In un momento nel quale tutti sembrano avere i nervi a fior di pelle, dove il linciaggio morale è diventata la norma, dove volano accuse, controaccuse, insinuazioni al vetriolo, dove non si desidera niente di meno che l'annientamento dell'avversario, la reazione alla sentenza del processo per l'omicidio di Simonetta Cesaroni sembra andare soprendentemente controcorrente. I giornali hanno riversato tonnellate di compassione sull'accusato, Raniero Busco, compiangendolo per il malore avuto in aula, per la moglie e i figli che dovrà lasciare per una condanna niente affatto lieve, ma comunque inferiore alla pena dell'ergastolo richiesta dal Pubblico Ministero.
In questa reazione, ammettiamolo, c'è un briciolo di verità perché la sentenza arriva tardi, veramente molto tardi, e per giunta sul processo pesa come un macigno il "suicidio" del principale testimone, Pietrino Vanacore. Ma non mi unisco al coro di quelli che considerano Busco quasi come la vittima di un perverso accanimento giudiziario e di una persecuzione della famiglia di Simonetta. Se Busco è colpevole deve pagare, e non ha nessuna importanza che "Se anche fosse coipevole, in tutti questi anni si è rifatto una vita e non ha più dato fastidio a nessuno. Ormai è un altro uomo", come ho sentito dire ieri su Radio 1 da una giornalista del "Messaggero".
Ma stiamo scherzando? Con questo metro di giudizio si sarebbero dovuti lasciare in pace anche i criminali nazisti come Kappler o Priebke, i torturatori di Videla e di Pinochet, i carnefici di Pol Pot. Anche loro si erano rifatti una vita, anche loro probabilmente non avevano più dato fastidio a nessuno. Ormai qualcuno di loro poteva essere davvero diventato un altro uomo, ma il delitto era rimasto lo stesso e continuava a chiedere giustizia.
Mi auguro sinceramente anch'io che Busco sia innocente, ma se è stato lui a uccidere con particolare crudeltà Simonetta Cesaroni, è troppo facile essersi rifatto una vita senza aver pagato il suo debito con la giustizia. Probabilmente la stampa e i media mostrano tanta pietà verso un condannato per omicidio perché ha la fortuna di non chiamarsi Silvio Berlusconi.
Giovanni Romano
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