Il
motu proprio di Papa Benedetto XVI sulla liberalizzazione della Messa tridentina ha suscitato reazioni anche troppo vivaci all’interno del mondo cattolico. I “progressisti” hanno gridato allo scandalo, al leso Concilio, a un indebito cedimento ai lefevriani, al ritorno all’oscurantismo e alle chiusure controriformiste, spesso con accenti stizziti e scomposti. Dalla parte dei “tradizionalisti”, ovviamente si è esultato, anche qui altrettanto spesso e altrettanto scompostamente, con accenti di vera e propria rivalsa, quasi fosse una resa dei conti attesa da tanto tempo.
I media laici, da parte loro, hanno seguito con un certo interesse la vicenda, e alcuni hanno intorbidato le acque a bella posta, facendo credere che il motu proprio reintroducesse, nella Messa tridentina, anche la formula sui “perfidi giudei”, eliminata invece da Giovanni XXIII. In quest’opera di disonesta diffamazione anticattolica si è particolarmente distinta, come al solito, la stampa britannica.
Ma quali effetti, in concreto, produrrà il motu proprio? Posso dire che tutto sommato saranno contenuti. Nonostante il battage che circola su Internet, in molte chiese e diocesi penso che cambierà ben poco. E non per qualche tenebrosa cospirazione dei “cattoprogressisti”. Semplicemente perché alla grande maggioranza dei fedeli il rito postconciliare va bene così com’è. Nella mia parrocchia non è successo proprio niente, e probabilmente non accadrà niente anche in futuro. Questo non perché sia una parrocchia di “progressisti”, e nemmeno perché il parroco sia pregiudizialmente ostile alla Messa in latino. Semplicemente non ci sono richieste.
Vediamo di spiegare perché. Pur facendo parte di un movimento cattolico definito “tradizionalista” e “integralista”, non ho mai sentito come prioritaria la questione della messa in latino. Né tale questione si è posta all'interno del Movimento. Non è e non sarà il latino a riempire ipso facto le chiese finora deserte, quali che siano le illusioni dei tradizionalisti e i timori ventilati dai “progressisti” di una “messa identitaria” (come se avere un’identità cristiana fosse peccato!). Piccoli gruppi di fedeli potranno riempire una chiesa o due, ma delle altre che sarà?
Si dice che il latino, oltre a essere lingua “sacra” (su questo argomento ritornerò alla fine) è anche un potente veicolo di unione tra fedeli, che in qualunque parte del mondo sentono celebrare la stessa Messa nella stessa lingua. Può darsi, ma a me è capitato più di una volta di partecipare a messe in lingua straniera, e non mi sono mai, dico mai sentito spaesato o estraneo.
La prima volta fu a Oxford nel 1980. Ricordo ancora bene come i fedeli, vedendo una faccia nuova (in Inghilterra i cattolici sono minoranza, quindi più o meno si conoscono tutti) si mostrarono sinceramente premurosi e accoglienti. Il mio vicino di banco mi passò anche il messale perché potessi seguire la celebrazione.
A Lourdes, in pellegrinaggio, la Messa era in francese, ma nessuno del mio gruppo si sentì a disagio, come pure qualche giorno prima, a Madrid, avevamo assistito a una messa in spagnolo. Anche qui, ben poco imbarazzo, anzi molta contentezza.
A Roma poi mi trovai a partecipare a una messa in francese con un folto gruppo di pellegrini haitiani. Bellissima! Canti e danze, ma non le insulsaggini giustamente criticate da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro nel loro recente libro Io speriamo che resto cattolico. Era proprio una danza di gioia, di contentezza. E non contentezza di sé: contentezza che c’era Dio. Infine, in via Monserrato mi capitò di essere l’unico partecipante alla messa di un sacerdote spagnolo, che celebrava nella sua lingua. La seguii rispondendo in italiano, con tutta la partecipazione che potevo. Poco ci mancò che la servissi.
Quindi, secondo me il problema non è tanto la lingua, ma la serietà e il coinvolgimento con cui si celebra il rito.
Questa, però, è solo la prima parte del problema, c’è in gioco ben altro. E da questo punto di vista i sostenitori del latino potrebbero anche aver più di una ragione.
Sgombriamo preventivamente il campo da un equivoco. Gli avversari della Messa in latino sostengono l’argomento banale che in realtà questa Messa ce l’abbiamo già: il latino è la lingua ufficiale della Chiesa, così basterebbe celebrare in latino anche la Messa postconciliare. Ma loro per primi sanno che di ben altro si tratta.
Tanto per cominciare, quel che si “rimprovera” alla Messa postconciliare è aver dato eccessiva enfasi alla dimensione orizzontale della “comunità” (quasi fosse una congregazione bastante a se stessa), più che a quella trascendente del rapporto con Dio. Per avere termini di riferimento più precisi, da questo punto in poi vorrei prendere in esame l’instant book scritto da un noto liturgista, Don Manlio Sodi: Il messale di Pio V: perché la messa in latino nel III millennio?
A dire il vero, mi aspettavo un libro che aiutasse a spiegasse la scelta del Papa. Invece il tono è decisamente sfavorevole, se non ostile. Non siamo all’acredine di altri testi cui ho dato solo una scorsa, ma l’insofferenza si legge tra le righe. C’è poco da meravigliarsi, Don Sodi ha avuto una parte non di secondo piano nell’elaborazione dei messali e del rito che ha soppiantato la Messa di San Pio V. Tra le righe si può dunque leggere il disappunto dell’”addetto ai lavori” che si vede mettere in discussione il frutto di fatiche che pensava fosse ormai definitivamente messo agli atti.
E' interessante notare il suo argomento d’attacco: la vera “tradizione” non è quella tridentina, ma quella del Vaticano II, che ha ripreso molti antichi testi che il Concilio di Trento aveva "censurato". Inoltre il Vaticano II ha messo a disposizione dei fedeli una lettura molto più completa dei testi biblici. Non so cosa pensare della nota teoria delle "due mense" da lui citata, la Parola e l'Eucarestia. Non mi pare però che don Sodi dia eccessiva importanza o risalto a quest'ultima. Ma Cristo non è venuto a portare solo una Parola, ci ha dato Se stesso e il Suo Corpo (come già faceva notare Sant'Agostino contro i donatisti). Inoltre, in tutto il libro si parla molto della Messa come Eucaristia (il che è corretto) ma quasi per nulla della Messa come sacrificio, come se prevalesse una concezione "ottimistica" e assembleare della Messa, che mette in ombra la Croce.
Avrei anche una domanda maliziosa –e ingiusta, alla luce delle considerazioni che ho fatto poco fa- che girerei a Don Sodi: come mai dopo il Vaticano II la liturgia e i libri si sono riempiti, ma le Chiese si sono vuotate? A che vale compilare i libri più perfetti del mondo, se poi sono venuti a mancare i fedeli? Con questo non voglio dire che l'antico rito latino fosse un toccasana. Ma forse comunicava un senso del sacro che l'attuale rito esclude.
C'è un'altra questione a cui don Sodi non fa minimamente cenno, che invece è stata approfondita -e da tempo- da Lorenzo Bianchi (non confonderlo col più gettonato Enzo Bianchi) nel suo libro Liturgia: memoria o istruzioni per l'uso?. Il progressivo allontanamento di tante formule liturgiche dallo spirito cristiano. Dalla domanda a Dio alla presunzione del proprio fare. Questa è una critica che tocca direttamente le traduzioni della stessa Messa postconciliare. Il linguaggio esplicito e vigoroso del latino è stato tradotto in formule sempre più generiche, sfumate, vaghe, buone per tutti gli usi, che hanno relegato sempre più in secondo piano la Grazia, il peccato, la richiesta di perdono, per sostituirle con un volontarismo soddisfatto di sé.
Più fondata mi sembra la critica di Don Sodi secondo cui con i due lezionari si perde l'unitarietà del cammino spirituale della Chiesa. Secondo me, però, qui si equivoca gravemente. Il Papa si è limitato a permettere il rito tridentino -mai abrogato, del resto- ma non l'ha imposto e non vuole imporlo a nessuno.
Un appunto più fondato che si potrebbe fare alla reintroduzione del rito tridentino è il costo del Messale. Quello dei fedeli costa 35 € (!) e quello per la celebrazione ben 200. Niente male per una messa "di popolo" quale si vorrebbe che fosse! Anche per queste ragioni il libro di Sodi mi sembra in alcuni punti una tempesta in un bicchier d'acqua. Con queste premesse, un movimento di massa per il ritorno al latino proprio non lo vedo.
La materia del contendere, come afferma giustamente don Sodi, è il Concilio stesso. Si può intendere il Concilio come rottura totale con quello che è venuto prima, come se tanta storia della Chiesa, tante preghiere, tante sofferenze, tanti eroismi fossero soltanto spazzatura? Il Concilio è stata rottura, come fa comodo pensare a qualcuno, o va visto in continuità con quel che è accaduto prima? La battaglia di Ratzinger non è per recuperare i tradizionalisti, come insinua Sodi, ma per sottrarre la Chiesa a quelli che il Card. Biffi definiva “i cronolatri”, quelli che si piegano allo “spirito dei tempi” senza giudicarli alla luce del Vangelo, senza chiedersi se la “modernità” sia buona di per sé oppure se non vada ciecamente e presuntuosamente incontro alla propria distruzione.
Piuttosto, non sono d’accordo su chi eleva il latino allo status di una lingua “sacra”, quasi fosse il contraltare dell’arabo per il Corano. Se il latino si è storicamente affermato anche nella Chiesa, è stato per ragioni contingenti molto concrete, non per particolari misticismi. E’ vero che il latino si presta a esprimere concetti “forti” con efficace brevità, ma Gesù non parlò in quella lingua. Se mai parlava l’aramaico, lingua meno “nobile” del greco e del latino, lingua di soldati e di scambi commerciali, lingua di popolo. Ma quel che Lui disse lo espresse con tale densità, con tale sovrana potenza da poter essere tradotto in qualsiasi altra lingua senza perdere di efficacia, tanto da mutare definitivamente il mondo e la storia. Furono le parole a rendere sacra la lingua, non la lingua a rendere sacre le parole.
Qui siamo al punto. Quando pronunciò le Beatitudini, Gesù non volse le spalle alla gente. Anzi li guardò in faccia, uno per uno. Come guardava i ciechi, gli zoppi, i dubbiosi, gli infelici. Pur incarnando vertiginosamente un Mistero che a volte lasciava sgomenti (pensiamo alla tempesta sedata, a Pietro spaventato dalla pesca miracolosa, alla risurrezione di Lazzaro, alle apparizioni ai discepoli) era un uomo che si poteva incontrare, anzi l’Uomo-Dio, il più grande incontro che si potesse fare nella vita! Se pure è giusto tenere presente il senso del sacro, sarebbe meglio non imbalsamarlo in una eccessiva ieraticità.
In un certo senso, la Messa postconciliare è quella più "difficile" per il sacerdote e per i fedeli. C’è effettivamente il pericolo dell’autoreferenzialità, molto più che nella messa tridentina. Sta al sacerdote guardare i suoi parrocchiani cercando d’imitare lo sguardo di Cristo, e ai parrocchiani guardare a lui con la stessa umile disponibilità con cui i discepoli guardavano a Cristo. Un divino che passa attraverso l'umano. E’ proprio questo il primo avvenimento da chiedere ogni volta che si celebra una Messa.
Giovanni Romano