venerdì 28 gennaio 2011

Mozart: un destino "necessario"?



Ieri discutevo via Facebook con un caro amico a proposito di Mozart, e ricordavamo un episodio che lo vide protagonista in occasione del suo viaggio a Roma nella Pasqua del 1770, quando aveva solo 14 anni. Il padre lo accompagnò alla Cappella Sistina per ascoltare il famoso Miserere di Allegri che si cantava solo il Venerdì Santo alla presenza del Papa e dei cardinali. Era una cerimonia estremamente suggestiva. La sala era buia, illuminata soltanto dalle torce tenute in mano dai cardinali vestiti dei paramenti neri, e man mano che il bellissimo Miserere per sole voci e doppio coro procedeva, ciascun cardinale andava a inginocchiarsi di fronte al Papa e spegneva la sua torcia, fino a quando la Cappella restava immersa nel buio e le voci si spegnevano in un profondissimo silenzio.
Lo spartito del Miserere era un segreto rimasto gelosamente custodito per quasi un secolo. Lo si poteva ascoltare solo a Roma e solo il Venerdì Santo. Eppure Mozart, tornato a casa, lo trascrisse a memoria, senza dimenticare (così si dice) nemmeno una legatura. Da quel momento il Miserere di Allegri fu conosciuto in tutto il mondo. I maestri della Cappella Sistina avevano previsto tutto ma non di avere a che fare con un genio.
Questo episodio basterebbe a smentire le tesi di coloro che, come Tolstoj e Brecht, credono che la storia proceda sui binari di un determinismo impersonale e che l'individuo, specialmente il genio, non abbia importanza. Ma c'è un punto ancora più significativo che la discussione mi ha fatto tornare in mente. In un romanzo del quale non ricordo né l'autore né il titolo (lo citava il Professor Franco Cassano in Partita doppia, credo) il narratore si mette nei panni di Mozart e gli fa esprimere tutta l'amarezza e il rimpianto di essere stato costretto a diventare un "fanciullo prodigio", brutalmente sfruttato dal padre che gli avrebbe rubato l'infanzia che tocca a ogni bambino. E per contrasto mi è venuto in mente il celebre saggio di Virginia Woolf a proposito della "sorella di Shakespeare" dotata quanto il fratello, appassionata della vita quanto il fratello, creativa e geniale quanto il fratello, ma condannata a lasciare arrugginire e far morire i suoi talenti nel matrimonio, nei figli, nelle faccende domestiche, solo perché donna.
Lasciamo perdere le implicazioni fin troppo devastanti che hanno avuto le tesi di Virginia Woolf sulla famiglia e sul matrimonio, e chiediamoci: chi dei due ha ragione? Da una parte si sostiene che i talenti siano un peso e quasi una maledizione di fronte a una vita "normale". Dall'altra si sostiene esattamente il contrario: è la vita "normale" a essere una maledizione di fronte alla prospettiva di liberare i propri talenti. Sembrerebbero due argomenti che si annullano a vicenda, ma non è così. Siamo proprio sicuri che a Mozart dispiacesse la fatica che comporta inevitabilmente la cura del proprio talento? Siamo proprio sicuri che fosse un forzato della musica? Al contrario, è certo che i suoi primi anni furono contrassegnati da una impressionante facilità e felicità di creare. Fu solo dopo, man mano che maturò come uomo e come artista, che comporre gli divenne più difficile, più tormentato ma enormemente più profondo. Avremmo dovuto rinunciare a tutta la bellezza che ci ha dato a vantaggio di una sazia mediocrità? E non nemmeno è giusto, come fa la Woolf, pensare che la famiglia e il matrimonio siano nemici dell'arte e della creatività, basti pensare a Bach, che avviò alla carriera artistica anche qualcuna delle sue figlie.
"Quando la gente si accorge che sai suonare, / suonare ti tocca, per tutta la vita". Nella semplice saggezza del Suonatore Jones che ci parla dall'Antologia di Spoon River forse si trova la risposta. Al proprio destino non si può sfuggire, e anche il Vangelo condanna chi seppellisce sotto terra il proprio talento.
Giovanni Romano

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