Un sacerdote che conobbi ormai tanti anni fa, di una soprendente aridità spirituale, scriveva nel suo ultimo libro, dedicato alla questione dell'esistenza di Dio ("C'è o non c'è?") che "nel cuore di ogni ateo sonnecchia un bambino credente, e nel cuore di ogni credente sonnecchia un bambino ateo".
A me sembrò da subito un'analisi arbitraria. Prima di tutto, ateismo e fede non sono sullo stesso piano, e parificarli artificiosamente è possibile solo se si riduce la fede a un semplice sistema dottrinale, come l'ateismo. La frase allora suonerebbe così: nel cuore di ogni dottrinario credente sonnecchia un dottrinario ateo, e viceversa. Non ci sarebbe mai nessuna conversione, nessun vero cambiamento.
Ma c'è anche una riflessione più profonda che smonta l'equivoco. Il credente può essere bambino (spalancato fiduciosamente alla realtà, come un bambino che si sveglia pieno di entusiasmo per il giorno che viene), l'ateo no, mai. I bambini non nascono atei. Bisogna farli diventare tali. Il bambino è semplice, l'ateo no. Il bambino si meraviglia di tutte le cose; l'ateo invece come può meravigliarsi per qualcosa che non esiste?
Che senso poteva avere dunque la falsa equiparazione tracciata dal sacerdote, se non quello di voler confondere i lettori ingenui, e offrire scappatoie a chi voleva liberarsi dal fastidio di credere?
Che senso poteva avere dunque la falsa equiparazione tracciata dal sacerdote, se non quello di voler confondere i lettori ingenui, e offrire scappatoie a chi voleva liberarsi dal fastidio di credere?
Giovanni Romano
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