Il mondo cattolico sembra colpito da uno strano, paralizzante dualismo. Non di rado i cattolici “pro life” si vedono rinfacciare da quelli “progressisti” il loro disinteresse per i poveri; i “progressisti” a loro volta si vedono rinfacciare la loro indifferenza verso i temi legati alla famiglia, alla procreazione, alle manipolazioni genetiche e all’aborto.
Sembra che ci si possa occupare di una sola causa per volta, e sembra che ognuna di queste “cause” debba per forza escludere le altre. E’ un gioco a somma zero, tanto lacerante quanto sterile, di cui i mass media e i partiti atei approfittano largamente.
Il punto è che i cattolici non hanno “cause”. I cattolici hanno Cristo e basta, che si tratti di servirLo nel non nato o che si tratti di servirLo nel povero. In nessun caso si tratta di “impegni” alternativi, ma della sola e medesima carità.
Tuttavia le due posizioni non sono sullo stesso piano, e quella “progressista”, secondo me, ha il difetto di essere più ristretta e “perbenista” dell’altra, e di dipendere troppo dalle categorie di giudizio di una cultura non cristiana.
Più di una volta mi è capitato di leggere, nelle prese di posizione “cattoprogressiste” che “l’importante non è tanto far nascere i bambini a ogni costo, quanto metterli in grado di vivere bene”. E che altro fanno i centri di aiuto alla vita? Che altro fa chi, come il Forum delle Associazioni Familiari, ha chiesto inutilmente ai vari governi di introdurre il quoziente familiare per alleggerire l’esorbitante carico fiscale di chi deve mantenere i propri figli? Che altro fa chi cerca metodi di cura con le staminali adulte?
Se non si prende in considerazione e non si tutela la vita quando davvero è più indifesa, i poveri e gli “ultimi” possono addirittura diventare un alibi per non affrontare alla radice la crisi culturale che vive la nostra società (se ancora si può chiamare tale, piuttosto che mucchio amorfo di individui come è ora).
Una volta vidi la foto di alcuni volontari che a Zurigo offrivano piatti di minestra calda a una fila di tossicodipendenti “legali”, che avevano il permesso di bucarsi in un parco cittadino riservato a questo scopo. Credo che l’esperimento sia fallito, ma il punto è un altro. Quei giovani drogati facevano paura a vedersi: spettri emaciati, gli occhi nel vuoto, i vestiti quasi a brandelli. In questo caso, può bastare scaricarsi la coscienza offrendo un piatto di minestra? O non è necessario, piuttosto, cercare di essere fino i fondo fratello di quei ragazzi, combattendo alla radice la mentalità che li ha portati fino a quel punto? Non è quella, forse, la vera opera di misericordia, piuttosto che fare docilmente i barellieri della storia? Cosa viene prima, la minestra o la persona?
L’ideologia comincia quando si tratta la realtà come un insieme di “cause” per cui battersi, e tra le quali saremmo liberi di scegliere, non come un insieme di segni cui dobbiamo obbedire, perché mandati da un Altro. Fuor di metafora: c’erano famiglie con dieci figli che ne sapevano accogliere altri non loro per carità cristiana, e persino pensare ai più poveri di loro, senza aspettare che fossero pronte tutte le condizioni per una gestione ottimale della prole. Senza dibattiti, convegni, articoli, manuali d’istruzioni. Armati solo della fiducia nella Provvidenza. E’ la coscienza della presenza di Cristo in tutto quello che viviamo che ci permette di non essere “cattolici a somma zero”, e quindi ci salva da diventare uno zero di fronte al mondo.
Un esempio di cattolico non diviso fu Mons. Tonino Bello, il vescovo di Molfetta. Alcune sue prese di posizione politiche furono discutibili, non tutto del suo insegnamento e del suo linguaggio iperbolico è condivisibile, ma una cosa emerge evidente dalla sua sofferta avventura umana: in nessun momento la cura per gli “ultimi” andò a scapito dalla cura e dalla protezione per la vita nascente. Coloro che, a sinistra, cercano d’impadronirsi della sua immagine mistificano e censurano deliberatamente quest’aspetto fondamentale della sua azione pastorale.
In un certo senso Mons. Bello si “salvò” perché, specialmente nei suoi ultimi anni, visse una unità sempre più profonda e cordiale con il Papa. Mai si atteggiò a “cattolico adulto” o a prelato-barman. Mai disse al mondo solo quel che il mondo si aspettava di sentirsi dire. Con semplicità e coraggio, dimostrò quanto sia falso il dilemma tra la difesa della vita e la solidarietà con i poveri. Una strada che noi “cattolici a somma zero” faremmo bene a seguire.
Giovanni Romano