nord. Il Sud possiede una storia propria, valori propri, e soprattutto un modo diverso di vivere: quel che Patruno chiama “la lentezza”.


Bisogna subito chiarire le idee: “Lentezza” non è sinonimo di apatia o di pressapochismo. È l’opposto della nevrosi da accumulo, della corsa affannosa dietro il profitto e il denaro, dell”efficienza” e dello sgobbare a tutti i costi, tre patologie che finiscono per isolare l’individuo e distruggono la sua personalità. Una volta ebbi l’occasione di incontrare una mia amica che da qualche anno era impiegata presso la segreteria del tribunale in una prospera provincia veneta. Mi raccontò che proprio nella sua circoscrizione, dove la gente si ammazza di lavoro durante la settimana e va a ubriacarsi nel weekend, e dove il lavoro fagogita tutta l’esistenza e non c'è posto per altri interessi - men che mai la cultura - è una delle zone con il più alto tasso in assoluto di malattie mentali e di esaurimenti nervosi in Italia. Non è questo il “modello di sviluppo” che ci interessa.


Lentezza” è dunque capacità di appassionarsi a quello che si sta facendo ma con un minimo di distacco e ironia, significa trovare tempo per guardare in faccia gli altri e coltivare i rapporti umani, non lasciarsi travolgere da ritmi insensatamente accelerati che alla fine non conducono da nessuna parte. L’Autore cita opportunamente un sociologo e filosofo che ho avuto la fortuna di avere come docente all’Università di Bari, il professor Franco Cassano. Uno studioso che come pochi altri ha saputo conciliare il rigore e l’approfondimento della sua disciplina con l’attenzione a ciascuno dei suoi studenti come persone. Lino Patruno cita una mole impressionante di dati, chiama in causa gli autori più disparati per dimostrare che la vita a misura d’uomo caratteristica del “pensiero meridiano” (ottima definizione elaborata dal professor Cassano) non solo è possibile ma anche necessaria, ultimamente più produttiva di una spasmodica e inconcludente corsa al denaro e alla carriera, che troppo spesso - aggiungo io - oggi si conclude solo col licenziamento.


A questo proposito, però, vorrei fare un’osservazione critica. Né Patruno né uno solo degli autori citati propongono quello che ai miei occhi è il sistema più pratico per reintrodurre concretamente, almeno in parte, un ritmo di vita più “lento”: l’abolizione dell’ora legale e il ritorno all’ora solare per tutto l’anno. Non voglio dilungarmi in polemiche, anche se sono più che pronto ad affrontarle, ma mi meraviglio che un provvedimento del genere non sia mai stato preso in considerazione, anzi che si proponga insensatamente il contrario. L’ora legale è l’ora dei padroni, un’alterazione violenta dei nostri ritmi biologici che non rende più lunga la giornata, se mai la rende più convulsa (“Come, sono già le otto?”), ci toglie il riposo ed è funzionale solo allo sfruttamento dei lavoratori. Ben lo sapevano gli operai della FIAT che negli anni ‘20 scioperarono invano contro di essa (il dimenticato “sciopero delle lancette”) solo per venire abbandonati dai loro stessi sindacati.


Questa però è una questione tutto sommato secondaria. L’interesse dell’Autore si focalizza giustamente su tre categorie di atteggiamenti, la ritornanza, la restanza e la resistenza, cui se ne aggiunge un quarto: la decisione di alcuni - purtroppo pochi - “nordici”, arrivati qui per scelta o più spesso per matrimonio o per lavoro, di trasferirsi definitivamente al Sud perché vi hanno trovato una qualità di vita migliore, e rapporti umani quasi assenti al Nord.


Ci sono due tipi di ritornanza, uno solo dei quali interessa l’Autore, e non a torto. Ritornanza non è il ritorno sconsolato dei vinti, di quelli sconfitti dal naufragio dei loro sogni oppure espulsi da un costo della vita ormai proibitivo, specialmente per gli insegnanti e gli impiegati, (due categorie alle quali il Nord attinge ampiamente se non esclusivamente dai meridionali, data la cattiva divisione del lavoro che caratterizza il nostro paese). La vera ritornanza è una scelta. È la decisione di quei meridionali che hanno studiato al Sud, sono andati a lavorare al Nord o all’estero, vi hanno maturato competenze ed esperienze lavorative e decidono di ritrasferirsi nella loro terra d’origine, aprendo attività artigianali, lavorando in ricerche di avanguardia nelle Università - a proposito, lo sapevate che l’Università della Calabria e quella di Napoli, per fare solo due esempi, possiedono istituti di ricerca scientifica a livello mondiale? -, rivitalizzando aziende agricole con procedimenti innovativi e rispettosi dell’ambiente, e soprattutto creando lavoro e occupazione in loco con le imprese da loro aperte.


Di questi esempi Lino Patruno fa un lunghissimo elenco, con nomi, cognomi, curricola, e sono storie affascinanti. Per questi uomini e donne (molto numerose e coraggiose queste ultime, davvero l”anello forte”) non è la nostalgia del paesello la spinta a ritornare, ma gratitudine e fierezza verso le proprie radici, senso di appartenenza e al tempo stesso di responsabilità, ricerca di un modo di vivere più umano che non gli sfibranti e assurdi ritmi lasciati al Nord o all’estero, e soprattutto voglia di contribuire, di infondere vita nuova a un Meridione lasciato deliberatamente indietro, inconsapevole della propria forza e dei propri meriti.


Altrettanto dicasi per le altre categorie: la restanza e la resistenza. La restanza è di coloro che scelgono di non partire, di non sentirsi sconfitti o inferiori prima ancora di aver tentato a intraprendere sul proprio territorio. E anche in questi casi sono citate storie di impegno, di fatica, di successo nonostante le tre gravi tare del Sud: una burocrazia pletorica, lenta e scarsamente efficiente, un fisco assurdamente punitivo e soprattutto la presenza della malavita organizzata (un tema a mio parere toccato troppo poco da Patruno, anche se forse l’Autore ha giustamente voluto evitare le scontate denunce di fenomeni già abbondantemente noti). Anche a questo proposito vorrei fare un’osservazione decisamente controcorrente: non la miseria crea la malavita, ma la malavita crea la miseria. Se fosse vero il contrario, le regioni più malavitose e pericolose d’Italia dovrebbero essere il mio Molise e la Basilicata, zone storicamente poverissime ma che non hanno mai conosciuto la criminalità mafiosa, mentre la malavita organizzata imperversa in regioni di per sé potenzialmente molto ricche come la Sicilia, la Campania e la Calabria.


E dunque, il Sud ha vinto? Personalmente la mia risposta è no, non ancora. Le iniziative descritte da Patruno sono molte e al di sopra di ogni elogio, ma la strada da percorrere è ancora lunga, passa soprattutto per un cambiamento di mentalità a livello politico: sarà un’impresa da giganti passare da una classe puramente dominante a una classe passabilmente dirigente. Però si sta silenziosamente creando una nuova società civile, un ceto produttivo che può cominciare a erodere la mentalità dello sconforto rassegnato, del clientelismo amorale, della deleteria abitudine di aspettare che qualcun altro venga a risolvere, miracolisticamente, i problemi al posto nostro.


Questo Meridione vincente, così ben descritto da Lino Patruno, combatte una guerra silenziosa, perseverante, quotidiana tanto all'interno, contro la sfiducia, l’arretratezza e l’apatia, quanto all’esterno, contro il pregiudizio e la sufficienza con cui il Sud è stato troppo a lungo considerato. Un libro come il suo è al tempo stesso una rivendicazione culturale, un bilancio dei risultati già raggiunti e un'indicazione per il futuro. Mi auguro, come ho scritto all’inizio, che prima o poi libri del genere non siano più necessari, ma nel frattempo c’è soltanto da desiderare che Il Sud ha vinto sia letto tanto al Sud, per farci riprendere coscienza della nostra identità e delle nostre potenzialità, quanto soprattutto al Nord, per contribuire a sfatare almeno qualche pregiudizio.


Giovanni Romano


venerdì 10 ottobre 2025

Il ciclismo salutista che non aiuta la mobilità urbana



Per due anni ho fatto il pendolare in auto tra Corato e Ruvo di Puglia. Percorrevo la strada provinciale 231, ex SS 98, e mi capitava spesso di imbattermi in ciclisti, da soli o in gruppo, attrezzati di tutto punto su biciclette da corsa, con tute e caschi degni del Tour De France.

Confesso che più di una volta mi hanno reso la vita difficile, specialmente quando li ho trovati in gruppo nei pressi di una assurda, pericolosissima strettoia alle porte di Ruvo a causa di lavori mai completati. Ma non è di questo che voglio parlare. Piuttosto, mi colpiva una riflessione: quanti di questi attrezzatissimi ciclisti usano la bici come strumento normale di spostamento all'interno della città, come invece avviene in Emilia Romagna? Praticamente nessuno. Molti di loro - c'è da scommetterci - nella vita quotidiana li ritroviamo al volante di ingombranti SUV.

E allora, a che serve questa forma di ciclismo? E' puro salutismo e poco altro, nella migliore delle ipotesi un turismo ecologico per strade di campagna poco frequentate, ma non ha nessuna incidenza sulla vita quotidiana e sulla mobilità urbana, che almeno da queste parti resta affidata interamente alle auto private, con conseguente perenne intasamento del traffico.

Lo stesso discorso si può fare per le "biciclettate". Sono iniziative estemporanee che in fondo lasciano il tempo che trovano. Si pedala allegramente tutti in gruppo, ben protetti dalla polizia urbana, su strade accuratamente predisposte e sgomberate in anticipo, ma anche qui, finita la festa, si torna alle automobili, non si crea mentalità.

E' vero che - soprattutto ai fondi del PNRR - nei nostri paesi sono state predisposte piste ciclabili, ma la bicicletta, se vuole essere un vero mezzo di trasporto, non ha bisogno di "riserve indiane". Ha bisogno di riconquistare le strade normali. Quante vie della sola Corato ridiventerebbero larghe e transitabili se solo il 20% degli automobilisti tornasse alle due ruote!

A parte l'irrealizzabilità di questo desiderio (la mentalità dell'auto come status symbol, o la pigrizia pura e semplice, è troppo radicata), vanno tenuti presenti due ulteriori ostacoli. Il primo è l'eccesso di regolazioni che minacciano l'uso della bici: si vogliono introdurre obbligatoriamente casco, ginocchiere, parastinchi, guanti e chissà quant'altro. Nemmeno si dovesse partire per un safari. Furono proprio tutte queste regole a dissuadermi dal girare in bicicletta durante un mio viaggio in Canada: poi non meravigliatevi se da quelle parti l'obesità è una piaga sociale. La bicicletta è, e deve rimanere, il mezzo di trasporto più informale che ci sia: inforchi, pedali e vai. Senza attrezzature e senza formalità.

Il secondo ostacolo, paradossalmente, è la diffusione delle pseudo-biciclette elettriche, queste sì dannose per l'ambiente sia per l'inquinamento indiretto causato dalla ricarica delle batterie, sia dai costi di smaltimento delle dette batterie una volta esaurite. Non aiutano a irrobustire il fisico per colpa della "pedalata assistita", diventano pesantissime se le batterie si esauriscono. Senza contare che spesso sono montate da giovinastri o da ragazzini in vena di bullismo. Ditemi voi se veder sfrecciare una pseudo-bici a 50 km/h col semaforo rosso, e col rischio di investire i pedoni, è ciclismo, o piuttosto la sua fine.

Giovanni Romano

lunedì 2 giugno 2025

Russia: un colpo devastante

 


Premessa: questo scritto contiene esclusivamente delle mie considerazioni personali, non può né vuole essere una analisi del conflitto russo-ucraino, e non ha nessuna pretesa di completezza. Era però da molto tempo che avrei voluto puntualizzare alcuni elementi di questa guerra che mi sembrano degni di considerazione. Quel che è avvenuto ieri, 1 giugno 2025, è stata la spinta decisiva a intraprendere questo lavoro.

Una cosa salta subito agli occhi di chiunque abbia osservato l’andamento del conflitto russo-ucraino da quel tragico giovedì 24 febbraio 2022: il suo carattere di stallo sanguinoso tipico di una guerra di posizione, cosa del tutto paradossale in un teatro operativo come quello ucraino quasi privo di ostacoli naturali, e dove entrambe le parti dispongono – o disponevano – di abbondanti e sofisticate forze corazzate. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il fronte ucraino vide avvicendarsi violentissimi combattimenti tra divisioni corazzate altamente mobili, durante i quali il fronte arretrava o avanzava di decine di chilometri al giorno, e città importanti come Kiev, Odessa e Sebastopoli caddero, vennero occupate e furono riprese con brillanti manovre da ambo le parti.

Come mai, a distanza di quasi ottant’anni, e con mezzi militari ben più sofisticati, questo non è avvenuto? Come mai, dopo l’iniziale avvicinamento russo a Kiev e la successiva ritirata, nessuna delle due parti ha potuto vantare un successo veramente decisivo? A parte la conquista di Mariupol da parte dei russi e la temporanea avanzata ucraina nella regione di Kursk, il fronte sembra essersi stabilizzato a tal punto che la conquista o riconquista di uno o due piccoli villaggi è stata gonfiata dalla propaganda fino ad apparire una grande vittoria, senza che poi accadesse più nulla per mesi interi, beninteso se s’intende l’espressione “non accadere nulla” come uno stillicidio atroce di vite umane che nemmeno interessa più i telegiornali.

Non è questa la sede per allargare il discorso sulla diplomazia e sugli attori a livello internazionale che stanno dietro a questa tragedia, ai fiumi di denaro e di armamenti che l’UE e fino a poco tempo fa anche gli USA hanno riversato in Ucraina e hanno permesso a questa nazione di reggere l’urto di un nemico tanto più forte – almeno sulla carta. Per i nostri scopi, sarà sufficiente indicare quel che si è rivelato il protagonista indiscusso di questo conflitto: il drone, che ha completamente obliterato quello che era il sistema d’arma che fu protagonista del conflitto mondiale, il carro armato. Questi congegni più o meno grossi, più o meno sofisticati, più o meno armati si sono dimostrati estremamente micidiali contro i veicoli e le navi, contro le persone, contro le strutture, per di più sono difficilmente rilevabili dai radar e sfuggono alla contraerea tradizionale. Soprattutto, grazie a loro e ai satelliti è diventato possibile il controllo completo del campo di battaglia: nulla di quel che si muove, uomo o veicolo, può più sfuggire, viene attaccato e distrutto immediatamente. La spiegazione dell’immobilità del fronte è tutta qui.

Sembrava che questa situazione dovesse prolungarsi all’infinito, a sentire le propagande contrapposte, ormai da anni la Russia non aveva più mezzi e l’Ucraina non aveva più soldati, ma da poche ore è accaduto qualcosa di inaspettato. Già da anni l’Ucraina si era rivelata in grado di effettuare azioni di sorpresa in territorio russo, in particolare sabotaggi e omicidi mirati di comandanti militari d’alto grado (iniziative che la controparte non è stata in gradi di replicare ai danni del nemico), ma stavolta la Russia è stata colpita come mai prima nel cuore stesso del suo territorio, con attacchi simultanei, ben coordinati e devastanti che non si sono limitati alle infrastrutture militari ma anche alle installazioni civili con perdite umane freddamente calcolate in anticipo.

A quanto ammesso anche dai russi, sono stati distrutti 40 bombardieri strategici con capacità atomiche, il che significa l’annientamento di una parte sostanziale dell’arsenale di deterrenza a disposizione della Russia, se si eccettuano i missili. Per la prima volta i droni ucraini hanno colpito località remotissime dal fronte come Murmansk, Irkutsk, Ryazan e Ivanovo. Per dare l’idea della profondità senza precedenti dell’offensiva, Munmarsk è a nord del Circolo Polare Artico, a oltre 2.000 km da Kiev, Ryazan a 744 km, Ivanovo a oltre 900 km, e soprattutto Irkutsk è a oltre 4.500 km, nel cuore della Siberia.

A parte l’audacia dell’infiltrazione delle piattaforme di lancio montate su comuni autocarri, del tutto sfuggiti al controllo dei russi, questo attacco significa qualcosa di ben più importante, non è solo un danno materiale già ingente di suo, ma è il crollo definitivo di uno dei vantaggi strategici che la Russia finora possedeva: l’immensità del suo territorio, la profondità delle sue retrovie che fino a ieri – letteralmente! – le avevano permesso di assorbire e respingere qualunque invasore proveniente da Ovest. Mai Napoleone si era sognato di andare oltre Mosca. Mai i tedeschi si erano potuti nemmeno lontanamente avvicinare ai monti Urali, al di là dei quali i Russi continuavano indisturbati a produrre enormi quantità di carri armati, aerei e pezzi d’artiglieria. Ora questo non è più vero: l’attacco di ieri ha dimostrato che la Russia può essere colpita in qualunque sua parte, quando, come e dove il nemico abbia deciso di colpire.

Penso che il contraccolpo morale sia stato enorme, tanto in patria che all’estero. L’Ucraina – che da anni aveva previsto una guerra con la Russia e si era preparata di conseguenza in segreto, con l’aiuto degli USA – si è rivelato un nemico micidiale, estremamente duro e ben equipaggiato. Con la presunzione tipica degli autocrati isolati dentro il proprio potere, Putin aveva sottovalutato il proprio avversario, la sua determinazione, le risorse e le alleanze sulle quali poteva contare. Si può discutere – ed è probabilmente vero – se l’Ucraina intendesse diventare la testa di ponte per armi a medio raggio destinate a mettere sotto pressione e ricattare la Russia. Ci si chiede cosa potrà accadere adesso al tavolo delle trattative, ammesso che siano possibili dopo un attacco del genere.

Una cosa è certa: l’Ucraina non può avere agito da sola. Si è trattato di una vittoria non soltanto sua ma soprattutto del partito della guerra a ogni costo da cui viene spalleggiata, e che sta già impoverendo l’Europa con ingentissime spese militari. Non è assolutamente un caso che l’attacco sia avvenuto alla vigilia della ripresa dei colloqui di pace. E se fosse vera la voce che gli USA non erano stati informati di questa operazione – da quando è stato eletto Trump gli USA hanno cessato di fornire intelligence agli ucraini – l’unica conclusione che si può trarre è che da questo momento l’America e la pace hanno un nemico in più: la UE.

Giovanni Romano

domenica 1 giugno 2025

Attenti ai messaggi motivazionali!

 


Mi è capitato di vedere scritto in un meme di Facebook:

Non disperare mai. Nessuna situazione è senza uscita, pensa agli astici nei serbatoi delle cucine del Titanic”.

Come già nella favola della volpe e dell’uva, l’esempio non è del tutto pertinente. È vero che probabilmente quei poveri astici saranno riusciti a scappare dalle vasche, ma può ben darsi che il sollievo sarà stato soltanto temporaneo. Prima di tutto, l’acqua dell’oceano è ben piu’ gelida di quella delle vasche, una temperatura alla quale gli astici certamente non erano abituati, e già quello sarebbe bastato a farli morire. In secondo luogo il Titanic è affondato in una fossa di 4.000 metri, e se avrà trascinato a fondo anche gli astici, questi saranno morti per la pressione dell’acqua, in un ambiente dove non potevano vivere. Infine, anche se gli astici fossero riusciti a uscire dalle vasche e nuotare in pieno oceano (cosa altamente improbabile, le vasche dovevano essere chiuse) non sarebbero stati in grado di nuotare per centinaia e centinaia di miglia fino ad arrivare alle acque poco profonde che sono il loro habitat (circa 50 metri al massimo), e quindi sarebbero morti, paradossalmente, per sfinimento e annegamento.

Una liberazione solo apparente, quindi. Ecco perché diffido di tanti messaggi “motivazionali”. La realtà è amara, molto più amara di quanto pensiamo, e tanto vale affrontarla com'è, senza illusioni. Una scialuppa a portata di mano è meglio di qualsiasi discorso d’incoraggiamento.

Giovanni Romano

sabato 24 maggio 2025

Il Serpente di Spoon River




 

Gli empi attirano su di sé la morte

con parole e con atti.
Ritenendola amica,
si consumano per essa
e con essa concludono alleanza
perché sono degni di appartenerle”
(Sap 1, 16)


Cominciarono ad accusarmi di libertinaggio,
non essendoci leggi antiblasfeme.
Poi mi rinchiusero per pazzo,
e qui un infermiere cattolico mi uccise di botte.
La mia colpa fu questa:
dissi che Dio mentì ad Adamo, e gli assegnò
di condurre una vita da scemo,
d’ignorare che al mondo c’è il bene e c’è il male.
E quando Adamo imbrogliò Dio mangiando la mela
e si rese conto della menzogna,
Dio lo scacciò dall’Eden per impedirgli di cogliere
il frutto della vita immortale.
Santo cielo, voi gente assennata,
ecco ciò che Dio stesso ne dice nel Genesi:
«E il Signore Dio disse: “Ecco che l’uomo
è diventato come uno di noi (un po’ d’invidia, vedete)
a conoscere il bene e il male» (la menzogna che tutto sia bene!);
«e allora, perché non allungasse la mano a prendere
anche dell’albero della vita e mangiarne, e non vivesse eterno;
per questo il Signore Iddio lo scacciò dal giardino dell’Eden».
(La ragione per cui credo che Dio crocifiggesse Suo Figlio,
per uscire da quel brutto pasticcio, è che ciò è proprio degno di Lui).

Wendell P. Bloyd
Antologia di Spoon River”


A questa poesia, che ritengo la più profonda e anche la più subdola bestemmia mai scritta, dedicai ampio spazio di discussione nel mio libro Invito a Spoon River, pubblicato nel 2013. Scrissi allora che Bloyd aveva manipolato le Sacre Scritture, stravolgendo deliberatamente il racconto biblico: è il Serpente a mentire, non Dio, quando si rivolge a Eva dicendo: “È vero che Dio vi ha proibito di mangiare tutti i frutti del suo giardino?...”, e il resto è noto.

Scrissi anche che una spia della malafede di Bloyd è appunto l’omissione del Serpente, perché – così mi parve di intuire – egli stesso è il Serpente, egli stesso è il tentatore che ripete puntualmente lo stratagemma diabolico: mettere l’uomo contro Dio, distruggerne il rapporto di amicizia e di fiducia, dividere la creatura dal creatore1. Aggiunsi che Adamo non stava affatto vivendo “una vita da scemo”, se è “da scemi” essere stato fatto signore di tutto l’universo. Inoltre, misi in rilievo un altro aspetto dell’inganno nella narrazione capziosa di Bloyd: perché il Serpente non aveva consigliato ad Adamo ed Eva di mangiare prima dell’albero dell’immortalità, e solo poi di quello della conoscenza del bene e del male? La risposta è ovvia: perché Adamo ed Eva dovevano gettare via per niente tutti i beni che già possedevano, inclusa forse l’immortalità, o quanto meno la mancanza di dolore anche nella morte. Lasciamo perdere, infine, il sofisma più grossolano di tutti: se Dio fosse stato così privo di scrupoli, così spietato verso le Sue creature, perché mai avrebbe dovuto avvertire il bisogno di “uscire da quel brutto pasticcio”? Lui così onnipotente doveva forse render conto a qualcuno?

Per molti anni mi sono accontentato di rispondere così a questa poesia, la più negativa in assoluto di Spoon River, quella più carica di rabbia cosmica, ma solo ora mi sono accorto del suo vero veleno, di dove si annida realmente la tentazione, tanto più insidiosa perché fa appello a un atteggiamento che chiunque avrà provato almeno una volta nella vita: “La menzogna che tutto sia bene!”.

Come possiamo dire che “tutto è bene”, in effetti, davanti ai lutti, alle malattie, ai fallimenti, alle disgrazie, alla morte? Come possiamo dirlo davanti alle ingiustizie, alle stragi, alle guerre, alle epidemie? Come si fa a definirli “bene”? Non è forse giustificata l’accusa mossa ai cristiani di “tenere una partita doppia” dove i conti tornano sempre, in spregio a ogni evidenza del contrario?2

Senza nulla togliere allo scandalo del dolore, e specialmente del dolore innocente, a questa accusa si può rispondere su due piani, uno storico e l’altro ontologico (che è il piano della risposta a Wendell P. Bloyd). Primo, il cristiano non usa la sua fede come anestesia contro il dolore ma come suo superamento, anche a livello operativo. Da dove sono nati gli ospedali, che l’antichità pagana non conosceva, abbandonando di fatto i malati a sé stessi? Da dove sono nati i brefotrofi che accoglievano i neonati, anziché lasciare esposti sulla pubblica piazza quelli scartati dalle loro famiglie? Da dove sono nate le confraternite, le mense per i poveri, gli ordini mendicanti che riscattavano gli schiavi cristiani dai saraceni? Da dove è nata la difesa della dignità dei lavoratori sfruttati dal capitale?

Tutte queste opere sono nate dallo sguardo diverso sulla vita – e qui siamo già sul piano ontologico – di chi si riconosce creatura, e non invidioso rivale del Creatore. La carità cristiana non ha nulla a che vedere con l’”altruismo” e con la filantropia di matrice laicista, men che meno con la fatica amara e senza orizzonte di un Sisifo che rinfaccia a Dio tutto il male, come ne La Peste di Camus. Pare che l’odio di Bloyd abbia voluto risparmiare almeno Cristo, che lui vede solo come una vittima cinicamente sacrificata dal Padre Suo per togliersi d’impiccio. Ma non così hanno ragionato gli apostoli, non così hanno ragionato e ragionano i cristiani. Solo una grande positività, una grande forza, una profondità e una bontà senza paragone potevano coinvolgere e trasformare la vita di chi conobbe Cristo e di chi nei secoli Lo ha seguito.

Ma soprattutto, l’accusa di Bloyd è viziata da una insanabile contraddizione interna. Se l’uomo resta giudice unico del bene e del male3, la sete di infinito di cui è fatto resterà senza risposta, la sua ricerca sarà senza approdo, il dolore non sarà eliminato ma diventerà sempre più insopportabilmente pesante. Finirà per trovare sempre meno “bene” nella realtà, sempre più motivi di scandalo, di contraddizione, di rifiuto. Diventerà sempre meno capace di positività, fino all’autodistruzione o alla violenta imposizione di un proprio progetto. Di questa sinistra entropia il nostro tempo ha già visto fin troppe testimonianze con le ideologie, con la droga e con i “nuovi diritti”, primo tra tutti il suicidio assistito.

Wendell P. Bloyd è la persona più sola di Spoon River. Ha già compiuto in sé la parabola dell’autodistruzione. Nel suo mondo non c’è niente che si possa definire un bene, tanto è ossessionato dal suo stesso risentimento4. Eppure, nell’Antologia questo epitaffio trova il suo straordinario contraltare in quello di Padre Malloy, forse l’omaggio più grande che un ateo abbia mai tributato a un sacerdote cattolico. Non fu certo per amore di par condicio che Lee Masters creò due ritratti così potenti, ma per cogliere la realtà in tutte le sue dimensioni, fino alle polarità più esasperate. Bloyd visse e morì solo, Padre Malloy viene celebrato – caso unico in tutta l’Antologia – dai suoi amici non credenti che si erano sentiti inaspettatamente guardati, compresi, stimolati a sollevare a loro volta lo sguardo.

Dai loro frutti li riconoscerete”. Sta a noi tenere aperti lo guardo, l’intelligenza e il cuore per poter dire, ogni giorno della vita e fino alla fine, “ne vale la pena”, e rifiutare i frutti avvelenati del risentimento e del rancore.


Giovanni Romano

1. Etimologicamente, “Diavolo” deriva dal greco “dià-ballèin”: dividere, separare, mettere contro.

2. Cfr. il libro di Franco Cassano Partita doppia, e molto di più l’opera di Albert Camus.

3. Questo è il significato riposto della frase “conoscerete il bene e il male”. In realtà, l’originale ebraico suona così: “Sarete voi a decidere cosa è bene e cosa è male”.

4. Hannah Arendt osservava molto acutamente che il rancore è la cifra caratteristica della modernità. L’uomo accetta solo ciò che si è fabbricato da sé, il prodotto fabbricato dalle sue mani, quello che ha già misurato e calcolato, ma si risente di fronte a quello che gli viene “semplicemente e misteriosamente dato”.

venerdì 23 maggio 2025

Peanuts: adulti nevrotici travestiti da bambini



Qual è il segreto dell’enorme popolarità dei PEANUTS, quegli adulti in miniatura che dei bambini non hanno nulla, né l’ingenuità, né lo stupore, né lo sguardo positivo sul mondo e nemmeno affetto per i loro genitori e per i “grandi”, salvo rarissime eccezioni?

La risposta è che i Peanuts sono la parodia nevrotica degli adulti, quanto meno in alcuni tratti del loro carattere (fortunatamente non conoscono l’avidità di denaro), sono un universo auto-contenuto e autoreferenziale che non guarda ai “grandi” se non come a un Fato impersonale e remoto che pilota inesorabilmente le loro vite sia che si tratti di andare ad abitare nel quartiere o di lasciarlo per sempre spezzando legami, amicizie, amori. I “grandi” sono la voce remota della società di cui un giorno faranno parte e che li giudica, come ad esempio la maestra. In ogni caso, gli adulti non compaiono mai e nemmeno parlano mai (uno dei tanti “mai” che incontreremo strada facendo, e che sono il marchio di questa saga). Sono Charlie Brown, Lucy, Schroeder e tutti gli altri a dar loro voce rispondendo alle loro implicite domande, spesso in modo furbo o umoristico. In ogni caso, gli adulti sono trattati da antagonisti, mai da esempi né tanto meno da guide.

Visti nell’insieme, i Peanuts sembrano niente altro che il ritratto, o meglio la caricatura dell’America profonda, quella delle piccole cittadine o dei sobborghi dove ciascuno vive nella sua villetta e non succede mai niente. È una vita che ruota intorno alla scuola, alla televisione, alle gite per il campeggio, alle vacanze, alle partite di baseball, ad Halloween più che al Natale. Una vita sempre uguale e senza riti di passaggio (né potrebbe essere diversamente) il che non significa che sia priva di avvenimenti. Al contrario, Schultz ha dimostrato una inventiva inesauribile per più di cinquant’anni, con infinite variazioni sui temi che cercheremo di delineare a breve.

In realtà, questa esistenza apparentemente tranquilla e scontata nasconde molte anomalie, e soprattutto è piena di frustrazioni, di traguardi non raggiunti, di amori non corrisposti, di sconfitte piccole e grandi d’ogni genere. Queste anomalie e queste sconfitte rappresentano, in verità, il motore della serie: se mai si fosse arrivati al classico “e vissero tutti felici e contenti” la striscia avrebbe non solo perso d’interesse ma la sua stessa ragion d’essere. Al massimo possono esserci degli addii, come quello della ragazzina dai capelli rossi a Charlie Brown, oppure l’addio a Charlie di Lucy e Linus, presumibilmente al termine della serie.

Non starò qui a discutere dei disegni: salta agli occhi di chiunque la differenza tra i tratti sommari e angolosi delle prime strisce degli anni ‘50 e lo stile più dolce, più espressivo, più raffinato che prese piede fino agli anni ‘70 inoltrati, e che li ha resi definitivamente celebri. Né farò cenno a personaggi secondari apparsi per brevi periodi e poi abbandonati. Mi concentrerò soltanto su quelli che tutti conoscono e che hanno accompagnato la serie dall’inizio alla fine.

Cominciamo a guardare più a fondo alle anomalie, molto spesso collegate ai “mai”, che sarebbero assurde e sconcertanti nel “mondo reale”. Snoopy, ad esempio, non dorme mai dentro la cuccia ma sempre sul tetto, non riporta mai indietro i bastoncini e la palla che gli lanciano i suoi amici umani, non vince mai i suoi epici scontri immaginari col Barone Rosso. Senza parlare dei suoi esilaranti romanzi (che cominciano immancabilmente con il più banale degli incipit: “Era una notte buia e tempestosa…”) mai accettati da nessun editore.

In verità, Snoopy è il più indipendente tra tutti i Peanuts, a volte persino ai limiti dell’opportunismo. Se gli parlaste di padroni, vi guarderebbe stranito: non sa nemmeno cosa siano. Per lui, Charlie Brown (che lui non cita mai per nome) è semplicemente “il bambino con la testa rotonda” (1). Charlie Brown è anche il suo cameriere: in una serie interminabile di vignette gli porta la ciotola con aria cerimoniosa, quasi fosse un’offerta sacrificale (e più di una volta glielo fa pesare). Snoopy esulta scompostamente quando arriva la cena; in caso contrario (altra anomalia) non esita a prendere rumorosamente a calci la porta anche nel cuore della notte. È un cagnolino simpatico e gentile, soprattutto nei suoi rapporti con l’uccellino Woodstock, con cui vive una sfilza sterminata di situazioni ben oltre il limite del surreale e ben entro il regno della poesia. Anche Woodstock, tra parentesi, ha il suo “mai”: non riesce mai a volare in linea retta, rimanendo puntualmente frustrato nel suo sogno di diventare un’aquila.

Che dire poi del personaggio più noto per antonomasia, Charlie Brown? È un perdente naturale, uno che si fa mettere i piedi in testa da tutti, parte per bontà d’animo ma anche per pusillanimità. I suoi “mai” sono grossi come montagne. Non riesce mai a farsi avanti con la ragazzina dai capelli rossi che pure lo ha capito, lo trova simpatico e gli vuol bene; non riesce mai a far volare il suo aquilone (un potente simbolo della libertà e della liberazione che sempre gli sfuggono); non viene mai ubbidito da Snoopy; la squadra di baseball di cui è allenatore non vince mai una partita, persino con un vantaggio di 50 punti. Confesso che come carattere non mi è molto simpatico. Ha una tendenza fin troppo spiccata alla pedanteria, si dilunga in pistolotti che vengono puntualmente stroncati o dal brutale cinismo di Lucy oppure dall’indifferenza di chi gli sta accanto (Snoopy si addormenta, gli altri se ne vanno e lo lasciano solo).

Eppure è l’unico capace di uno sguardo poetico sulle cose (non manca mai di notare un bel tramonto o il cielo pieno di stelle), ma anche in questo caso la sua sensibilità si scontra con l’indifferenza o le nevrosi di chi gli sta accanto. I suoi lunghi monologhi sono una sterile introspezione che troppo spesso diventa pretesto per non agire. Più di una volta gli tocca anche subire la violenza degli altri, inconsapevoli o meno, come quando una palla da baseball lo stende per terra svenuto e nessuno si occupa di lui, sono tutti a disputare di chi è la colpa del lancio sbagliato. Un pigliacalci, un perdente senza rimedio, dunque, e qui uso l’espressione nel senso più grave: senza riscatto, senza compenso, senza rivincita.

Tuttavia Charlie Brown si fa ricordare, e da molti anche amare, appunto per la sua bontà indifesa. Ha preso con sé Snoopy quando era un cucciolo quasi abbandonato, è l’unico dei Peanuts a vivere un rapporto positivo e affettuoso con suo padre, è l’unico che si dona e che dona, l’unico capace di guardare al di fuori di sé stesso quando si tratta di dare una mano.

Ho fatto menzione di Lucy, che per molti aspetti è non solo l’antagonista di Charlie Brown ma anche di tutti gli altri. È il J.R. dei Peanuts, il personaggio che amereste odiare. Prepotente, manesca, autoritaria, maldicente, bisbetica, scontrosa, meschina, cinica, dispotica, egocentrica al massimo… la lista delle sue caratteristiche negative è interminabile. Tiranneggia il fratello minore Linus, è il tormento continuo di Schroeder il pianista, che vessa con la sua corte asfissiante e importuna, si scontra spesso e volentieri con tutti gli altri. Anche lei, però, deve fare i conti con i suoi “mai”, che non sono da meno di quelli di Charlie Brown.

Primo fra tutti, non riesce mai a farsi amare da Schroeder, nonostante un vero e proprio assedio e una serie di inesauribili stratagemmi per riuscire a catturare la sua attenzione. È sempre lì, sdraiata davanti al suo pianoforte, a fissarlo con un sorriso che vorrebbe essere seducente e ammaliatore ma che il più delle volte si trasforma in una smorfia ebete di disappunto quando lui le risponde, gelidamente sincero, di non essere per niente interessato a lei, che non gli piace, che la trova brutta e niente affatto carina.

Prima di approfondire questa interminabile telenovela, è necessaria una domanda preliminare: chi è Schroeder? Non so a quale personaggio della vita reale si sia ispirato Schultz (anche lui tedesco di cognome, coincidenza forse non casuale), certo è che è il classico ragazzino che fa girare la testa all’altro sesso: bello, biondo e con gli occhi azzurri. Ma a lui le ragazzine non interessano: vive in un mondo tutto suo, completamente ripiegato sul suo pianoforte, dedito allo studio quasi maniacale di Beethoven. Non ho usato a caso la parola ripiegato: Schroeder è il secchione dello spartito, perennemente curvo sulla tastiera, ben diverso dai grandi pianisti che spesso suonano di slancio, rovesciandosi con la testa e il busto all’indietro, gli occhi chiusi. È forse l’unico dei Peanuts a non avere nessun “mai”, se non in senso oppositivo rispetto a Lucy.

Si direbbe che è una macchietta a una sola dimensione. Lasciato a sé stesso suonerebbe all’infinito, totalmente perso nel suo Beethoven, senza sentire mai (un altro “mai”!) il bisogno di rapportarsi con gli altri. È Lucy a portarlo alla ribalta come la sua meta irraggiungibile, il suo amore perduto, o meglio mai esistito. Paradossalmente, se non esistesse Lucy non esisterebbe nemmeno lui, non si sentirebbe il bisogno di un personaggio così monotono e assolutamente prevedibile.

Ma cosa vuole Lucy da lui? Cosa rappresenta ai suoi occhi? È veramente amore il suo? Si può senz’altro rispondere di no. Lucy vuole conquistare Schroeder, vuole essere lei il centro dei suoi interessi, lo vuole svuotare dall’interno e riempirlo del suo ego divoratore. Se i suoi tentativi di seduzione andassero a buon fine, Schroeder non diventerebbe altro che un fantoccio, una marionetta senz’anima di cui probabilmente Lucy sarebbe la prima a stancarsi. In realtà, lei lo odia, o meglio odia il suo mondo interiore che non le interessa, odia la bellezza di cui l’altro è partecipe e alla quale lei non accederà mai (un “mai” pesante quanto un macigno, questo). Soprattutto, lei odia lo strumento dell’indipendenza di Schroeder, il pianoforte. Vede in esso il suo rivale, e più di una volta ci sfoga contro la sua rabbia impotente: lo prende a calci, lo butta nella fogna, lo riduce in schegge. In questo modo vuole denudare Schroeder e ridurlo alla sua mercé. Ma il risultato è esattamente l’opposto: finisce sempre per cozzare contro il candore spietato di lui che nemmeno la odia, tanto gli è estranea interiormente.

Una delle strisce dove il contrasto Lucy-Schroeder supera i limiti dell’humor e tocca punte di autentica drammaticità è quella in cui lei si sdraia per l’ennesima volta davanti al piano che lui continua a suonare senza nemmeno alzare la testa (un altro “mai”: Schroeder non alza mai la testa dal piano a meno che Lucy non lo interpelli in maniera più o meno insinuante). Lucy sembra rendersi finalmente conto che Schroeder non l’amerà mai, che tutte le sue elaborate strategie di seduzione non hanno mai portato a nulla, ma anziché accettare la realtà e farsene finalmente una ragione, si lancia in una diatriba amara sui tormenti di un amore finito che secondo lei dovrebbero torturare Schroeder, per poi esplodere in un pauroso parossismo di violenza: prende a calci il piano, lo colpisce più volte, lo distrugge, lo calpesta fino a ridurlo in schegge, infine si butta a terra disperata e piange, piange con un pianto lungo, rabbioso, straziante. Un pianto così vero, così profondamente sentito da mettere a disagio chi legge, perché qui non è una bambina che piange, ma una donna col cuore spezzato che vede crollare tutte le sue illusioni. Lucy piange compatendo sé stessa, mette a nudo tutta la sua vulnerabilità, la sua insicurezza (ha sempre bisogno dell’ammirazione degli altri per esistere), la sua fragilità. Ma l’unica risposta che ottiene, come tante altre volte, è il silenzio allibito di Schroeder che in tutta la striscia non pronuncia nemmeno una parola e la guarda sgomento, paralizzato da tanta violenza.

La violenza, in effetti, è sottesa ai Peanuts tanto quanto è endemica nell’America reale. Lucy picchia spesso Linus oppure minaccia di picchiarlo, fa a botte con Snoopy (l’unico che le tiene testa, ma non sempre). Non è un mondo idillico, quello dei Peanuts: troppo spesso domina la legge del più forte, o di chi si crede tale.

Abbiamo accennato a Linus. Tra i personaggi della saga è quello che apparentemente si avvicina di più a un bambino, ma non è così. È molto meno sensibile alla bellezza che non Charlie Brown, molto spesso si rinchiude nel cerchio delle sue piccole manie e delle sue illusioni. La sua fama deriva, ovviamente, da una delle anomalie più vistose della saga: non si separa mai dalla sua leggendaria coperta, spesso si succhia il pollice. Abitudini che destano il fastidio e il risentimento dei “grandi”, a cominciare dalla sorella.

Ma la coperta cosa rappresenta? Bisogno di protezione, ovviamente. Rifiuto di crescere. Linus resiste vittoriosamente a tutti i tentativi di portargliela via, lotta per lei fino allo stremo, ricorre alle astuzie più impensate per sottrarla ai “grandi”, e scoppia in tremende crisi isteriche quando gliela seppelliscono, ne fanno aquiloni e peggio ancora una giacca per Snoopy. È così intenso il rapporto di simbiosi tra lui e la coperta che talvolta essa vive di vita propria. Diventa uno strumento punitivo contro i bulli, risponde con la violenza alle violenze di Lucy fino ad aggredirla e metterla in fuga urlando di terrore. È l’alter ego di Linus, la proiezione surreale delle sue paure, lo strumento altrettanto surreale della sua aggressività repressa e delle sue vendette.

Ma Linus, lo ripetiamo, non è un bambino. La sua coperta è simbolo d’infantilismo più che d’infanzia, e lui spesso mostra una pedanteria che ha poco da invidiare a quella di Charlie Brown, di cui non a caso è amico intimo. È anche il pretesto per un lato antipatico dei Peanuts: la satira anticristiana. Qualche volta Linus arriva a citare versetti della Bibbia per giustificare quello che gli fa comodo (qui forse Schultz fa il verso ai fondamentalisti, ma non solo a loro: è la caratteristica peculiare di una fede fondata solo sul Libro), e soprattutto vive nella mistica attesa di un’entità che nella versione italiana è stata pessimamente tradotta con “Il Grande Cocomero” mentre in inglese è indicata come “The Great Pumpkin”, “La Grande Zucca”, con ovvio riferimento ad Halloween. Questa “Grande Zucca” dovrebbe scendere sulla terra la notte di Halloween (non c’è bisogno di dire che non arriva mai, l’attesa notturna di Linus è sempre frustrata), portare la pace e distribuire doni ai bambini buoni.

È chiaro che tanto le citazioni bibliche quanto La Grande Zucca sono sarcastiche parodie della fede cristiana e del Natale. Se può essere giustificato il fastidio verso chi cita versetti biblici a proprio uso e consumo, l’attacco al Natale è tipico di coloro che si credono “illuminati” e disprezzano “i semplicioni” che hanno fede in qualcosa. Ma proprio questo è il segno del profondo pessimismo dell’Autore. Anche tenendo conto dei vincoli di una striscia dove i protagonisti devono restare perennemente uguali a sé stessi, l’impressione che si ricava da tutte queste storie senza sbocco, da tutte queste sconfitte, da tutti questi traguardi intravisti e mai raggiunti è quella di uno sguardo disincantato sulla vita, molto spesso reso esplicito nei dialoghi dei personaggi. L’esatto contrario del modo in cui i bambini guardano alla realtà.

Potrei proseguire per pagine e pagine citando tantissimi altri personaggi secondari come Piperita Patty o Sally, la sorella minore di Charlie Brown, ma ripeterei soltanto i temi che ho cercato di delineare finora: amori mancati, corteggiamenti rifiutati (c’è una gran paura di essere amati, tra i Peanuts), risultati scolastici perennemente pari a zero e giustificati con i più acrobatici contorcimenti mentali. Non sarebbe molto interessante.

Eppure, in cinquant’anni di costante presenza sui giornali e le riviste di tutto il mondo, i Peanuts non hanno mai dato nessuna impressione di monotonia. In parte grazie all’inesauribile inventiva di un genio come Schultz, in parte per un motivo più profondo. I suoi personaggi vivono in un limbo senza tempo, non sono bambini né lo sono mai stati, ma proprio avere l’apparenza dei bambini con le passioni e i sentimenti degli adulti consente di guardare con indulgente distacco alle loro vicissitudini, e al tempo stesso di rispecchiarci nelle loro idiosincrasie, nelle loro aspirazioni, nelle loro piccole gioie.

Possiamo ritrovarci nella profonda metafora della vita o nei momenti più umoristici, surreali e scherzosi che ci siamo visti sfilare davanti per mezzo secolo. Intere generazioni hanno guardato ai Peanuts e non solo ci si sono identificate, ma a loro volta questi adulti in miniatura hanno contribuito in non piccola parte a plasmare il modo in cui guardiamo alla realtà.

Che si tratti del contrario di un fumetto di evasione ma di un’opera che tratta temi importanti, primi tra tutti l’amicizia, l’amore, il tempo, è dimostrato dal fatto che mi sono sentito spinto a prendere posizione commentandolo e criticandolo, e con me un numero sterminato di critici più o meno acuti, più o meno autorevoli. 

Ma a qualunque livello vengano letti, i Peanuts fanno ridere, fanno commuovere, fanno pensare. È una simpatica, eterogenea tribù dove tutti i personaggi sono necessari e sono legati, in fondo, da un grande affetto: l’affetto del loro creatore e quello inesauribile dei lettori.

Giovanni Romano



1. Nell’originale c’è una sfumatura di disprezzo e di derisione, come a dire: “Quello stupidotto lì”.